Consiglio di Stato Sez. VI n. 5950 del 18 dicembre 2017
Beni Culturali.Dichiarazione di interesse storico-artistico di un immobile in stato di abbandono
Lo stato di abbandono di un bene di per sé non osta alla dichiarazione di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico ‒ potendo un manufatto in condizione di degrado ben costituire oggetto di tutela storico-artistica, sia per i valori che ancora presenta, sia per evitarne l’ulteriore decadimento ‒, tuttavia è onere dell’Amministrazione dei beni culturali prendere in considerazione le puntuali obiezioni sollevate dall’Amministrazione comunale circa la realistica possibilità di conservazione e valorizzazione dell’immobile.
Pubblicato il 18/12/2017
N. 05950/2017REG.PROV.COLL.
N. 06949/2014 REG.RIC.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6949 del 2014, proposto da:
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI E IL TURISMO, SOPRINTENDENZA REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELLA CAMPANIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
contro
COMUNE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pasquale Iannuccilli, presso cui studio è elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, via Lima, n. 7;
per la riforma:
della sentenza breve del T.A.R. Campania – Napoli – Sez. VII n. 1764 del 2014;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Santa Maria Capua Vetere;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 novembre 2017 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti l’avvocato Beatrice Gaia Fiduccia dell’Avvocatura Generale dello Stato, e l’avvocato Federico Iannuccilli, per delega dell’avvocato Pasquale Iannuccilli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.‒ Con il ricorso promosso in primo grado, il Comune di Santa Maria Capua Vetere impugnava dinnanzi il decreto del Direttore Regionale per i beni culturali e paesaggistici della Campania n. 1903 del 2013, avente ad oggetto la dichiarazione di interesse storico-artistico del complesso edilizio c.d. “ex lampadine” di proprietà dello stesso Comune (sito in via Galatina e catastalmente individuato al foglio 2, particelle nn. 147, 167 e 95), unitamente alla relazione storico-artistica ivi allegata.
1.1.‒ L’Amministrazione comunale premetteva che: - l’immobile aveva ricevuto un finanziamento regionale per la realizzazione della nuova sede del “Centro Operativo Misto” della Protezione Civile locale; - a causa delle carenze strutturali del complesso edilizio, i tecnici preposti ritenevano preferibile realizzare un intervento di adeguamento sismico dell’immobile attraverso la demolizione e ricostruzione dello stesso, risultando per contro del tutto antieconomica la ristrutturazione di quello che appare come un vero e proprio rudere; - in data 6 agosto 2013 (con nota prot. 0028400) veniva quindi richiesta alla Direzione Regionale Beni Culturali e Paesaggistici la verifica dell’interesse culturale dell’immobile da abbattere e ricostruire, trattandosi di costruzione superiore ai 50 anni; - la menzionata Direzione Regionale, pur non avendo acquisito la percezione in via diretta dello stato interno del fabbricato, emetteva il decreto n. 1903 del 21 novembre 2013, con cui dichiarava l’interesse storico artistico dell’immobile.
1.2.‒ Su queste basi, venivano sollevate le seguenti censure: - il procedimento avrebbe violato l’art. 10-bis, della legge n. 241 del 1990 (sul presupposto della sua applicabilità anche con nel caso della verifica dell’interesse culturale, ad istanza di parte officiosa), in quanto il Comune non sarebbe stato preavvisato dei motivi ostativi alla possibilità di realizzare il “Centro Operativo Misto” della Protezione Civile locale; - la motivazione dell’atto impugnato non giustificherebbe l’imposizione di un vincolo su di un complesso edile, in stato di fatiscenza e decadenza, di dubbia rilevanza storica e etnoantropologica; - il provvedimento impugnato non esporrebbe la prevalenza dell’interesse pubblico culturale al mantenimento del complesso immobiliare senza alcuna valutazione del danno economico derivante dalla mancata edificazione del Centro Operativo Misto; - l’atto sarebbe stato emanato in difetto di adeguata istruttoria, dal momento che nessun sopralluogo sarebbe stato effettuato, quanto meno all’interno dell’immobile; - il vincolo sarebbe stato imposto sull’intera area oggetto dell’istanza e non sui soli corpi di fabbrica che in tesi avrebbero avuto valenza storico-culturale.
