Cass. Sez. III n. 31809 del 5 agosto 2024 (CC 7 giu 2024)
Pres. Galterio Rel. Galanti Ric. Passerin
Beni culturali.Presunzione di proprietà pubblica

Sui beni culturali vige una presunzione di proprietà pubblica con la conseguenza che essi, sulla base di una oramai ultrasecolare tradizione normativa, appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge n. 364 del 1909; r.d. n. 363 del 1913; legge n. 1089 del 1939; articoli 826, comma 2, 828 e 832 del codice civile), la cui disciplina è rimasta sostanzialmente invariata anche a seguito della introduzione del decreto legislativo n. 42 del 2004. Sono fatte salve ipotesi tassative e particolari, nelle quali il privato che intenda rivendicare la legittima proprietà di reperti archeologici o comunque di beni qualificabili come culturali deve fornire la relativa, rigorosa prova, dimostrando, alternativamente che: 1) reperti gli siano stati assegnati in premio per il loro ritrovamento; 2) i reperti gli siano stati ceduti dallo Stato; 3) i reperti siano stati acquistati in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909. 

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 12/03/2024, il Tribunale del riesame di Firenze rigettava la richiesta di riesame proposto nell’interesse di Passerin D’Entreves Anna, avverso il provvedimento con cui il pubblico ministero aveva convalidato il sequestro probatorio, eseguito in data 24/10/2023, dai Carabinieri di Firenze NTPAC, avente ad oggetto una scultura raffigurante una «testa di Gorgone Medusa» del XVI secolo d.C.. 
Nel provvedimento, il Tribunale del riesame dava atto della circostanza che la Passerin D’entreves aveva proposto riesame con motivi riservati, che tuttavia non venivano esplicitati neppure in udienza.

2. Avverso tale provvedimento ricorre la Passerin D’entreves deducendo – quanto al fumus commissi delicti - violazione di legge e segnatamente dell’articolo 169, lettera b), d. lgs. n. 42/2004, 712 cod. pen., 25 Cost., 1, 2 e 157 cod. pen..
Censura altresì manifesta illogicità della motivazione tale da configurare l’errata applicazione di norme di diritto.
Contesta l’affermazione secondo cui l’attuale formulazione dell’articolo 169 d. lgs. 42/2004 riprodurrebbe fattispecie già esistenti nelle leggi precedenti, di cui il decreto costituisce una sorta di Testo Unico. La questione è concreta in quanto la scultura in argomento fu oggetto di dispersione negli anni ‘20 del XX secolo.
Ed infatti, la prima legge in materia fu l’articolo 12 della l. 364/1909, che imponeva tra le altre cose un divieto di rimozione delle opere d’arte, ma solo quando fossero di proprietà pubblica, mentre per i privati, solo ove l’opera d’arte fosse stato oggetto di notifica (circostanza non sussistente nel caso di specie) se ne imponeva il divieto di alienazione o la dismissione del possesso senza previa denuncia al Ministero della pubblica istruzione.
Solo con la c.d. “legge Bottai” (1089/1939) si chiese, anche per le opere appartenenti a privati, l’obbligo di autorizzazione anche per il semplice distacco.
Ma tale legge è entrata in vigore circa venti anni dopo la sparizione della testa di Medusa, già incastonata nel Ninfeo di Fattucchia.
Pertanto, l’affermazione secondo cui l’articolo 169 della legge Rosadi riproduce disposizioni previgenti è errata e viola la legge.
Né può ritenersi reato la mancata riapposizione nel luogo di originaria collocazione dopo che la statua pervenne per via ereditaria nella disponibilità della ricorrente, posto che la condotta descritta dall’articolo 169 è necessariamente “attiva”, e mai omissiva.
Neppure è ipotizzabile, sotto il profilo del fumus, il reato di cui all’articolo 712 cod. pen., difettando gli elementi oggettivi sintomatici di una provenienza illecita dell’opera de qua al momento della sua apprensione per via ereditaria.

