Cass. Sez. III n. 35577 del 29 agosto 2016 (Ud 6 apr 2016)
Pres. Amoresano Est. Riccardi Ric. Cella
Beni Culturali.Vincolo di tutela indiretta e beni paesaggistici

Il c.d. "vincolo di tutela indiretta" riguarda esclusivamente i beni culturali, e non anche i beni paesaggistici, pur facendo parte entrambi del "patrimonio culturale" ed è imposto per la conservazione  e protezione dei beni culturali. In particolare, per vincolo indiretto si intende quella serie di prescrizioni limitative che vengono imposte a beni diversi da quello culturale oggetto di tutela, che si trovano in relazione spaziale con quest'ultimo. L'istituto del vincolo indiretto ha, quindi, la finalità della tutela dei caratteri e del contesto del bene soggetto al vincolo diretto, assicurandone, attraverso prescrizioni destinate alle aree o agli edifici circostanti, e non necessariamente confinanti, il mantenimento dell'integrità, della prospettiva, della luce, delle condizioni di ambiente e decoro.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 9 maggio 2012 il Tribunale di Pavia condannava C.L. alla pena di anni uno e mesi due di reclusione, in ordine ai reati di abuso d'ufficio e concorso in esecuzione di opere edili in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione della Soprintendenza, per aver, in qualità di Sindaco e responsabile dell'UTC del Comune di (OMISSIS), nonchè di consigliere di amministrazione della cooperativa di consumo tra lavoratori di (OMISSIS), proprietaria dell'immobile e committente dei lavori, concorso nell'esecuzione di opere edili (trasformazione di un porticato in ambiente chiuso) in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione della Soprintendenza, e per aver omesso l'adozione dei provvedimenti di vigilanza, in tal modo procurando un ingiusto vantaggio patrimoniale alla cooperativa.

2. Con sentenza del 3 febbraio 2015 la Corte di Appello di Milano, in parziale riforma, dichiarava estinti per prescrizione i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), e D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 169 - 181, confermando nel resto la sentenza di primo grado, e rideterminando la pena in anni uno di reclusione.

2. Avverso tale provvedimento il difensore dell'imputato, Avv. Alessandra Stefano, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due distinti motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

2.1. Violazione di legge processuale per mancanza di correlazione tra accusa e sentenza: l'imputazione originaria degli illeciti edilizi ed ambientali contestava l'esecuzione di lavori su un bene vincolato senza permesso di costruire, con aumento di superficie e volumetria, mentre nella sentenza di condanna il reato è stato individuato nella realizzazione di lavori in assenza della c.d. super-DIA, e nell'inosservanza delle prescrizioni a tutela del vincolo monumentale di tipo indiretto (D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 172 e 45); in virtù del carattere derivativo dell'imputazione di abuso d'ufficio, la radicale trasformazione del fatto ha comportato la mutazione anche del fatto di abuso, nel quale l'indebito vantaggio patrimoniale non sarebbe più rappresentato dall'incremento di volumetria e superficie, bensì dall'incremento del valore del fabbricato.

2.2. Violazione di legge sostanziale in relazione all'art. 323 cod. pen.: lamenta la mancata conoscenza del vincolo indiretto da parte dell'imputato, in assenza, peraltro, di notifica all'interessato; deduce che non ricorre l'ingiustizia del vantaggio, in quanto era stato rilasciato, in data 05/07/2010, parere favorevole della Commissione Edilizia; infine, deduce l'assenza di dolo intenzionale, mancando altresì la consapevolezza dell'illegittimità dell'intervento.

3. Con memoria pervenuta il 27/03/2016 il Comune di Lardirago, costituito parte civile, ha chiesto il rigetto del ricorso e la condanna al risarcimento dei danni ed alla rifusione delle spese.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Preliminarmente, va ribadito che deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (ex multis, Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608).

Invero, nel caso in esame i motivi di ricorso appaiono identici a quelli sollevati con l'appello, e motivatamente respinti dalla sentenza impugnata, con la quale non propongono un reale e motivato confronto argomentativo, limitandosi a contestazioni avulse dal concreto tessuto motivazionale.

