Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3528 del 28 giugno 2013
Urbanistica.Impossibilità realizzazione di manufatti su area gravata da usi civici

Il vincolo di uso civico costituisce un diritto reale di natura civica, in quanto i componenti della collettività ne usufruiscono uti cives, volto ad assicurare una utilità alla collettività ed ai suoi componenti. Ne consegue che un tale beneficio non può essere assicurato se si consente l’impiego dell’area per la realizzazione di un complesso immobiliare. In altri termini, esiste una oggettiva incompatibilità tra l’impiego esclusivo dell’area occupata da manufatti e l’esistenza di determinati usi civici sull’area stessa. La circostanza secondo cui gli usi civici siano in fase di liquidazione non incide sulla loro attuale esistenza. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 03528/2013REG.PROV.COLL.

N. 07324/2012 REG.RIC.

N. 07326/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7324 del 2012, proposto da
Coluccini Maria, Galeotti Carla, Galeotti Giorgio, Cappetta Margherita Lucia, Feola Silverio, Fioretti Lucia, Norscia Giuliano, Piciacchia Tiziana, Matteucci Luca, Matteucci Daniela, Galanelli Luigi, Rossi Carlo, rappresentati e difesi dall’avvocato Luigi Manzi, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Federico Confalonieri, 5;

contro

Comune di Ardea, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Vincenzo Parrello, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Peppino Mariano in Roma, via G. Pierluigi da Palestrina, 55;

nei confronti di

Ministero per i beni e le attività culturali, in persona del Ministro pro tempore, Soprintendenza per i beni ambientali Roma, in persona del Soprintendente pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
Fallimento Lido delle Salzare s.r.l., in persona del curatore.




sul ricorso numero di registro generale 7326 del 2012, proposto da: 
Maccelli Claudio, Focacci Luisa, Fattori Vera, Vincenti Massimo, Milone Maria Teresa, Miraglia Maria Cristina, Miraglia Antonio, Nebbia Fernando, Ferranti Maria Renata, Simiele Vincenzo, Battista Gelsa, Perrino Francesco, Borini Daniela, Miggiano Roberto, Castiglione Daniela, Castiglione Patrizia, Castiglione Stefania, Caterini Franca, Gentile Alessandro Antonio, Pepe Vincenzo, Bassan Maria Laura, Sacconi Alessandra, Persili Adriano, Fontanari Giuseppe, Specchio Laura, Cristiano Violetta, Brandi Giovanni Battista, Benedetti Paola, Ceresa Claudio, Delicato Maria Teresa, Valletta Simonetta, Ferretti Corrado, Cianchetti Maria Luisa, Bassi Massimiliano, Profeta Agnese, Profeta Giuseppe, Profeta Leonardo, Aquilino Nadia, De Paolis Rosella, Barbato Nicola, Di Savino Roberto, Fratini, Simone, Campagna Rosanna, rappresentati e difesi dall’avvocato Giuseppe Manni, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Ettore Sabetta in Roma, via N. Tartaglia, 21;

contro

Comune di Ardea, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Vincenzo Parrello, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Peppino Mariano in Roma, via G. Pierluigi da Palestrina, 55; 
Ministero per i beni culturali e ambientali, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; Fallimento Lido delle Salzare s.r.l., in persona del curatore; 
Tozzi Carla, Quattrucci Luigi, Dessena Domenica, Ignazzi Maria Luisa, Gili Giuliano, Faggiano Concetta, Veltro Anna, Rotonda Gerardo, Rasca Marina, Monteleone Angela, Truglia Mirella, Gambaro Giovanna, Zezza Lucia, Nerone Andrea, Moffa Elena Grazia, Sperandeo Costantino, Wysocki Sylwester, Grieco Rocco, Rossi Ines, Cacciaglia Antonella, Rastelli Riccardo, Sorrentino Giuseppina; Di Carlo Maria Pasquina, rappresentata e difesa dall’avvocato Roberto Colagrande, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Liegi, 35 B.

per la riforma

quanto al ricorso n. 7324 del 2012:

della sentenza 30 marzo 2012, n. 3064 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Roma, Sezione II-bis;

quanto al ricorso n. 7326 del 2012:

della sentenza 30 marzo 2012, n. 3065 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Roma, Sezione II-bis.



Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione in giudizio;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 marzo 2013 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati Andrea Manzi, per delega di Luigi Manzi, Parrello, Mani, Colagrande e l’avvocato dello Stato Tortora.



FATTO

1.– La “Lido della Salzare” s.r.l. (d’ora innanzi anche solo società) ha acquistato dalla signora Rosanna Zamboni, in data 17 novembre 1989, alcuni terreni su cui la stessa società, a seguito di una convenzione urbanistica stipulata in data 17 novembre 1989 e del rilascio, in data 21 dicembre 1989, della concessione edilizia n. 382, ha realizzato un complesso immobiliare composto da un centro commerciale, sette fabbricati turistico residenziali, nei quali sono stati realizzati duecentocinquanta appartamenti.

Con provvedimento del 1° agosto 1997, n. 24702 il dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Ardea ha annullato la concessione edilizia e la successiva variante del 27 luglio 1990. In particolare, l’annullamento è stato disposto per le seguenti ragioni: a) esistenza di un vincolo archeologico imposto con decreto del Ministero per i beni culturali e ambientali del 29 marzo 1980; b) riscontrata difformità dal progetto, con mutamento di destinazione d’uso ed eccesso di cubatura; c) presenza di un vincolo di uso civico.

Lo stesso dirigente, con provvedimento del 29 agosto 1997, n. 330, ha disposto la demolizione delle opere realizzate in forza degli atti annullati, con preavviso di acquisizione delle opere e dell’area al patrimonio indisponibile del Comune in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.

La società ha impugnato tali atti innanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio. A seguito della dichiarazione di fallimento della società il giudizio è stato proseguito dal Fallimento “Lido delle Salzare”.

1.1.– Il Tribunale amministrativo, Sezione II-bis, con sentenza del 20 novembre 2002, n. 10236, ha dichiarato inammissibile il ricorso nella parte in cui è stato impugnato il provvedimento del 1° agosto 1997, n. 24702. In particolare, ha rilevato che l’atto di annullamento impugnato era articolato su tre motivi e che la società non avesse contestato l’esistenza di un vincolo di uso civico sull’area interessata dalla costruzione del complesso. Pur a fronte di tale declaratoria, la sentenza ha ugualmente esaminato nel merito i motivi proposti ritenendoli non fondati. In particolare, si è affermato che il vincolo archeologico fosse opponibile alla società in quanto dovesse ritenersi ritualmente trascritto presso la «conservatoria dei registri immobiliari di Roma con l’identificazione dell’area secondo gli atti censuari del Comune di Pomezia (al foglio 51, particella 31), posto che non risulta contestato che non esistevano, e non sussistono tutt’oggi, registri censuari del Comune di Pomezia».

Il Consiglio di Stato, Sezione V, con sentenza 28 dicembre 2007, n. 6732, ha rigettato l’appello, confermando integralmente la sentenza impugnata.

2.– Gli immobili in esame, nel periodo compreso tra il 1994 e il 1996, sono stati oggetto di taluni contratti di vendita da parte della società a privati.

Quest’ultimi hanno proposto due autonomi ricorsi, n. 1698 del 2000 e n. 12017 del 2005, innanzi allo stesso giudice. Nel ricorso n. 12017 del 2005 i ricorrenti hanno impugnato anche il provvedimento 8 luglio 2005, n. 305, con il quale il Dirigente dell’area tecnica del settore urbanistico del Comune di Ardea ha ordinato l’acquisizione al patrimonio dell’area di sedime, disponendo la trascrizione del provvedimento e l’immissione in possesso dell’immobile.

2.1.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza non definitiva, 19 maggio 2011, n. 4369, ha ordinato al Comune di Ardea il deposito di una relazione al fine di descrivere i luoghi, indicando anche se le opere avessero o meno valenza unitaria.

Il Comune ha depositato la relazione in data 5 agosto 2011.