3. In data 30 maggio 2024, l’Avv. Giampiero Santoni del Foro di Firenze, per la ricorrente, faceva pervenire memoria difensiva, in cui contestava le conclusioni del Procuratore generale.
Evidenziava che, diversamente da quanto opinato dal P.G., la testa di Gorgone Medusa non è un bene archeologico e ribadisce che, sebbene il P.G. proponga una diversa qualificazione giuridica dei fatti contestati, occorre anteriorizzare il dettato normativo alla luce dal fatto che i fatti «indiscussi» di cui trattasi risalgono agli anni ‘20, ossia prima della l. 1089/1939.

CONSIDERATO IN DIRITTO 

1. Il ricorso è inammissibile.
Preliminarmente il Collegio evidenzia che, nel caso in esame, l’odierna ricorrente non aveva specificato i motivi di riesame.
Tale mancanza di «specificità» dei motivi incide sulla intensità dell'obbligo di motivazione, che, in caso di conferma del provvedimento impugnato, potrà essere attenuato e risolversi in una valutazione degli elementi indiziari non condizionata dalla necessità di rispondere alle specifiche argomentazioni della difesa (Sez. 2, n. 27865 del 14/05/2019, Sepe, Rv. 277016).
Più specificamente si è precisato che, in tema di impugnazione delle misure cautelari reali, il cd. «effetto devolutivo» del riesame deve essere inteso nel senso che il tribunale è tenuto a valutare, indipendentemente dalla prospettazione del ricorrente, ogni aspetto relativo ai presupposti del sequestro (fumus commissi delicti e periculum in mora), ma non anche a procedere all'analisi di aspetti ulteriori, quali, ad esempio, elementi fattuali - non espressamente dedotti - da cui possa desumersi un diverso inquadramento giuridico della fattispecie di reato contestata (Sez. 3, n. 37608 del 09/06/2021, Rv. 282023 - 01 Sez. 3, n. 35083 del 14/04/2016, Rv. 267508). 
Tale premessa, calata nel contesto concreto, consente sia da ora di affermare che la motivazione resa dal Tribunale del riesame non presenta vizi di sorta.

2. Il Collegio sottolinea come a pagina 2 dell’ordinanza impugnata si precisi che non si procede nei confronti della odierna ricorrente nella qualifica soggettiva di indagata, in quanto il sequestro è stato eseguito nei confronti di «ignoti», richiamandosi a tal proposito quella giurisprudenza secondo cui ai fini del sequestro è necessaria la sussistenza di elementi che rendano ipotizzabile il reato per cui si procede, non essendo tuttavia richiesto che gli stessi riguardino un soggetto individuato, potendo, infatti, il vincolo essere disposto anche nei confronti di ignoti (Sez. 3, n. 35312 del 08/06/2011, Pancotti, Rv. 250859 – 01), e secondo cui occorre un collegamento tra il reato e la res sequestrata, e non già tra il reato e la persona, non essendo indispensabile l’individuazione del responsabile del reato (Sez. 2, n. 19105 del 28/04/2011, Iapigio, Rv. 250194 - 01).
Tale affermazione appare conforme all’indirizzo di questa Corte, di recente ribadito (Sez. 4, n. 12470 del 12/03/2024, Roggio, n.m.), secondo cui il sequestro probatorio è un «mezzo di ricerca della prova» e può essere eseguito quando sussiste il fumus della commissione di un reato inteso nella sua accezione materiale senza che sia necessaria la sussistenza di gravi indizi della responsabilità dell’indagato. 
Esso può dirsi quindi ritualmente disposto, purché sia ragionevolmente presumibile o probabile (anche sulla base di argomenti di carattere logico), la commissione di un reato (Sez. 3, n.6465 del 14/12/2007, dep.2008, Penco, Rv. 239159; Sez. 2, n. 84 del 16/01/1997, Becacci, Rv. 203468). 
A cascata, in sede di riesame il Tribunale è chiamato a verificare la sussistenza dell’astratta configurabilità del reato ipotizzato, non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla fondatezza dell’accusa, bensì con riferimento alla idoneità degli elementi su cui si fonda la notizia di reato a rendere utile l’espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto (Sez. 3, n. 3465 del 03/10/2019, dep. 2020, Pirlo, Rv. 278542; Sez. 2, n. 25320 del 05/05/2016, Bulgarella, Rv. 267007). 
In altri termini: per ritenere la legittimità di un sequestro probatorio è sufficiente la sussistenza del fumus del reato unita alla possibilità che le cose oggetto del vincolo siano state utilizzate per commetterlo o ne costituiscano il prodotto, il profitto o il prezzo. 
Qualora tale fumus emerga dalle indagini svolte, il sequestro è legittimo perché volto a stabilire (in sé stesso o per le indagini che l’apprensione del bene rende possibile) se il collegamento pertinenziale tra la res e l’illecito, oltre che possibile, sia concretamente esistente (Sez. 6, n. 1683 del 27/11/2013, dep.2014, Cisse, Rv. 258416; Sez. 2, n. 31950 del 03/07/2013, Fazzari, Rv. 255556; Sez. 3, n.13641 del 12/02/2002, Pedron, Rv. 221275). 
Muovendo da queste premesse si è affermato che «la motivazione dell’ordinanza confermativa del decreto di sequestro probatorio è meramente apparente solo quando le argomentazioni in ordine al fumus del carattere di pertinenza ovvero di corpo del reato dei beni sottoposti a vincolo non risultano ancorate alle peculiarità del caso concreto» (Sez. 4, n. 43480 del 30/09/2014, Giovannini, Rv. 260314).