2.– Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, con sentenza n. 1764 del 2014, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha annullato il decreto soprintendizio, rilevandone il difetto di motivazione.
3.– Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo ha quindi proposto appello, chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, il rigetto del ricorso proposto in primo grado.
Secondo l’appellante, l’affermazione del giudice di prime cure, secondo cui sarebbe lo stato di abbandono e degrado in cui versa l’immobile in questione a determinare l’illogicità della dichiarazione di interesse storico, sarebbe erronea. Proprio lo stato di degrado corroborerebbe tale decisione, dal momento che l’adozione del vincolo si renderebbe necessaria, onde evitare ulteriori danneggiamenti all’immobile ed eventualmente favorire ulteriori interventi di recupero.
La relazione storico-artistica, facente parte integrante del decreto, oltre a riportare la descrizione delle vicende che hanno interessato l’immobile e delle relative trasformazioni, nonché dello stato di abbandono, spiegherebbe in maniera dettagliata le ragioni in base alle quali si sia ritenuto che l’immobile presenti quei caratteri architettonici originari sulla base dei quali stabilire il vincolo di interesse storico.
In relazione ai siti che sono espressione archeologica industriale, come quello in questione, non si tenderebbe a salvaguardare il bene per la sua intrinseca bellezza, bensì avrebbe la finalità di salvaguardare significative testimonianze dei modi di essere delle produzioni industriali sul versante architettonico.
La sentenza impugnata avrebbe inteso sostituire la valutazione del Ministero con il proprio diverso apprezzamento circa il valore storico del bene, attinente alla sfera del merito che fuoriesce dai poteri del giudice amministrativo.
Il richiamo effettuato dal Tribunale Amministrativo Regionale alla sentenza n. 6293 del 2013 del Consiglio di Stato sarebbe del tutto inconferente, riguardando la diversa ipotesi di cui all’art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004, il quale, a differenza del comma 1, disciplina l’ipotesi in cui il bene oggetto di dichiarazione di interesse sia di proprietà di un privato.
4.– Resiste in giudizio il Comune di Santa Maria Capua Vetere, chiedendo che l’appello venga dichiarato infondato.
5.‒ All’udienza del giorno 23 novembre 2017, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1.‒ L’appello è infondato.
1.1.‒ Ai sensi 10, comma 1, del decreto-legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137): «Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico».
1.2.‒ In linea di diritto, il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità. L’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile.
2.‒ Sennonché, nel caso in esame, l’atto in contestazione ‒ motivato per relationem mercé il rinvio alla relazione storico-artistica ivi allegata ‒ non dà adeguato conto della meritevolezza dell’impronta storico-architettonica che si vorrebbe posseduta dall’immobile comunale.
2.1.‒ Il percorso argomentativo non appare, in primo luogo, aderente allo stato oggettivo dei luoghi.
È incontestato tra le parti che il complesso immobiliare versa in stato di totale abbandono e sia privo di importanti elementi costruttivi (che lo pregiudicano finanche sotto l’aspetto statico e di adeguamento alle norme sismiche vigenti), stante la «mancanza di cordoli di concatenamento, setti murari eccessivamente distanti tra loro, mancanza di coperture, solai di sottotetto parzialmente crollati». Il plesso peraltro è stato adibito per lunghissimo tempo ad usi eccentrici, e segnatamente quello di: «deposito mezzi nettezza urbana», «autocarrozzeria», «ricovero animali», «deposito carri funebri».
Ebbene, se lo stato di abbandono di un bene di per sé non osta alla dichiarazione di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico ‒ potendo un manufatto in condizione di degrado ben costituire oggetto di tutela storico-artistica, sia per i valori che ancora presenta, sia per evitarne l’ulteriore decadimento (ex plurimis, Cons. Stato, VI, 3 aprile 2003, n. 1718; 3 settembre 2001, n. 4591; 28 dicembre 2000, n. 7034) ‒, tuttavia era onere dell’Amministrazione dei beni culturali prendere in considerazione le puntuali obiezioni sollevate dall’Amministrazione comunale circa la realistica possibilità di conservazione e valorizzazione dell’immobile. Diversamente, è concreto il rischio che si persegua una concezione del tutto “astratta” (e quindi vuota) del bene che si vorrebbe tutelare.
