TAR Marche Sez. I n. 347 del 3 giugno 2016
Ambiente in genere.Inquinamento del suolo e principio “chi inquina paga”
Conformemente al principio “chi inquina paga”, l'obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell'inquinamento o al rischio di inquinamento e che è possibile presumere l’esistenza di un nesso di causalità tra determinati operatori e l’inquinamento accertato attraverso indizi plausibili quali la vicinanza dell'impianto dell'operatore all'inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell'esercizio della sua attività. Quando disponga di indizi di tal genere, l'autorità competente è allora in condizione di dimostrare un nesso di causalità tra le attività degli operatori e l'inquinamento diffuso rilevato.
N. 00347/2016 REG.PROV.COLL.
N. 00271/2008 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 271 del 2008, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Società IPM Srl, rappresentato e difeso dagli avv. Andrea Calzolaio, Adriano Urbani, con domicilio eletto presso Alessandra Moneta in Ancona, viale della Vittoria, 27;
contro
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distr. dello Stato, domiciliata in Ancona, piazza Cavour, 29;
Ministero delle Attività Produttive,
Ministero della Salute,
Regione Marche,
Ministero dell'Ambiente e Tutela del Territorio - Direzione Generale Divisione IX,
Conferenza dei Servizi ex art.14 L.241/1990,
Azienda Sanitaria Regionale Unica delle Marche - Zona Territoriale N.8 Civitanova Marche,
Provincia di Macerata,
ARPAM Dipartimento Prov.le di Macerata,
Comune di Civitanova Marche,
Comune di Montecosaro,
ASUR Marche,
Comune di Morrovalle,
Ministero dello Sviluppo Economico;
nei confronti di
Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale - ISPRA;
per l'annullamento, in parte qua
- del Decreto direttoriale di approvazione delle determinazioni conclusive della conferenza di servizi decisoria del 10.1.2008 relativa al sito di interesse nazionale del Basso Bacino Fiume Chienti identificato con DM 18.9.2001 n. 468 e successivamente perimetrato con DM 26.2.2003;
- del Decreto direttoriale 8.10.2010 di approvazione delle determinazioni conclusive della conferenza di servizi decisoria del 30.9.2010;
- del Decreto direttoriale 24.10.2011 di approvazione delle determinazioni conclusive della conferenza di servizi decisoria del 12.10.2011;
- degli atti connessi e presupposti del procedimento, tra cui i decreti direttoriali di approvazione delle precedenti conferenze di servizi e gli atti istruttori ivi richiamati.
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 maggio 2016 il dott. Gianluca Morri e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con l’odierno gravame viene chiesto l’annullamento dei provvedimenti in epigrafe nella parte in cui prescrivono, alla ricorrente, la messa in sicurezza d’emergenza (MISE) e la successiva bonifica, dei terreni di competenza e della falda, nell’ambito delle operazioni generali di bonifica del sito di interesse nazionale del Basso Bacino Fiume Chienti identificato con DM 18.9.2001 n. 468 e successivamente perimetrato con DM 26.2.2003.
Vengono inoltre impugnati nella parte in cui dettano alcune prescrizioni riguardanti le operazioni di MISE e gli interventi di bonifica che la ricorrente ha comunque attivato in maniera spontanea e collaborativa.
Con la memoria conclusiva depositata in data 19.4.2016, la ricorrente specifica che la richiesta di annullamento riguarda le sole parti dei provvedimenti impugnati in cui contengono la prescrizione di “richiedere ai soggetti privati la formalizzazione della propria disponibilità a concorrere alla attuazione e gestione delle attività di messa in sicurezza e bonifica della falda in forma unitaria e consortile, ovvero di presentare un proprio progetto per l’intera area di competenza”.
Tale precisazione non trova tuttavia riscontro nei provvedimenti oggetto dell’odierno gravame, dovendosi verosimilmente considerare un mero refuso riguardante gli atti di precedenti ricorsi proposti, da altri soggetti, contro le conferenze di servizi decisorie 28.12.2005 e 22.2.2006 e già definiti con le sentenze di questo Tribunale nn. 126, 127, 128 e 129/2015 tutte richiamate nella citata memoria.
Si è costituito il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio per contestare, nel merito, le deduzioni di parte ricorrente chiedendone il rigetto.
2. Va innanzitutto rilevato che il motivo individuato con il numero X nel ricorso introduttivo del giudizio non contiene censure, bensì la sola riserva di chiedere eventuali misure cautelari in corso di causa.