Infatti, mentre per il giudizio d'appello rileva solo la genericità intrinseca al motivo stesso, prescindendosi da ogni confronto con quanto argomentato dal giudice del provvedimento impugnato, per il giudizio di cassazione è generico anche il motivo che si caratterizza per l'omesso confronto argomentativo con la motivazione della sentenza impugnata (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 31939 del 16/04/2015, Falasca Zamponi, Rv. 264185; Sez. 6, n. 13449 del 12/02/2014, Kasem, rv. 259456, secondo cui "la genericità dell'appello o del ricorso per cassazione va valutata in base a parametri diversi, in conseguenza della differente conformazione strutturale dei due giudizi, e soltanto in relazione al secondo costituisce motivo di inammissibilità per aspecificità la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione").

Il difetto di specificità dei motivi, ricompreso fra le ipotesi che impongono la dichiarazione dell'inammissibilità ai sensi dell'art. 591, comma 1, lett. c), in relazione all'art. 581 c.p.p., lett. c), deve intendersi come la manifesta carenza di una censura di legittimità, chiaramente identificabile.

Nel caso di specie, la genericità dei motivi si evince dalla mera deduzione, senza alcun confronto argomentativo con la sentenza impugnata, della pretesa violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, e, quanto all'abuso d'ufficio, della inopponibilità e ignoranza del vincolo indiretto, e della insussistenza dell'ingiustizia del vantaggio e del dolo intenzionale.

3. Il ricorso, peraltro, è inammissibile non soltanto sotto il profilo processuale, ma altresì nel merito.

Il primo motivo, relativo alla pretesa violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, è manifestamente infondato.

Secondo quanto chiarito anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051); pertanto, non sussiste violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza quando non muta il fatto storico sussunto nell'ambito della contestazione (ex multis, Sez. 3, n. 5463 del 05/12/2013, dep. 04/02/2014, Diouf, Rv. 258975).

Tanto premesso, la sentenza impugnata ha fatto buon governo dei principi richiamati, rilevando che la natura abusiva della chiusura del porticato, in quanto eseguita senza permesso di costruire (o l'equipollente "super Dia"), era il fatto oggetto di contestazione, in ordine al quale l'imputato ha articolato ampia difesa, anche sul piano tecnico, e tale è rimasto il fatto accertato, sebbene la necessità del permesso sia stata ricondotta, all'esito dell'istruttoria, alla modifica del prospetto dell'edificio; del resto, i lavori di trasformazione oggetto di contestazione, a prescindere dal profilo di illegittimità accertato, sono i medesimi.

Va, peraltro, osservato che in ordine al reato edilizio è stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, e l'odierno ricorso concerne soltanto il residuo reato di abuso d'ufficio; il ricorrente sostiene che il carattere derivato dell'imputazione del reato di abuso d'ufficio determini una trasformazione anche del relativo fatto, dovendo individuarsi l'evento non più nell'incremento di superficie e di volumetria, bensì nell'incremento di valore del fabbricato.

La doglianza è priva di qualsivoglia fondamento: il reato di abuso d'ufficio contestato al C., infatti, concerne l'omissione dei provvedimenti di controllo e vigilanza a lui spettanti in ragione della funzione pubblica rivestita, dalla quale è conseguito "un ingiusto vantaggio patrimoniale"; l'espressione contenuta nell'imputazione, immutata, è sufficientemente comprensiva da includere anche il preteso vantaggio derivante dall'incremento patrimoniale; peraltro, non può non osservarsi che l'evento del reato di cui all'art. 323 cod. pen. non può ritenersi mutato in ragione del profilo (asseritamente diverso) di illegittimità individuato nella consumazione dell'illecito urbanistico; che l'illegittimità riguardasse non l'aumento di volumetria e di superficie, bensì la modifica del prospetto, non muta l'essenza del "vantaggio patrimoniale" procurato mediante trasformazione dell'immobile, destinato all'attività di un ristorante; a prescindere dal profilo di illegittimità urbanistica, la chiusura del porticato, infatti, ha determinato un incremento delle aree destinate all'attività imprenditoriale ivi esercitata ed una maggior "resa" economica del locale in favore della cooperativa proprietaria.