3. Applicando questi principi a caso in esame il Collegio evidenzia come l’ordinanza impugnata faccia buon governo dei principi sopra esposti.
A pagina 2, infatti, sottolinea come il fumus della sussistenza del reato di cui all’articolo 169 d. lgs, 42/2004, anche se commesso da altri, deriva dalla comunicazione di notizia di reato del N.T.P.A. dei Carabinieri di Firenze, dall’annotazione di p.g. del 19/12/2023, dalla relazione storico-artistica della D.ssa Anna Florida, nonché dalle annotazioni di p.g. del 24/01/2024 e 19/02/2024, i cui contenuti la ricorrente (che in sede di riesame non ha dedotto motivi) non contesta.
Si evidenzia che, dagli atti di indagine surrichiamati emerge che la scultura, sequestrata presso la Casa d’Aste «Pandolfini» di Firenze, costituiva una parte strutturale ed inamovibile di una delle fontane comprese nel complesso architettonico del «Ninfeo della Fata Morgana», creata dal Maestro Giambologna nel 1572, e che mai era stata rilasciata un’autorizzazione per la rimozione della testa del Ninfeo dalla Sovrintendenza competente, ai sensi dell’art. 169 d. lgs. n. 42 del 2004. 
Si trattava di un’opera dispersa forse negli anni ‘20 del secolo scorso, che, a seguito della restituzione alla famiglia Morrocchi, non era stata ricollocata dai proprietari dell’epoca nel luogo di origine, bensì all’interno della loro residenza.
Nel 1996, l’intero complesso era stato ceduto al Comune di Bagno a Ripoli e, nel D.M. del 1997 il bene in oggetto era stato indicato come scomparso, contrariamente al vero, probabilmente al fine di evitare l’apposizione del vincolo che avrebbe reso illegittima la sua cessione, anche se pervenuto in eredità.