Il Tribunale amministrativo, con sentenze definitive 30 marzo 2012, n. 3064 e n. 3065, ha affermato che: a) la questione relativa all’opponibilità del vincolo anche ai privati acquirenti è coperta dal giudicato, «non potendosi riscontrare limiti soggettivi del giudicato stesso, con effetti soltanto fra le parti in causa, attesa la sostanziale riproposizione da parte degli odierni ricorrenti degli analoghi motivi del ricorso proposto dalla società Lido delle Salzare s.r.l. »; b) non è possibile postulare un annullamento parziale, che non coinvolga gli immobili posti su un’area non vincolata, in quanto, da un lato, non sarebbe configurabile un provvedimento di annullamento parziale delle concessioni edilizie, dall’altro, non sarebbe stata adeguatamente dimostrata la scindibilità del progetto e della costruzione e la possibilità tecnica della separazione delle porzioni di fabbricato. Nella sola sentenza n. 3065 del 2012 si è, inoltre, affermato, valutando specifiche censure, che: c) per le ragioni indicate non sarebbe illegittima la valutazione espressa dall’amministrazione comunale in ordine alla non sanabilità del complesso edilizio; d) l’ordinanza di acquisizione non sarebbe illegittima, in quanto l’applicazione della sanzione pecuniaria in presenza di permessi di costruire annullati è possibile soltanto quando viene accertata l’impossibilità di rimuovere i vizi della procedura amministrativa e la riduzione in pristino dell’opera edilizia.

3.– I ricorrenti in primo grado hanno proposto autonomi appelli (n. 7324 e n. 7326 del 2012) avverso le predette sentenze, per i motivi riportati nella parte in diritto. Nell’ambito dell’appello n. 7326 del 2012 ha proposto appello incidentale autonomo Di Carlo Maria Pasquina (una delle ricorrenti nel giudizio di primo grado), deducendo motivi sostanzialmente analoghi a quelli prospettati dagli altri appellanti.

3.1.– Si è costituito in giudizio il Comune di Ardea, eccependo, in via preliminare:

- l’inammissibilità del ricorso, per mancata contestazione della parte del provvedimento di autotutela che faceva riferimento, oltre che al vincolo archeologico, anche i) alla riscontrata difformità dal progetto per modifica della destinazione d’uso e per eccesso di cubatura, nonché ii) all’esistenza di un uso civico sull’area interessata dalla costruzione del complesso;

- la tardività del ricorso per motivi aggiunti, con il quale è stato impugnato anche il decreto impositivo del vincolo, in quanto lo stesso è stato notificato quattro anni dopo la proposizione del ricorso principale;

- l’inammissibilità per genericità della domanda di risarcimento dei danni.

Nel merito, il Comune ha chiesto che gli appelli vengano dichiarati infondati.

3.2.– Si è costituito in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali, chiedendo che gli appelli vengano rigettati.

DIRITTO

1.– La questione posta all’esame della Sezione con gli appelli indicati in epigrafe attiene alla legittimità dell’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia e dei successivi provvedimenti di demolizione e acquisizione al patrimonio pubblico di un complesso immobiliare.

2.– Gli appelli proposti, stante la loro connessione oggettiva, possono essere riuniti affinché vengano decisi con un’unica sentenza.

3.– In via preliminare, deve essere esaminate l’eccezione di inammissibilità dei ricorsi di primo grado e di appello per la mancata formulazione di censure anche con riguardo alla parte del provvedimento di autotutela della concessione edilizia fondata sull’asserita difformità dal progetto delle opere realizzate per modifica della destinazione d’uso e per eccesso di cubatura, nonché per l’esistenza di un uso civico.

L’eccezione è fondata.

La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato è costante nell’affermare che se l’atto impugnato è legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti per difetto di interesse le ulteriori censure dedotte avverso le altre ragioni opposte dall'autorità emanante a rigetto della sua istanza (da ultimo, Cons. Stato, IV, 5 febbraio 2013, 694).

Nel caso in esame, l’amministrazione comunale, nell’annullare d’ufficio la concessione edilizia, ha fondato la propria determinazione su tre autonome ragioni: a) esistenza di un vincolo archeologico; b) difformità dei manufatti realizzati rispetto al progetto, con mutamento di destinazione d’uso e aumento di cubatura; c) insistenza sul terreno di usi civici.

Le parti appellanti non hanno, in particolare, censurato la parte dell’atto impugnato che ha fatto riferimento alle illegittimità del progetto con riguardo all’aumento di cubatura realizzato.

Né varrebbe rilevare, come hanno fatto gli appellanti, che le relative censure sono state ritualmente prospettate mediante il richiamo ai motivi di ricorso non esaminati dal primo giudice.