In ogni caso, alcuna compromissione del diritto di difesa o del contraddittorio può essere fondatamente ipotizzabile, in quanto tali profili sono emersi nel corso dei giudizi di merito, e sottoposti al contraddittorio valutativo e dialettico delle parti.

4. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Giova, sul punto, premettere che la sentenza impugnata, conformemente alla decisione di primo grado, ha accertato che, a differenza di qualsivoglia intervento edilizio, anche di modesto rilievo, eseguito nel Comune di Lardirago, che veniva comunicato alla Soprintendenza per i provvedimenti di competenza, nel novembre del 2008 venivano intrapresi dei lavori su un immobile, nel pieno centro storico di Lardirago, che ospitava un ristorante; l'immobile, sottoposto a "vincolo monumentale indiretto" con D.M. 21/06/1993, era di proprietà della Cooperativa di consumo dei lavoratori di Lardirago, della quale C. era consigliere; al riguardo, veniva inviata una mera comunicazione di inizio dei lavori al Comune, del quale lo stesso C. era Sindaco e responsabile UTC, rappresentando la realizzazione di semplici interventi di manutenzione ordinaria e di sostituzione di infissi; al contrario, veniva realizzata la chiusura del porticato, che integrava una "ristrutturazione edilizia" per la quale era richiesto, oltre all'autorizzazione della Soprintendenza, il permesso di costruire o, ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3, la c.d. "super d.i.a.", senza che l'odierno ricorrente, nell'esercizio delle funzioni pubbliche rivestite, esercitasse l'attività di vigilanza a lui spettante ai sensi dell'art. 27 T.U.E., e adottasse i provvedimenti necessari.

4.1. Tanto premesso, con riferimento al primo profilo di doglianza concernente l'inefficacia del "vincolo indiretto", e, comunque, l'ignoranza della sua esistenza da parte del ricorrente, va osservato che il c.d. "vincolo di tutela indiretta" riguarda esclusivamente i beni culturali, e non anche i beni paesaggistici, pur facendo parte entrambi del "patrimonio culturale" (Sez. 3, n. 36095 del 22/09/2011, Mendini, Rv. 251262), ed è imposto per la conservazione e protezione dei beni culturali.

In particolare, per vincolo indiretto si intende quella serie di prescrizioni limitative che vengono imposte a beni diversi da quello culturale oggetto di tutela, che si trovano in relazione spaziale con quest'ultimo. L'istituto del vincolo indiretto ha, quindi, la finalità della tutela dei caratteri e del contesto del bene soggetto al vincolo diretto, assicurandone, attraverso prescrizioni destinate alle aree o agli edifici circostanti, e non necessariamente confinanti, il mantenimento dell'integrità, della prospettiva, della luce, delle condizioni di ambiente e decoro.

Attualmente, la disciplina dei c.d. "vincoli indiretti" è contenuta nel D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 45: "Il Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro. Le prescrizioni di cui al comma 1, adottate e notificate ai sensi degli artt. 46 e 47, sono immediatamente precettive. Gli enti pubblici territoriali interessati recepiscono le prescrizioni medesime nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici"; i successivi artt. 46 e 47 disciplinano il procedimento per l'imposizione del vincolo e la notifica del provvedimento.

Il vincolo indiretto gravante sull'immobile oggetto di ristrutturazione, peraltro, essendo stato imposto con D.M. 21/06/1993 (e notificato al Comune di Lardirago il 01/10/1993), è stato adottato sulla base della previgente disciplina sulla tutela del patrimonio storico e artistico, ed in particolare della L. 1 giugno 1939, n. 1089, art. 21, che prevedeva la sola trascrizione, con funzione informativa, essendo l'efficacia costitutiva legata all'adozione.

Ebbene, prescindendo dal profilo dell'opponibilità del vincolo, che concerne l'aspetto della pubblicità, ed indiscussa l'efficacia dello stesso, la questione proposta dal ricorrente, relativa alla pretesa ignoranza del vincolo da parte del C., non può essere valutata nella dimensione formale, rilevante sotto il profilo amministrativo, della sua pubblicità; in altri termini, la lamentata omessa trascrizione del vincolo non necessariamente rileva ai fini dell'integrazione della fattispecie penale contestata, in quanto il reato di abuso d'ufficio riguarda l'omesso esercizio dei poteri di vigilanza in relazione all'esecuzione di opere edili illegittime; e l'illegittimità di tali opere, peraltro, non si esaurisce nella omessa acquisizione del provvedimento della Soprintendenza - che, per quanto si dirà, evidenzia la macroscopicità della condotta abusiva -, appuntandosi sulla realizzazione di lavori di ristrutturazione edilizia, anzichè di mera manutenzione ordinaria, in assenza dei provvedimenti assentivi necessari.

