La culturalità del bene ed il reato di illecito impossessamento di beni culturali
di Alfredo MONTAGNA - Sost. Proc. Gen. Corte di Cassazione

Il codice dei beni culturali e del paesaggio, prevede, all’art. 176, relativo alle sanzioni penali previste per la violazione della parte seconda dello stesso decreto, relativo ai beni culturali, un‘ipotesi di delitto per chiunque si impossessi dei beni culturali appartenenti allo Stato[1].

La configurabilità di tale reato, molto spesso integrato (o ritenuto come integrato) in relazione a casistiche marginali quali il possesso ingiustificato di “cocci antichi”, ha diviso da sempre la giurisprudenza e la dottrina, sia sul versante dalle modalità di acquisizione della “culturalità” del bene che sotto quello del regime probatorio dell’esonero da responsabilità[2].

L’ultima decisione in materia della corte di cassazione consente oggi di fare il punto sulla questione, in quanto la terza sezione, nella pubblica udienza del 24 ottobre 2006 e depositata il 28 novembre 2006, n. 39109, Palombo, ha affermato che ai fini della configurabilità del reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, di cui all'art. 176 del d. lgs 22 gennaio 2004 n. 42, non è necessario la preesistenza di un provvedimento che dichiari l'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico delle cose delle quali il privato sia trovato in possesso.

Una pronuncia che si pone in apparente contrasto con il più recente precedente della stessa sezione, che con decisione del 27 maggio 2004, dep. 2 luglio 2004, n. 28929, Mugnaini, in Rivista di polizia, 2005, v, 329, aveva ritenuto che per la configurabilità del reato di impossessamento di beni culturali,  attualmente  previsto  dall'art. 176 del D.Lgs. n. 42 del 2004, a differenza delle disposizioni  previgenti  di  cui all'art. 67 della legge n. 1089 del 1939  e  all'art. 125 del D. Lgs. 29 ottobre 1999 n. 490, sarebbe necessario che i beni  oggetto  materiale  del reato siano qualificati come tali in un formale provvedimento  dell'autorità  amministrativa,  in  quanto rivestano un oggettivo  interesse,  che  risulti  eccezionale  o particolarmente  importante.

La conseguenza era che allorché si trattava di un bene mai  denunziato  all'autorità  competente,  doveva avere inizio, secondo la Corte,  il procedimento  per  la  dichiarazione di interesse culturale, prevista dall'art. 13  del citato D. Lgs. n. 42 del 2004.

La decisione Palombo riprende un precedente, e maggioritario orientamento, che, prima dell’entrata in vigore del cd codice Urbani, aveva più volte affermato che per la  configurabilità  del  reato di cui all'art. 125 del decreto 490, non fosse necessario che i beni fossero stati qualificati  come  culturali da  un  formale  provvedimento  della pubblica  amministrazione, e ciò in quanto era ritenuta sufficiente la desumibilità della sua  natura  culturale dalle stesse caratteristiche dell'oggetto, non essendo  richiesto  un particolare pregio per i beni culturali di cui all'art.  1,  comma  primo,  del citato decreto n. 490. (in tal senso Cass. Sez. III 25 novembre 2003, dep. 16 dicembre 2003, n. 47922, Petroni [3]).

Un interesse culturale oggettivo che, secondo Cass. sez. III 14 novembre 2001, dep. 24 dicembre 2001, n. 45814, Cricelli [4], poteva essere desunto dalle caratteristiche della  "res" non solo per il valore comunicativo spirituale, ma anche per    requisiti peculiari    attinenti    alla   “tipologia,  alla localizzazione,  alla  rarità  e  ad  altri  analoghi  criteri”[5], e che inoltre, secondo Cass. Sez. III 6 novembre 2001, dep. 26 novembre 2001, n. 42291, Licciardello[6], non necessitava di una indagine tecnico-peritale, potendo risultare anche sulla base di quanto accertato e dichiarato dai competenti organi della pubblica amministrazione.