3. Il Collegio ritiene opportuno, per ragioni di sinteticità e di connessione logica, trattare congiuntamente le censure dedotte con il ricorso introduttivo del giudizio (rivolto essenzialmente contro gli atti della conferenza di servizi decisoria del 10.1.2008 – punto 14 pagg. 34/36 del verbale) e riproposte attraverso i due successivi ricorsi per motivi aggiunti (rivolti, rispettivamente, contro gli atti delle conferenze di servizi decisorie 30.9.2010 - punto 24 pagg. 24 e 70/71 del verbale - e 12.10.2011 - punto 4 pag. 9 del verbale).
4. Attraverso una prima serie di doglianze (variamente contenute nei motivi I-II-V-VI-XI del ricorso introduttivo del giudizio, nei motivi I-II-V-VI-XII dei successivi ricorsi per motivi aggiunti e nel III motivo del secondo ricorso per motivi aggiunti), viene dedotta violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili. In particolare la ricorrente contesta le decisioni delle conferenze di servizi che impongono, al proprietario dell’area, interventi di MISE e di bonifica senza adeguata istruttoria volta ad individuare il responsabile e la provenienza dell’inquinamento (soprattutto in ordine allo stato della falda di proprietà pubblica la cui bonifica non compete ai soggetti privati); inquinamento che, nel caso specifico, è di tipo diffuso e risalente agli anni 70, pertanto non imputabile agli attuali operatori economici.
Le censure sono parzialmente fondate.
Occorre innanzitutto rilevare che le prescrizioni dettate dalla conferenza di servizi del 10.1.2008 (riproposte poi nelle successive conferenze di servizi oggetto dei motivi aggiunti) non sono meramente confermative di quelle già esaminate da questo Tribunale con le ricordate sentenze nn. 126, 127, 128 e 129 del 2015, ma derivano (cfr. pagg. 34-35 del verbale della conferenza di servizi del 10.1.2008) da una successiva e complessa attività istruttoria, attuativa del Piano di caratterizzazione approvato dalla conferenza di servizi decisoria del 28.12.2005, le cui analisi avevano escluso la contaminazione del terreno ma evidenziavano la contaminazione delle acque di falda prelevate dai piezometri. Al riguardo, l’ARPAM, con nota acquisita al protocollo del Ministero con il n. 23186/QdV/DI del 5.9.2007, aveva segnalato un aumento di concentrazione degli idrocarburi alinfatici clorurati nelle acque di falda del P23, ritenendo che tale incremento fosse imputabile alla presenza di una sorgente di contaminazione all’interno del perimetro aziendale.
Di conseguenza, la conferenza di servizi istruttoria del 2.10.2007 proponeva l’immediata attivazione delle MISE e la possibilità di prescrivere ulteriori indagini integrative al fine di individuare puntualmente la sorgente di contaminazione.
Non si può quindi sostenere che i provvedimenti impugnati in questa sede siano stati adottati in assenza di qualsiasi verifica istruttoria per accertare lo stato e la natura dell’inquinamento.
Riguardo alla sua provenienza e all’individuazione del responsabile, l’odierno Collegio non intravede ragioni per discostarsi dall’orientamento espresso nelle sentenze sopra richiamate (cfr. anche TAR Marche, nn. 123, 124 e 125/2015), e aderente alla decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, del 9.3.2010, in causa C-378/08 (cui ha sostanzialmente aderito la successiva decisione della stessa Corte, Sez. III, del 4.3.2015, causa C-534/13), nella quale si è affermato che, conformemente al principio “chi inquina paga”, l'obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell'inquinamento o al rischio di inquinamento e che è possibile presumere l’esistenza di un nesso di causalità tra determinati operatori e l’inquinamento accertato attraverso indizi plausibili quali la vicinanza dell'impianto dell'operatore all'inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell'esercizio della sua attività. Quando disponga di indizi di tal genere, l'autorità competente è allora in condizione di dimostrare un nesso di causalità tra le attività degli operatori e l'inquinamento diffuso rilevato.
Sul punto va ricordato che l’area del sito di interesse nazionale del Basso Bacino Fiume Chienti “… è interessata dalla presenza di numerose aziende del settore calzaturiero, che utilizzano composti organoalogenati per il lavaggio di fondi di calzature in poliuretano. I rifiuti di tali processi, classificati come pericolosi, sono stati sversati sul suolo, nel sottosuolo e nelle acque di falda attraverso pozzi. Gli inquinanti, costituiti prevalentemente da tricloroetano, tricloroetilene e tetracloroetilene, hanno contaminato una vasta area in sinistra idrografica del fiume Chienti, avente un'ampiezza attorno ai 10 km2 (Comuni di Civitanova Marche, Montecosaro, Morrovalle), un'area più limitata in destra idrografica, limitatamente agli ultimi 2 km della foce del fiume (Comune di Porto Sant'Elpidio) ed un'area più ristretta, la cui estensione è da definire, in destra idrografica del fiume (Comune di Sant'Elpidio a Mare)” (cfr. All. E al DM 18.9.2001 n. 468).