L’art. 101 Cod. proc. amm. prevede che le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, per evitare che si intendano rinunciate, devono essere espressamente riproposte nell’atto di appello. Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che non è sufficiente, per soddisfare il principio di specificità di motivi di appello, il mero e generico richiamo ai motivi di primo grado senza alcuna ulteriore precisazione del loro contenuto (Cons. Stato, V, 28 dicembre 2012, n. 6684; Cons. Stato, VI, 10 aprile 2012, n. 2060). Ciò vale soprattutto in presenza di fattispecie, come quella in esame, in cui al generico richiamo alle censure di primo grado segue poi un riferimento a specifici motivi tra i quali non è ricompreso, tra gli altri, quello relativo alle difformità del progetto. Tali omissioni non possono essere ritualmente sanate, al fine di salvaguardare il rispetto dei termini perentori per proporre appello, mediante la specificazione dei motivi nelle memorie illustrative depositate nell’imminenza dell’udienza pubblica.

4.– Nel merito, gli appelli, per le ragioni di seguito indicate (che seguono un ordine di verso da quello prospettato nei ricorsi), sono, comunque, infondati.

4.1.– Con un primo motivo si assume che il primo giudice non si sarebbe pronunciato in ordine alla ritualità della notificazione del vincolo archeologico all’originaria proprietaria.

La nullità della notifica deriverebbe, in primo luogo, dal fatto che: i) la notifica è stata eseguita alla sig.ra Zamboni Rosanna e non, come avrebbe dovuto, alla sig.ra Zamboni Rossana; ii) l’atto è stato consegnato ad una persona qualificatasi come Micci Nicola, fattore, senza che lo stesso fosse incaricato della ricezione e senza che vi fosse la prova che fosse addetto al recapito e ne avrebbe curato la consegna al destinatario; si aggiunge che la sig.ra Zamboni, «da sempre residente a Roma (…)non aveva in Ardea alcuna azienda agricola cui fosse preposto un fattore ed il sig. Micci non aveva alcun rapporto di dipendenza con la destinataria dell’atto».

Il motivo, a prescindere dalla questione relativa alla eccepita tardività del ricorso per motivi aggiunti nel giudizio di primo grado, non è fondato.

In relazione alla questione relativa al nome della destinataria della notificazione, è sufficiente rilevare che si tratta di un mero errore materiale non idoneo a creare, in assenza di altre indicazioni, confusione in ordine alla individuazione dell’effettivo destinatario (cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 22 gennaio 2013, n. 22).

In relazione alla questione relativa al nome dell’addetto alla ricezione, l’art. 139, secondo comma, Cod. proc. civ., applicabile anche al giudizio amministrativo, stabilisce che, quando non è possibile effettuare la notifica in mani proprie ovvero nel Comune di residenza, «l’ufficiale giudiziario consegna copia dell’atto» ad una persona «addetta» all’«ufficio o all’azienda». Affinché tale notificazione sia regolare è sufficiente che «esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto» (Cass., I, 17 dicembre 2007, n. 26572). La prova della mancanza di tale rapporto spetta alla parte che ne eccepisce l’irregolarità (Cons. Stato, VI, 23 febbraio 2012, n. 1034): nella specie l’appellante si è limitato a rilevare che tra il sig. Micci e la sig.ra Zamboni non vi fosse alcun rapporto di dipendenza e che lo stesso non avesse dichiarato che avrebbe curato la consegna al destinatario. Si tratta di deduzioni generiche non sufficienti a fare ritenere raggiunta la prova sopra indicata. Altrettanto generica, soprattutto in considerazione della vastità dell’area di proprietà della sig.ra Zamboni sui cui è stato realizzato il complesso immobiliare, l’affermazione secondo cui la stessa non avrebbe alcuna azienda agricola in Ardea.

4.2.– Con un secondo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha rilevato che vincolo in esame fosse inopponibile agli appellanti per irregolarità nella notificazione. In particolare, si assume che la trascrizione avrebbe dovuto essere effettuata presso il Comune di Ardea e non di Pomezia, in quanto il complesso immobiliare è stato realizzato nel territorio del primo Comune.

Il motivo non è fondato.

