Cass. Sez. III n. 42122 del 15 ottobre 2019 (UP 8 apr 2019)
Pres. Rosi Est. Gentili Ric. Dimo
Beni culturali.Commercio opere d’arte contraffatte

La fattispecie delittuosa di cui all’art. 178, co 1, lett. b) dlv 42\2004 si realizza con la attività dell’agente consistente nella messa in commercio, nella detenzione per la messa in commercio, nella introduzione nel territorio dello Stato o, comunque, nella circolazione in esso come autentici di esemplari di opere d’arte oggetto di contraffazione, riproduzione o alterazione. Non ha alcun rilievo la circostanza che l’acquirente, dichiaratosi esperto conoscitore d’arte, avrebbe dovuto cogliere  la non genuinità delle opere in questione, considerato che il reato - perfezionatosi non al momento della vendita ma già in quello della detenzione per la vendita o in quella della messa in vendita - è volto a tutelare, oltre al patrimonio storico artistico dal rischio del suo inquinamento causato dalla circolazione di oggetti d’arte falsi, anche l’affidamento sulla genuinità di quanto, in questo settore, venga posto in commercio, affidamento che deve intendersi riferito non all’individuo di particolare esperienza ma all’utente medio del mercato artistico


RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Torino, con sentenza del 13 luglio 2018 ha solo in parte confermato, accogliendo in tal senso l’impugnazione del prevenuto, la sentenza con la quale, il precedente 16 settembre 2015, il Tribunale di Vercelli aveva dichiarato Dimo Mario responsabile dei reati a lui ascritti, ed aventi ad oggetto la violazione: dell’art. 178, comma 1, lettera b), del dlgs n. 42 del 2004, per avere posto in commercio, come autentiche, 4 opere d’arte (si trattava di quattro dipinti, uno a firma di Fortunato Depero, uno di Primo Conti e due di Maurice de Vlaminck) risultate false; dell’art. 648 cod. pen., perché, al fine di trarne profitto, riceveva le predette opere d’arte, frutto del precedente reato; dell’art. 640 cod. pen., perché, inducendo in errore, con artifizi e raggiri, tale Torti Remo in ordine alla bontà dell’affare, si faceva pagare da questo la somma di euro 4.300,00 per la cessione delle opere di cui sopra, e lo aveva, pertanto, condannato, concesse le attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, alla pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione ed euro 800,00 di multa, oltre ad accessori.
La Corte territoriale, nel riformare parzialmente, come detto, la sentenza del Tribunale di Vercelli, ha assolto il prevenuto dai reati di cui agli artt. 648 e 640 cod. pen., per l’insussistenza del fatto, confermato la responsabilità del Dima in ordine al residui reato e ridotto la pena a lui irrogata a mesi 10 di reclusione ed euro 500,00 di multa.
In particolare la Corte ha osservato, quanto al delitto di ricettazione, che lo stesso non era configurabile in quanto al momento in cui il Dimo aveva ricevuto le opere contraffatte il reato di cui al capo a) della contestazione ancora non era intervenuto, e, quanto al reato di truffa, che non vi era stata alcuna attività da parte del prevenuto volta a raggirare l’acquirente delle opere in questione, non avendo mai l’imputato espressamente dichiarato all’acquirente che i quadri da lui posti in vendita erano effettivamente degli autori dei quali risultava la firma.
La Corte ha, invece, ritenuto dimostrata la responsabilità quanto alla violazione dell’art. 178, comma 1, lettera b), del dlgs n. 42 del 2004, considerato che il Dimo aveva messo in vendita, come autentici, i quadri di cui sopra pur nella consapevolezza che gli stessi erano stati oggetto di “contraffazione, alterazione o riproduzione”.
Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione, tramite il suo difensore di fiducia, il Dimo, formulando tre motivi di impugnazione.
Con il primo motivo, svolto sotto il profilo, a quanto pare, del travisamento della prova, il ricorrente ha contestato l’affermazione dell’avvenuto accertamento della sua responsabilità per il reato contestato sulla base di presunte dichiarazioni confessorie da lui mai rilasciate.
Con il secondo motivo è stata dedotta la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza in capo all’imputato dell’elemento soggettivo del reato a lui ascritto.
Infine, con il terzo motivo è stata lamentata la mancanza di motivazione in ordine alla specifica doglianza formulata in sede di appello relativamente alla applicabilità alla fattispecie della disciplina del reato impossibile, di cui all’art. 49 cod. pen.    