4. Il Tribunale del riesame correttamente argomenta la sussistenza – nei limiti anzidetti – del fumus commissi delicti.
La giurisprudenza di questa Corte – che il Collegio ribadisce - è fermamente orientata (v., da ultimo, Sez. 3, n. 9101 del 24/01/2023, Ongaro, n.m.) a ritenere che sui beni culturali vige una presunzione di proprietà pubblica con la conseguenza che essi, sulla base di una oramai ultrasecolare tradizione normativa, appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge n. 364 del 1909; r.d. n. 363 del 1913; legge n. 1089 del 1939; articoli 826, comma 2, 828 e 832 del codice civile), la cui disciplina è rimasta sostanzialmente invariata anche a seguito della introduzione del decreto legislativo n. 42 del 2004. Sono fatte salve ipotesi tassative e particolari, nelle quali il privato che intenda rivendicare la legittima proprietà di reperti archeologici o comunque di beni qualificabili come culturali deve fornire la relativa, rigorosa prova, dimostrando, alternativamente che: 1) reperti gli siano stati assegnati in premio per il loro ritrovamento; 2) i reperti gli siano stati ceduti dallo Stato; 3) i reperti siano stati acquistati in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909. 
Le Sezioni civili di questa Corte (Sez. 1, 10 febbraio 2006, n. 2995, in motivazione) hanno affermato che la legislazione di tutela dei beni culturali, in particolare dei beni archeologici (ma il principio vale anche per gli atri beni di interesse storico-artistico), è informata al presupposto fondamentale, in considerazione dell’importanza che essi rivestono (anche alla luce della tutela costituzionale del patrimonio storico - artistico garantita dall’art. 9 Cost.), dell’appartenenza di detti beni allo Stato, per cui l’art. 826, comma 2, cod. civ. assegna al patrimonio indisponibile dello Stato «le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate»: disciplina confermata dalla legge. n. 1089 del 1939, artt. 44, 46, 47 e 49, cui rinvia l’art 932, comma 2, cod. civ..
Pertanto, tale presunzione di proprietà statale non crea un’ingiustificata posizione di privilegio probatorio perché siffatta presunzione si fonda, oltre che sull’id quod plerumque accidit anche su una «normalità normativa» sicché, opponendosi una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve darsene la prova (così, in motivazione, Sez. 3, n. 42458 del 10/06/2015, Rv. 265046-01 e Rv.265047 - 01). 
Trattandosi di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato, il provvedimento ablativo non incide pertanto sul diritto di proprietà privata (Sez. 3, n. 9101 del 24/01/2023, Ongaro, cit.). 
In conseguenza di ciò, la relativa confisca – da disporsi ai sensi dell’articolo 240, comma 2, cod. pen. - deve essere obbligatoriamente disposta anche se il privato non è responsabile dell’illecito o comunque non ha riportato condanna, fatta salva la sola eccezione che la cosa appartenga a persona estranea al reato, poiché trattasi di misura recuperatoria di carattere amministrativo la cui applicazione è rimessa al giudice penale a prescindere dall’accertamento di una responsabilità penale. 

5. Quanto alla posizione del terzo estraneo al reato, questa Corte affermato – con un principio che il Collegio condivide e ribadisce - che il soggetto estraneo al reato, in caso di collegamento del proprio diritto con l’altrui reato, ha l’onere di provare il proprio affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza sulla liceità della provenienza del bene che renda scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza. (Sez.3, n. 11269 del 10/12/2019, dep.02/04/2020, Rv.278764 - 02) e che non può ritenersi estraneo alla commissione del reato non solo colui che, con il suo comportamento, anche solo colposo, abbia dato causa al fatto costituente illecito penale, ma anche colui che abbia tratto consapevole giovamento dalla sua commissione, dovendosi individuare il contenuto di tale giovamento in qualsivoglia condizione di favore, pure non materiale, derivata dal fatto costituente reato (Sez.3, n. 22 del 30/11/2018, dep. 02/01/2019, Rv. 274745 - 04).
La Corte, nella sentenza ultima citata, ha anche precisato che ha tratto consapevole giovamento dal reato anche colui che «si trovi nel possesso del bene culturale, a prescindere dalla destinazione di questo alla produzione di un beneficio materiale in favore del detentore» 