Pur in assenza del vincolo indiretto, infatti, le opere accertate avrebbero richiesto il rilascio del permesso di costruire, ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, lett. c), ovvero, inalterata la rilevanza penale del fatto, la c.d. "super d.i.a.", ai sensi dell'art. 22, comma 3, lett. a), T.U.E.

In ogni caso, la conoscenza del vincolo indiretto assume rilevanza, ai fini dell'integrazione della fattispecie penale di abuso d'ufficio, non già nella dimensione giuridica, bensì nella dimensione fattuale, quale presupposto di fatto indiziante l'abusività (e non la mera illegittimità) della condotta.

Sotto tale profilo, la conoscenza del vincolo indiretto, a tutela del Castello di (OMISSIS), è stata affermata dalla sentenza impugnata, con motivazione immune da censure, sulla base di molteplici indici: C., Sindaco e responsabile dell'UTC del piccolo Comune di (OMISSIS) (di circa 1.200 abitanti), ne aveva preteso l'osservanza in altre "pratiche edilizie di poco precedenti"; nella sua qualità pubblica, apparteneva ad un settore tecnico in cui era notorio il problema dei "vincoli", che gravano sulla maggior parte degli immobili esistenti nel territorio comunale (testimonianza del funzionario della Soprintendenza Ch.Fr. ed esame delle planimetrie, p. 14 della sentenza impugnata), e certamente sull'intero centro storico ove insiste l'immobile oggetto di ristrutturazione (testimonianza V., p. 15 della sentenza impugnata).

4.2. In ordine al secondo profilo, con il quale si lamenta l'assenza del requisito della c.d. doppia ingiustizia, va rammentato che l'integrazione del reato di abuso d'ufficio richiede una duplice distinta valutazione di ingiustizia, sia della condotta (che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento), sia dell'evento di vantaggio patrimoniale (che deve risultare non spettante in base al diritto oggettivo); non è peraltro necessario, ai fini predetti, che l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale derivi da una violazione di norme diversa ed autonoma da quella che ha caratterizzato l'illegittimità della condotta, qualora - all'esito della predetta distinta valutazione - l'accrescimento della sfera patrimoniale del privato debba considerarsi "contra ius" (Sez. 6, n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, Rv. 265473); in altri termini, l'ingiustizia del vantaggio richiesta dall'art. 323 cod. pen. deve riguardare non solo "il momento dinamico", vale a dire il fatto causativo, ma anche il risultato dell'azione, ossia il fine perseguito dall'agente: il vantaggio cioè per qualificarsi ingiusto non solo deve essere prodotto "non jure", ma essere esso stesso "contra jus" (Sez. 6, n. 48914 del 11/11/2015, Farano, Rv. 265474).

Tanto premesso, non può essere condivisa la doglianza del ricorrente, secondo il quale il vantaggio conseguito non sarebbe contra ius, in quanto le opere sarebbero conformi alla normativa urbanistica del Comune di Lardirago, ed ai criteri di vincolo del D.M. 21/06/1993, atteso che, secondo quanto evidenziato dalla sentenza impugnata (p. 12), non risulta rilasciata alcuna autorizzazione della Soprintendenza, e, al parere favorevole della Commissione Edilizia all'accertamento di conformità limitatamente al profilo urbanistico, non risulta seguito il rilascio di una sanatoria.