Nel giudizio promosso dalla società e definito con sentenza passata in giudicato, sia il Tribunale amministrativo sia questo Consiglio di Stato hanno già avuto modo di rilevare, con considerazioni da condividere, che il Comune di Ardea, dove si trova il complesso immobiliare, al momento della trascrizione del vincolo avvenuta nel 1980, non aveva un autonomo catasto diverso da quello del Comune di Pomezia. Ne consegue che il vincolo è stato regolarmente trascritto.

Né per pervenire a una diversa conclusione è sufficiente richiamare, come fanno gli appellanti, la sentenza 7 marzo 2011, n. 4926 del Tribunale di Roma che ha escluso la responsabilità di uno dei notai che, senza rendere edotta taluni degli acquirenti, ha posto in essere atti di compravendita relativi ad immobili compresi nel complesso. Sul punto è, infatti, sufficiente rilevare – a prescindere da qualunque altra considerazione relativa, tra l’altro, alla definitività o meno dell’accertamento giudiziale – come la diversità delle valutazioni che devono essere effettuate per stabilire l’eventuale illegittimità del vincolo ovvero la responsabilità dei notai esclude di potere trasporre gli esiti di un accertamento giudiziale da un piano all’altro.

4.3.– Con un terzo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto che gli appellanti avessero dimostrato in giudizio che il progetto esecutivo fosse scindibile e che, quindi, l’amministrazione avrebbe potuto procedere all’annullamento parziale, con esclusione degli immobili (in particolare i fabbricati E-F-G), che non si collocano in area vincolata.

Il motivo non è fondato.

L’amministrazione comunale, come già sottolineato, ha annullato il permesso di costruire alla società per tre concorrenti ragioni: a) esistenza di un vincolo archeologico; b) riscontrata difformità dal progetto, con mutamento di destinazione ed eccesso di cubatura; c) presenza di un vincolo di uso civico. Non è, dunque, sufficiente rilevare che alcuni immobili, di proprietà degli appellanti, non ricadono nella zona vincolata. Non è stato, infatti, dimostrato che la realizzazione delle singole unità immobiliari, non solo fosse avvenuta in maniera da garantire l’autonomia delle singole unità, ma non “interferisse” con nessuna delle tre ragioni poste a base dell’annullamento d’ufficio. Si tenga conto che almeno uno dei motivi di accertata illegittimità – mutamento di destinazione ed eccesso di cubatura – è in grado di invalidare il progetto nella sua interezza.

4.4.– Con un quarto motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui sono stati ritenuti irrilevanti i motivi proposti avverso la relazione depositata dall’amministrazione comunale nel giudizio di primo grado. In particolare, si assume che il Comune, con statuizione avente valenza provvedimentale, avrebbe affermato, tra l’altro, che le opere in esame non sarebbero neanche suscettibili di sanatoria.

Il motivo non è fondato.

La relazione sopra indicata aveva una finalità esclusivamente istruttoria. La questione relativa alla sanatoria non avrebbe potuto entrare nel giudizio amministrativo instaurato. L’accertamento di conformità presuppone, infatti, che le parti presentino una domanda che deve essere poi valutata dal Comune. Le affermazioni contenute nella predetta relazione non possono, pertanto, avere determinato alcun pregiudizio nella sfera giuridica degli appellanti.

5.– Nel ricorso di appello n. 7326 del 2012, non nell’appello incidentale autonomo, sono stati riproposti altri motivi non esaminati nel giudizio di primo grado.

5.1.– Con un primo motivo si è dedotta l’illegittimità degli atti impugnati per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo di annullamento della concessione nei confronti della società e degli appellanti.

Il motivo non è fondato.

La questione relativa alla posizione giuridica della società è stata definita con sentenza passata in giudicato e non può essere rimessa in discussione con gli odierni appelli.

Per quanto riguarda, invece, la omessa comunicazione nei confronti degli appellanti è sufficiente rilevare che, al momento dell’avvio del procedimento, gli stessi, pur subendo un pregiudizio dal provvedimento finale, non risultavano formalmente dagli atti impugnati, con la conseguenza che l’amministrazione non aveva alcun obbligo di comunicazione. Essi, pertanto, avrebbero potuto soltanto intervenire nel procedimento (v. art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241). In ogni caso, avuto riguardo al contenuto della statuizione finale, la stessa, anche se fosse stato comunicato l’avvio del procedimento, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso (art. 21-octies della legge n. 241 del 1990).