Nel caso specifico i dati delle analisi effettuate per la caratterizzazione dell’area di competenza e in occasione delle attività successive (comprese quelle attivate spontaneamente dalla ricorrente) hanno evidenziato la contaminazione della falda con probabile presenza della sorgente all’interno del perimetro aziendale.
La ricorrente avrebbe quindi dovuto fornire, a sua volta, indizi a proprio favore quali, ad esempio, il recente insediamento in loco o lo svolgimento (nel corso del tempo) di una attività non riconducibile al settore calzaturiero o che comunque adottava cicli produttivi che non impiegavano gli inquinanti rilevati.
Non si può quindi considerare illegittima la prescrizione di eseguire ulteriori accertamenti e di porre temporaneamente in sicurezza l’area di competenza. Al riguardo va ulteriormente osservato che gli accertamenti successivi, di cui si dà atto nelle pagg. 70 e 71 del verbale della conferenza di servizi del 30.9.2010, rilevavano che stato di contaminazione risultava ancora grave, con particolare riferimento agli esiti del monitoraggio effettuato dall’ARPAM in data 2.3.2010 da cui era emersa la contaminazione da tetracloetilene nei quattro piezometri ubicati a valle idrogeologica del sito.
Deve considerarsi invece illegittima l’ulteriore prescrizione (contenuta nel verbale della conferenza di servizi decisoria del 10.1.2008 e ribadita dalle successive conferenze decisorie del 30.9.2010 e del 12.10.2011) di presentare immediatamente un progetto di bonifica in difetto di accertamenti più precisi riguardo all’effettiva presenza di una sorgente di contaminazione all’interno del perimetro aziendale. Di conseguenza tali prescrizioni vanno annullate.
5. Con il III motivo del ricorso introduttivo del giudizio (riproposto nel III e nel IV motivo rispettivamente del primo e del secondo ricorso per motivi aggiunti), viene dedotto eccesso di potere sotto molteplici profili. In particolare la ricorrente lamenta il mancato coordinamento tra la MISE, la bonifica imposta ai privati e la bonifica (in corso di progettazione) di competenza pubblica.
Tale censura non può trovare condivisione stante la sua formulazione eccessivamente generica.
Al riguardo è sufficiente osservare che le misure imposte ai privati traggono origine dai piani di caratterizzazione delle aree di competenza e dai risultati delle successive attività (spontanee) di MISE e (in alcuni casi) di bonifica.
Come deduce parte ricorrente, gli interventi di competenza pubblica sono in fase di progettazione, per cui non è obiettivamente dato conoscere, al momento, se includono attività incompatibili con quelle svolte dai privati.
6. Con il IV motivo del ricorso introduttivo del giudizio (riproposto nel IV e nel V motivo rispettivamente del primo e del secondo ricorso per motivi aggiunti), viene dedotta violazione di legge ed eccesso di potere sotto molteplici profili. In particolare viene lamentato che le prescrizioni riguardanti la MISE e la bonifica non sono state precedute da una adeguata istruttoria volta ad accertare, sull’area della ricorrente, il superamento della soglia di rischio (CSR) di cui all’art. 240 comma 1 lett. c) del D.Lgs. n. 152/2006. La censura può essere esaminata insieme al VII motivo del ricorso introduttivo del giudizio (riproposto nel VII e nell’VIII motivo rispettivamente del primo e del secondo ricorso per motivi aggiunti), attraverso cui si contesta la sussistenza dei presupposti per esigere la MISE.
Per effetto di quanto già rilevato nel precedente 4, le censure restano assorbite per quanto riguarda la prescrizione di presentare immediatamente un progetto di bonifica.
Devono invece considerarsi infondate per quanto riguarda la richiesta di immediata MISE.
Al riguardo va osservato che la ricorrente introduce le censure in esame come se i provvedimenti del 2008 (che ritiene abbiano carattere innovativo) siano scaturiti all’improvviso e in assenza di qualsiasi sondaggio e accertamento istruttorio, quando invece, come già visto nel ricordato punto 4, alla data del 2.3.2010 esisteva ancora uno stato di grave inquinamento della falda con probabile sorgente di contaminazione all’interno del perimetro aziendale.