4.3. Infine, con riferimento alle doglianze concernenti l'asserita assenza di dolo intenzionale, va premesso che la riforma del 1997 ha trasformato la fattispecie di abuso d'ufficio da reato di condotta a dolo specifico a reato di evento a dolo generico, ma intenzionale; l'uso dell'avverbio "intenzionalmente", adoperato dalla fattispecie per qualificare la tipicità soggettiva del fatto, ha infatti limitato il sindacato del giudice penale alle sole condotte dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno; pertanto, l'elemento soggettivo si ritiene escluso in presenza del dolo eventuale, ma anche, secondo un orientamento ermeneutico, in presenza del dolo diretto, potendo affermarsi la tipicità soggettiva del reato di cui all'art. 323 c.p. soltanto in presenza del dolo intenzionale, ravvisabile allorquando l'evento sia voluto dall'agente come obiettivo primario della sua condotta.

Intenzionalità che, tuttavia, non vuol dire esclusività del fine che anima l'agente, secondo una recente interpretazione che ha affermato la tipicità del reato anche nei casi in cui al fine di vantaggio privato si affianchi una finalità pubblica che rappresenti una mera occasione o un pretesto per coprire la condotta illecita (in tal senso, Sez. 3, n. 18895 del 24/02/2011, Cesaroni, Rv. 250374; Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280; Sez. 6, n. 7384 del 19/12/2011, dep. 2012, Porcari, Rv. 252498; Corte Cost., ord. n. 251 del 2006).

Trattandosi, naturalmente, di atteggiamento psicologico dell'agente, riservato all'imperscrutabilità del foro interno, ma nondimeno oggetto di valutazione normativa da parte del giudice, il dolo intenzionale va ovviamente desunto da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza delle violazioni, la competenza dell'agente, la reiterazione e gravità delle violazioni, i rapporti tra agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (in tal senso, ex multis, Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233: "la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa"; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255368: "In tema di abuso d'ufficio, la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno").

Tanto premesso, la sentenza impugnata appare, al riguardo, immune da censure, avendo desunto l'intenzionalità del dolo da molteplici elementi fattuali: oltre alla conoscenza del vincolo indiretto gravante sull'immobile - del quale si è già detto infra 4.1. -, il C., Sindaco e responsabile UTC del Comune, era contemporaneamente consigliere della Cooperativa proprietaria del bene; e, non soltanto in ragione di tale qualità, ma altresì per la sua costante presenza nei locali della Cooperativa, per le dimensioni contenute del territorio comunale e la centralità dell'immobile, per il modesto numero di "pratiche" edilizie che il Comune gestiva, egli è stato ritenuto pienamente consapevole dell'entità dei lavori in corso sul bene, che avrebbero imposto l'esercizio dei suoi poteri di vigilanza; consapevolezza affermata anche in considerazione del non insignificante impegno economico gravante sulla Cooperativa, e della trasmissione in qualità di Sindaco, nel gennaio 2009, della comunicazione all'ASL del subentro dell'affittuaria M. nell'attività di ristorazione svolta nei locali della Cooperativa ove si stavano svolgendo i lavori, con l'allegazione di una dichiarazione in cui si attestavano "modifiche" nei locali; efficacemente la sentenza impugnata osserva che "oltre alla considerazione che nella sua qualità di Sindaco egli aveva obbligo di intervenire a prescindere da particolari segnalazioni, deve rilevarsi come le piccole dimensioni di (OMISSIS), il sopralluogo dei Carabinieri nel febbraio 2009, i chiarimenti richiesti dal consigliere Mi. al consulente comunale F. prima di presentare l'esposto novembre 2008- sulla regolarità dell'intervento in esame rendono invero improbabile che C. sia rimasto l'unico in (OMISSIS) a non essere informato che nel Comune da lui amministrato vi era un immobile sul quale gli interventi edilizi (non occulti) stavano suscitando perplessità ed accertamenti" (p. 20).

Da tali elementi, dunque, è stata correttamente desunta la prova del dolo intenzionale di favorire la Cooperativa, della quale il C. era consigliere, omettendo di esercitare l'attività di vigilanza sull'attività edilizia a lui spettante in veste di Sindaco e di responsabile UTC del piccolo Comune di Lardirago.

5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.500,00: infatti, l'art. 616 cod. proc. pen. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 cod. proc. pen., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 cod. proc. pen..

Il ricorrente va, altresì, condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, Comune di Lardirago, che si liquidano, sulla base dei valori medi del D.M. 55/2014, in complessivi Euro 3.500,00, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, Comune di Lardirago, che liquida in complessivi Euro 3.500,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 6 aprile 2016.