5.2.– Con un secondo motivo si assume l’illegittimità dell’annullamento della concessione, in quanto l’esistenza di usi civici non implicherebbe l’irrealizzabilità di qualunque progetto. Si aggiunge, inoltre, che l’esistenza di tali usi civici era conosciuta dal Comune, che, con il suo comportamento, ha leso l’affidamento ingenerato nei privati.

Il motivo, a prescindere dalla sua tempestività, è comunque infondato.

In via preliminare è opportuno chiarire che costituisce dato non contestato che sull’area in esame insistono usi civici. La circostanza, addotta dagli appellanti, secondo cui gli stessi siano in fase di liquidazione non incide sulla loro attuale esistenza (il procedimento amministrativo di liquidazione è disciplinato dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766).

La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di rielvare che il vincolo di uso civico costituisce un diritto reale di natura civica (in quanto i componenti della collettività ne usufruiscono uti cives) volto ad assicurare una utilità alla collettività ed ai suoi componenti (Cons. Stato, VI, 6 marzo 2003, n. 1247). Ne consegue che un tale beneficio non può essere assicurato se si consente l’impiego dell’area per la realizzazione di un complesso immobiliare. In altri termini, esiste una oggettiva incompatibilità tra l’impiego esclusivo dell’area occupata da manufatti e l’esistenza di determinati usi civici sull’area stessa.

4.3.– Con un terzo motivo si assume l’erroneità della sentenza per non avere la stessa esaminato la censura con cui gli appellanti avevano dedotto la omessa notificazione dell’ingiunzione di demolizione e il verbale di accertamento dell’inottemperanza. Da qui l’illegittimità dell’ordine di acquisizione. Sul punto si sottolinea, inoltre, come l’amministrazione non abbia provveduto ad individuare con esattezza l’area da acquisire al patrimonio, in quanto, da lato, «le particelle indicate nel provvedimento impugnato non corrispondevano ai frazionamenti intervenuti nel tempo», dall’altro, non sarebbe stata inclusa la particella n. 32 che è quella ove sono collocati gli immobili di proprietà degli appellanti.

Il motivo non è fondato.

L’art. 7, comma 3, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), vigente al momento dell’adozione dell’ordine di demolizione n. 330 del 1997 e del verbale del 26 maggio 1998 di accertamento dell’inottemperanza, imponeva l’obbligo di demolizione in capo al responsabile dell’abuso al quale la relativa ordinanza andava notificata. In caso di inottemperanza si poteva acquisire il bene al patrimonio pubblico. Il successivo comma 3 prevedeva che «l’accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire (…)previa notifica all’interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente» (si v., ora, art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia»).

Alla luce di quanto esposto ne consegue che la notificazione dell’ordine di demolizione soltanto al responsabile dell’abuso è conforme alla disciplina sopra riportata. L’attuazione dell’ordine di acquisizione presuppone, invece, la previa notificazione anche al proprietario dell’area.

Nel caso in esame non rileva stabilire se effettivamente tale notificazione vi sia stata, in quanto sono gli stessi appellanti ad affermare che tale ordine non ha riguardato l’area ove sono collocati gli immobili di loro proprietà. In definitiva, la prospettazione del motivo di ricorso effettuata dagli appellanti rende la trattazione del motivo priva di interesse, sul piano della lesività, per gli appellanti stessi.

5.– A questo punto, per ragioni di ordine logico, può essere esaminato il motivo che gli appellanti hanno, in entrambi gli appelli, posto come primo. In particolare, con esso si assume l’erroneità delle sentenze nella parte in cui hanno ritenuto che, con le decisioni del Tribunale amministrativo e del Consiglio di Stato, ha acquisito autorità di cosa giudicato la legittimità del provvedimento di autotutela della concessione edilizia e della successiva variante, nonché l’ordinanza di demolizione delle opere realizzate e della conseguente acquisizione dell’area al patrimonio pubblico. Ciò in quanto: a) sono parzialmente diversi gli atti impugnati, essendo stato censurato anche il decreto impositivo del vincolo; b) sono diverse le parti, in quanto nel presente giudizio è stato evocato anche il Ministero dei beni culturali ed il Fallimento della “Lido delle Salzare”; c) sono diversi la causa petendi ed ilthema decidendum.