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Esaminando congiuntamente i primo due motivi di impugnazione, aventi ad oggetto la sussistenza del reato di cui al capo a), l’unico per il quale è stata confermata la dichiarazione di penale responsabilità del prevenuto, osserva il Collegio che non vi sono elementi per ritenere, come sostenuto dal ricorrente che i giudici del merito abbiano valorizzato, onde dimostrare la penale responsabilità del Dimo, una qualche confessione resa da quest’ultimo; essi hanno, infatti, semplicemente apprezzato la circostanza che il Dimo abbia posto in vendita i quadri di cui al capo di imputazione con la assicurazione che gli stessi fossero “a firma” degli autori da lui stesso indicati.
Premesso che la disposizione incriminatrice sanziona la condotta di colui il quale “pone in commercio, come autentici, esemplari contraffatti, alterati o riprodotti di opere di pittura”, la difesa dell’imputato, il quale avrebbe dichiarato di non essere a conoscenza della autenticità o meno delle opere in questione, non pare tale da giustificare una soluzione diversa da quella correttamente assunta dai giudici del merito.
Infatti, avendo il Dimo dichiarato, in contrasto con la realtà. che le pitture di cui sopra erano “a firma” degli autori da lui indicati (dovendosi attribuire a tale dizione la affermazione della genuinità delle opere e della loro attribuzione a chi ne risultava essere il firmatario), egli ha fornito degli elementi tali da far ritenere che fosse a conoscenza della autenticità delle medesime; la circostanza che, invece, abbia fornito la predetta assicurazione, evidentemente onde attribuire un rilevante pregio agli oggetti da lui posti in vendita (cui, sebbene siano stati ceduti dall’imputato ad un prezzo assolutamente inferiore a quello che gli stessi avrebbero avuto ove fossero stati autentici, è stato attribuito in sede di vendita un valore altrettanto sproporzionato ove ne fosse stata pacifica la loro falsità) in assenza di adeguate verifiche da parte sua in ordine alla rispondenza al vero di tale indicazione, appare idonea ad integrare l’elemento oggettivo del reato in questione, costituito dalla messa in commercio di opere d’altre contraffatte, e quello soggettivo, quanto meno sotto il profilo del dolo eventuale, consistente nella assunzione del rischio da parte dell’imputato che la sua assicurazione in ordine alla genuinità di tali opere non rispondesse al vero.
Manifestamente infondato è anche l’ultimo motivo di ricorso, con il quale il Dimo ha lamentato l’omessa motivazione in ordine al motivo di appello riferito alla riconducibilità della fattispecie a lui ascritta alla figura del reato impossibile di cui all’art. 49 cod. pen.; ad avviso del ricorrente, infatti, la mancanza di genuinità delle opere pittoriche di cui al capo di imputazione era così evidente che la stessa non sarebbe potuta sfuggire ad un soggetto quale l’acquirente di esse, qualificatosi esperto del settore.
Sul punto si rileva che, sebbene la sentenza non abbia diffusamente motivato al riguardo, tuttavia essa ha giustificato il rigetto del motivo di impugnazione sulla base della considerazione che, sebbene la falsità delle opere fosse riconoscibile da un esperto, la stessa caratteristica non sarebbe stata manifesta ove ad esaminare gli oggetti fosse stato l’acquirente medio.
Ciò detto, osserva il Collegio che la struttura del reato impossibile postula, per la sua ricognizione, che la azione posta in essere dall’agente abbia i caratteri della oggettiva inidoneità e non che la stessa si palesi tale per effetto di una qualche peculiarità della fattispecie.
Come, infatti, è stato ribadito, richiamata una costante indicazione giurisprudenziale di questa Corte, da cui non vi è ragione di discostarsi, ai fini della configurabilità del reato impossibile, l'inidoneità dell'azione deve essere assoluta per inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato così da non consentire neppure in via eccezionale l'attuazione del proposito criminoso (Corte di cassazione, Sezione V penale, 3 marzo 2015, n. 9254; idem Sezione II penale, 23 marzo 2004, n. 7630).
Con riferimento, poi, ai reati di falso, cui per evidenti analogie contenutistiche la residua imputazione contestata al Dimo può essere proficuamente accostata, è stato rilevato che la grossolanità della contraffazione, che dà luogo al reato impossibile, si apprezza solo quando il falso sia ictu oculi riconoscibile da qualsiasi persona di comune discernimento ed avvedutezza e non si debba far riferimento nè alle particolari cognizioni ed alla competenza specifica di soggetti qualificati, nè alla straordinaria diligenza di cui alcune persone possono esser dotate (Corte di cassazione, Sezione V penale, 22 febbraio 2016, n. 6873; idem Sezione I penale, 11 novembre 2011, n. 41108).
Nel caso in esame - precisato che la fattispecie delittuosa si realizza con la attività dell’agente consistente nella messa in commercio, nella detenzione per la messa in commercio, nella introduzione nel territorio dello Stato o, comunque, nella circolazione in esso come autentici di esemplari di opere d’arte oggetto di contraffazione, riproduzione o alterazione - indubbia essendo la destinazione al commercio delle opere contraffatte detenute dal Dimo, non ha alcun rilievo la circostanza che l’acquirente, dichiaratosi esperto conoscitore d’arte, avrebbe dovuto cogliere  la non genuinità delle opere in questione, considerato che il reato - perfezionatosi non al momento della vendita ma già in quello della detenzione per la vendita o in quella della messa in vendita degli oggetti di cui al capo di imputazione - è volto a tutelare, oltre al patrimonio storico artistico dal rischio del suo inquinamento causato dalla circolazione di oggetti d’arte falsi, anche l’affidamento sulla genuinità di quanto, in questo settore, venga posto in commercio (Corte di cassazione, Sezione III penale, 1 giugno 2006, n. 19249), affidamento che deve intendersi riferito non all’individuo di particolare esperienza ma all’utente medio del mercato artistico
Mercato che, nell’attuale momento storico, non è esclusivo monopolio, in relazione ad opere (quali quelle di cui al capo di imputazione, tutte nominalmente riferite a Maestri del Novecento) di non particolarmente elevato valore, di soggetti dotati di specifiche competenze storico-artistiche ovvero assistiti da consulenti aventi tali caratteristiche, ma è frequentato anche da semplici appassionati o anche da modesti investitori, non dotati di particolari cognizioni, il cui affidamento sulla lealtà delle contrattazioni è opportunamente oggetto di tutela.
La circostanza, pertanto, che la falsità delle opere non fosse evidente per chiunque ma fosse riconoscibile solo per un individuo esperto del settore, e pertanto non fosse immediatamente percepibile dalla tipologia di soggetti tutelati dalla norma incriminatrice, esclude la riconducibilità del fatto alla ipotesi del reato impossibile.         
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del prevenuto, visto l’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.         

PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 in favore della Cassa delle ammende.
      Così deciso in Roma, il 8 aprile 2019