6. Nel caso concreto, il Ninfeo di Fattucchia è bene culturale sottoposto a tutela in forza del D.M. del 28/06/1997. 
Tale qualifica si estende anche alle parti del Ninfeo che furono separate - in epoca risalente - dal corpo dell’opera, di cui costituiscono completamento e pertinenza. 
Questa Corte ha in proposito reiteratamente affermato – con principio che il Collegio intende ribadire, in quanto consente un’adeguata protezione dell'immobile di interesse culturale considerato nel suo complesso - che integra il reato di cui all’art. 169 cit. (che sanziona le condotte già previste dall’articolo 59 della legge 1089/39 e poi dall’articolo 118 del d.lgs.490/99) anche la condotta di chi esegue senza autorizzazione interventi su cose mobili che, costituendo «pertinenze» di un immobile vincolato, connotate da un «collegamento oggettivo e funzionale al bene vincolato» (Sez. 3, n. 45149 del 08/10/2015, Pisu e altro, Rv. 265445), sì da formare con esso una «unità stilistica» (Sez. 3, n. 6295 del 10/4/1997, Franceschetti, Rv. 208692), contribuiscono a salvaguardarne l’interesse storico ed artistico (Sez. 3, n. 31337 del 13/06/2019, Purpura, n.m.; Sez. 2, n. 7622 del 27/02/1986, Simoni, Rv. 173415; Sez. 3, n. 11927 del 29/10/1985, Pisano, Rv. 171323).
Quanto al tempus commissi delicti, l’ordinanza precisa che la «scomparsa» della testa della Gorgone negli anni ‘20 del secolo scorso, è una «storia non riscontrata» (pag. 4), ossia non suffragata da alcun elemento di prova. Non sussistono quindi – allo stato - elementi certi per affermare che la scomparsa della scultura sia avvenuta precedentemente alla legge n. 1089 del 1° giugno 1939.
L’unica certezza, prosegue l’ordinanza, è che essa ricomparve decenni dopo (la prima data sicura di descrizione dell’opera è il 1961) nelle mani dei vecchi proprietari (che, surrettiziamente, ne dichiararono lo smarrimento proprio per evitare di sottoporla al d.m. del 1997) e da questi, per via ereditaria, alla odierna ricorrente.
Ciò premesso, evidenzia il Collegio come, proprio in ragione dell’eminente natura pubblica e culturale del complesso ninfeale, l’odierna ricorrente non può ritenersi legittimata a chiederne la restituzione, avendo la stessa tratto consapevole giovamento dalla commissione del reato di cui all’articolo 169 d. lgs. 42/2004 e dovendosi escludere che la stessa possa ritenersi in buona fede, essendo note in letteratura, come sottolinea l’ordinanza impugnata, le vicende della testa di Gorgone (pag. 3, secondo cui l’opera è stata ricevuto col sospetto della provenienza illecita, «in quanto conosciuta e pubblicata negli anni in varie riviste di settore»).
Pertanto, se è vero che la condotta prevista dall’articolo 169 d. lgs. 42/2004 può essere solo «commissiva» e non anche «omissiva», per cui il «distacco» di parte dell’opera, pur se vietato almeno dal 1909, non può alla stessa essere attribuito, tale affermazione appare priva di rilevanza ai fini che qui interessano, stante quanto sopra affermato.
Nel caso in esame, in conclusione, non solo la situazione di buona fede della ricorrente va esclusa, ma l’avere affidato il bene ad una casa d’aste – con evidente destinazione alla vendita, fissata per il 26/10/2023 - potrebbe in ipotesi integrare anche taluno dei delitti introdotti dalla l. 9 marzo 2022, n. 22.

7. Alla luce di quanto affermato nei paragrafi che precedono, la prescrizione del reato presupposto da altri commesso, così come del reato di cui all’articolo 712 cod. pen., addebitabile alla ricorrente, costituiscono pertanto dati “neutri”, posta la evidente necessità di recuperare al patrimonio artistico pubblico il bene abusivamente distaccato.
Il ricorso è pertanto inammissibile per difetto di legittimazione.

8. Inoltre, poiché il reato presupposto è stato commesso (ancorché da altri) su bene pubblico e quindi soggetto a confisca obbligatoria, anche in caso di eventuale annullamento del decreto di sequestro la ricorrente non avrebbe comunque titolo ad ottenerne la restituzione, ai sensi dell’articolo 324, comma 7, cod. proc. pen., pacificamente applicabile anche al sequestro probatorio (Sez. U, n. 40847 del 30/05/2019, Rv. 276690 - 01), circostanza che costituisce ulteriore elemento di inammissibilità del ricorso, stavolta per carenza di interesse.

9. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
Alla declaratoria dell’inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento. Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.

P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 07/06/2024.