Una volta dimostrato, per le ragioni sin qui indicate, che gli appelli sono comunque infondati, diventa non rilevante stabilire se la questione oggi controversa sia o meno coperta dal giudicato formatosi tra l’amministrazione comunale e la società dante causa degli odierni appellanti. In altri termini, l’esame dei motivi sin qui svolta ha dimostrato come le censure prospettate, a prescindere dall’esistenza o meno di un giudicato sul tema controverso, non possono trovare accoglimento.

6.– Infine, devono essere esaminati i motivi con i quali si assume l’erroneità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla richiesta di risarcimento del danno. In particolare, si afferma che «con il ricorso introduttivo del presente giudizio gli odierni ricorrenti hanno chiesto la condanna al risarcimento del danno, in solido e/o alternativamente, del Comune di Ardea, del Ministero per i beni culturali ed ambientale ed del Fallimento Lido delle Salzare, previo accertamento delle responsabilità di ciascuno in ordine alla causazione dei danni subiti e subendi dagli ordierni ricorrenti». Si aggiunge, nell’atto di appello, che, anche nel caso in cui non venissero annullati gli atti impugnati, sussisterebbe la responsabilità dell’amministrazione per avere ingenerato un affidamento negli acquirenti in ordine alla validità degli atti posti in essere dall’amministrazione. Sempre nell’atto di appello si riporta parte del contenuto della richiesta come «meglio esplicata» nella memoria del 28 febbraio 2011.

Il motivo non è fondato.

In via preliminare, è bene chiarire che gli appellanti hanno proposto una domanda di risarcimento da provvedimento illegittimo e, in caso di accertata validità del provvedimento, una domanda di risarcimento da lesione dell’affidamento ingenerato mediante il rilascio di un provvedimento illegittimo.

Tali domande sono indicate esclusivamente, nei termini sopra esposti, nell’epigrafe del ricorso introduttivo n. 16928 del 2000. Nell’altro ricorso n. 12017 del 2005 le domande sono indicate nell’epigrafe e negli stessi termini nelle conclusioni. In entrambi i ricorsi i presupposti legittimanti la richiesta non sono indicati nella parte motiva del ricorso. Le domande sono, pertanto, inammissibile per genericità. Né potrebbe tale genericità essere superata dalle specificazioni contenute nelle memorie difensive, in quanto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto più volte modo di affermare che è inammissibile la domanda di risarcimento del danno proposta in una memoria non notificata (Cons. Stato, V, 5 ottobre 2011, 5445; Cons. Stato, IV, 8 agosto 2008, n. 3923).

In ogni caso, la domanda di risarcimento del danno da provvedimento illegittimo è infondata, in quanto, una volta accertato che gli atti impugnati sono esenti dai vizi denunciati, viene meno un elemento costitutivo della responsabilità della pubblica amministrazione.

La domanda di risarcimento da lesione dell’affidamento può, invece, essere proposta, innanzi al giudice amministrativo, dalla società, che ha presentato la domanda di concessione edilizia e realizzato il complesso, nei confronti del Comune. In questo caso, infatti, il danno lamentato è strettamente connesso all’esercizio del potere pubblico. Dagli atti del processo risulta che la società ha proposto un autonomo ricorso, per ottenere tale tipologia di danni, che è stato respinto dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sentenza 22 giugno 2009, n. 5981, oggetto di appello non ancora definito. La questione, invece, afferente al rapporto tra società e terzi acquirenti, involgendo anche l’eventuale responsabilità dei notai che hanno redatto l’atto di vendita, ha natura esclusivamente privatistica e la relativa domanda può essere proposta innanzi al giudice ordinario.

7.– La natura della controversia giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando:

a) dispone la riunione dei ricorsi in appello n. 7324 e n. 7326 del 2012, indicati in epigrafe;

b) rigetta entrambi gli appelli proposti;

c) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 marzo 2013 con l'intervento dei magistrati:

Giuseppe Severini, Presidente

Gabriella De Michele, Consigliere

Roberta Vigotti, Consigliere

Andrea Pannone, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 28/06/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)