7. Con l’VIII motivo del ricorso introduttivo del giudizio (riproposto nell’VIII e nel IX motivo rispettivamente del primo e del secondo ricorso per motivi aggiunti), viene dedotta violazione di legge ed eccesso di potere nel prescrivere che le acque emunte devono essere considerate rifiuto liquido e trattate di conseguenza.
La censura è infondata.
Al riguardo occorre rilevare che la contestazione in esame trae origine dalla seguente prescrizione che si legge a pag. 34 del verbale della conferenza di servizi del 10.1.2008: “l'impianto di trattamento delle acque emunte dovrà assicurare allo scarico i limiti di tabella 2 allegato 5, parte quarta, titolo V del d.lgs. n. 152 del 2006 ovvero avviare le acque di falda ad un idoneo impianto di trattamento esterno all'area, debitamente autorizzato, in grado di rispettare identici limiti allo scarico”.
Detta prescrizione, applicata anche in altri siti di interesse nazionale, è già stata oggetto di ripetute pronunce del giudice amministrativo che ne hanno affermato la legittimità e che l’odierno Collegio non intravede ragioni per disattendere.
Si può ricordare, da ultimo, la diffusa argomentazione contenuta nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 4.3.2015 n. 1054 (cfr. punti 7.2 e 8.2.1), secondo cui (in sintesi):
- “la qualità delle acque che possono essere reimmesse nei corpi recettori, se sconta l’applicazione della normativa dedicata alle acque reflue industriali di cui al medesimo decreto, non è sottratta al rispetto delle altre normative comunitarie e nazionali, tra le quali la stessa normativa relativa ai rifiuti contenuta nel d.lgs. n. 152, il cui art. 185, nel testo vigente all’epoca dei fatti, nell’escludere dal campo di applicazione della parte quarta gli scarichi idrici, espressamente fa eccezione per <i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue>;
- non è fondata perciò la tesi dell’esclusione a priori, ai sensi dell’art. 243, della riconduzione al regime proprio dei rifiuti liquidi delle acque emunte in disinquinamento della falda, poiché al contrario <l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell'oggetto dell'attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto. L’allegato D alla parte quarta del medesimo decreto legislativo, nell’elencare i rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE e all'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi di cui alla decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 e alla direttiva del Ministero dell'ambiente 9 aprile 2002, ha infatti espressamente previsto, sub 19.13.07 e 19.13.08, i <rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda>”.
8. Con il IX motivo del ricorso introduttivo del giudizio (riproposto nel IX e nel X motivo rispettivamente del primo e del secondo ricorso per motivi aggiunti), viene dedotta violazione delle precedenti ordinanze cautelari nn. 383/2006 e 90/2011, adottate in ricorsi proposti da altri soggetti e che sospendevano prescrizioni analoghe a quelle impugnate in questa sede, che invece l’Amministrazione continua a reiterare.
La censura va disattesa.
Al riguardo è sufficiente osservare che le misure cautelari vengono adottate sul presupposto del periculum in mora e con effetto conservativo della re adhuc integra limitatamente al caso specifico, senza quindi produrre effetti di carattere erga omnes.
9. Con l’XI motivo del primo ricorso per motivi aggiunti (riproposto nell’XI motivo del secondo ricorso per motivi aggiunti) viene anche contestata la prescrizione di sottoporre i progetti di bonifica a procedura VIA.
La censura va esaminata nei limiti in cui influisce sul progetto di bonifica che la ricorrente intende presentare spontaneamente.
La stessa è tuttavia infondata.
Al riguardo il Collegio ritiene condivisibile la deduzione difensiva dell’Amministrazione resistente la quale evidenzia che la richiesta riguardava, innanzitutto, la verifica di assoggettabilità a VIA degli interventi previsti ed era rivolta prioritariamente alla Regione e alla Provincia (cfr. pag. 10 della conferenza di servizi del 30.9.2010).
Qualora detta verifica di assoggettabilità dovesse dare riscontro positivo, imponendo la VIA, la stessa potrà essere autonomamente impugnata nella fase successiva del procedimento.
10. Il ricorso, integrato da motivi aggiunti, va conclusivamente accolto nei limiti di cui al precedente punto 4.
11. Le spese di giudizio possono essere compensate considerata la particolarità e per certi versi complessità della vicenda in esame.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati nei limiti di cui in motivazione.
Spese compensate.
La presente sentenza sarà eseguita dall'Autorità amministrativa ed è depositata presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.
Così deciso in Ancona nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2016 con l'intervento dei magistrati:
Maddalena Filippi, Presidente
Gianluca Morri, Consigliere, Estensore
Tommaso Capitanio, Consigliere
L'ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 03/06/2016
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)