Il vizio motivazionale è corroborato anche da quello istruttorio, giacché ‒ secondo quanto dedotto dall’amministrazione comunale senza specifica contestazione di controparte ‒ i funzionari dell’organo ministeriale (che non avevano le chiavi per accedere all’immobile e neppure le avevano richieste agli uffici del Comune di Santa Maria Capua Vetere) hanno omesso di effettuare una ricognizione dei luoghi, accontentandosi della mera allegazione di relazioni d’archivio.
2.2.‒ Ancora più in radice, il provvedimento non esplicita perché un complesso immobiliare semi-diroccato, privato da tempo degli elementi architettonici originali e della sua destinazione originaria, conservi l’antica vestigia di architettura industriale.
La succinta relazione storica artistica ‒ premessi alcuni dati relativi alla data di edificazione (1920) e delle diverse destinazioni ‒ si limita ad affermare che l’immobile «riflette l’articolazione tipologica dei complessi ad uso produttivo del primo novecento, caratterizzata dalla disposizione dei corpi di fabbrica lungo la strada provinciale con ingresso principale da cui […]». Aggiunge che: «La composizione riflette i caratteri ricorrenti dell’architettura del lavoro del primo periodo dell’industrializzazione, contraddistinti dalla serialità delle bucature a lunetta e dall’articolazione geometrica semplice degli spazi esterni, definita sulla base delle esigenze funzionali della sequenza delle lavorazioni». Conclude: «il complesso edilizio, che conserva i caratteri architettonici e tipologici originali, costituisce testimonianza materiale di archeologia industriale, oltre che segno storico della trasformazione antropica del sito, e pertanto riveste interesse culturale».
Si tratta di affermazioni stereotipate, in cui non è possibile rintracciare le ragioni che attestano la singolarità del bene che si assume avere valore di testimonianza. La mera e generica circostanza tipologica che un fabbricato rappresenti una testimonianza di un tipo di costruzione di un particolare periodo storico non è di per sé elemento sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento individuale e concreto, quale quello in questione. Qualsiasi fabbricato è di per sé testimonianza di un tipo di costruzione del proprio periodo nella zona in cui si trova. Al tempo stesso, un apprezzamento basato sulla mera valenza documentaria non è sufficiente per individuare giuridicamente un bene culturale: in questa operazione non si può infatti prescindere da un elemento valutativo concreto, incentrato sul pregio distinto, selettivo e irripetibile della singola cosa e dunque sul riferimento specifico agli elementi che questo pregio (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10 dicembre 2012, n. 6293, sia pure in un caso relativo all’imposizione del vincolo di cui all’art. 10, comma 3, lettera a, del d.lgs. n. 42 del 2004).
2.3.‒ Va pure rimarcato che, ai sensi del citato art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, non è certo sufficiente la proprietà pubblica perché la Soprintendenza possa imporre un vincolo, essendo sempre necessario motivare adeguatamente la sussistenza dell’interesse storico, archeologico o etnoantropologico, soprattutto quando ‒ come accade nel presente giudizio ‒ la dichiarazione del vincolo valga a sottrarre il bene ad un preciso e corrente interesse pubblico: quello di realizzare una struttura della Protezione Civile (avvalendosi di apposito stanziamento regionale) in luogo di “ruderi” fatiscenti.
2.4.‒ Non coglie nel segno l’appellante quando evoca un presunto sconfinamento della discrezionalità tecnica. Invero, quando le scelte in ordine alle modalità di cura e di salvaguardia dell’interesse culturale si esprimono in una ampia gamma di possibilità, si accentua ‒ e non diminuisce ‒ l’«obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni», in base ai superiori principi di buon andamento (art. 97 Cost.) e di “buona amministrazione” (art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
3.‒ Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, l’appello deve essere respinto.
In considerazione del vincolo conformativo che, per il riscontrato vizio di motivazione, impone il riesercizio del potere, è possibile assorbire le residue censure procedimentali.
4.‒ Le spese di lite del secondo grado di giudizio sono interamente compensate tra le parti, attesa la natura della controversia che vede contrapposte due amministrazioni pubbliche.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Le spese di lite del secondo grado di giudizio sono interamente compensate tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 novembre 2017 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro, Presidente
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere, Estensore
Giordano Lamberti, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Dario Simeoli Sergio Santoro