 

La individuazione della scelta interpretativa migliore non può che partire dal dettato normativo, come modificato dal richiamato codice Urbani; infatti l’art. 10 del d. lgs n. 42 qualifica quali “beni culturali”, le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato (ed ad altri enti territoriali, persone giuridiche pubbliche e private) che “presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”. I successivi commi 2 e 3 individuano poi gli altri beni qualificati culturali senza la dichiarazione prevista dal successivo art. 13, o a seguito di questa, ovvero della dichiarazione che “accerta la sussistenza, nella cosa che ne forma oggetto, dell’interesse richiesto”. Infine ai sensi dell’art. 91 le cose indicate nell’art. 10 appartengono allo Stato da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini [7].

Pur tuttavia la presunzione di culturalità che si ricava dal complesso normativo in questione può essere definita quale provvisoria, in quanto le cose ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, che appartengono allo Stato, sono sottoposte alle disposizioni in tema di beni culturali sino a quando non sia effettuata la verifica di culturalità prevista dall’art. 12 dello stesso decreto, al comma 2, soltanto all’esito della quale, se positiva, vi è la definitiva sottoposizione alle disposizioni in esame.

Da quanto sopra si ricava che, dopo la entrata in vigore del decreto n. 42 del 2004, il reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato si verifica, in attesa della verifica di culturalità di cui all’art. 12, sin dal momento del loro fortuito ritrovamento, ma a condizione che presentino un almeno potenziale interesse  culturale. La decisione Palombo appare così pienamente giustificata dal nuovo assetto normativo, che non richiede per la configurabilità del cd. furto d’arte la dichiarazione di culturalità (come erroneamente ritenuto nella decisione Mugnaini), ma semplicemente un “fumus di culturalità” che ne giustifica la tutela provvisoria in attesa della sua conferma, con l’accertamento di culturalità, o la sua definitiva liberalizzazione in caso opposto.

La riflessione si sposta pertanto sulle modalità di accertamento di tale potenziale interesse, ove appare rischioso affidare la giudice, caso per caso, anche se con l’ausilio di periti, la valutazione della rilevanza di oggetti che occorre sapere “contestualizzare” per non affidarsi al solo valore oggettivo; ma su tale punto non si è giunti, da parte del legislatore, ad un approdo definitivo, per si attende il decisivo contributo giurisprudenziale in merito.

Un contributo che si è già acquisito sul diverso versante del regime della prova della legittimità del possesso; infatti già nella citata decisione Mugnaini la  prova  della  illegittima provenienza dei  beni  di  interesse archeologico, al fine della  configurabilità del  reato  di impossessamento  illecito  di beni culturali appartenenti allo Stato, anche  nella  formulazione dell'art. 176 del D. Lgs. n. 42 del 2004, non è a carico dell'imputato, ma della pubblica accusa.

Sul punto secondo Cass. Sez. III 16 marzo 2000, dep. 18 maggio 2000, n. 5714, Dulcimascolo [8], dal  fatto  che  la  legge  1089 del 1939 configurasse un dominio  eminente  dello  Stato sul sottosuolo archeologico, non poteva desumersi che i privati proprietari dovessero fornire la prova della legittimità della loro proprietà o del possesso; e ciò in quanto anche in materia di possesso  di  beni archeologici vigono le normali regole processuali secondo le quali  l'onere  della prova  incombe sulla pubblica  accusa  ed  il  detentore  non è tenuto a dare la prova contraria della legittimità  della  provenienza  degli  oggetti detenuti.

In  tali  situazioni concrete già fortemente indizianti, la giurisprudenza ha ulteriormente precisato Cass. Sez. III 4 maggio 1999, dep. 7 giugno 1999, n. 7131, Cilia [9], che la omissione  di  indicazioni  sulla legittimità della provenienza può avere  rilievo  nel  convincimento  del  giudice  per la chiusura del costrutto  probatorio. La stessa sentenza ha avuto modo di affermare altresì che se  dal  fatto  che  le disposizioni in materia, che accanto alla  appartenenza  allo  Stato  delle  cose  d'antichità e d'arte ritrovate prevedono  un  possesso  privato  di tali cose, si dovesse ricavare  la  clausola  implicita  che  per i beni archeologici la proprietà privata è riconosciuta  come  tale  solo se provata (e nella  generalità  dei  casi  di  proprietà  diffusa  occorrerebbe provare  che  essa  risale  ad  epoca  anteriore  al 1909), il sistema violerebbe sia l'art.  42 Cost., in quanto ablativo delle cose mobili di proprietà  privata per la cui legittimazione richiederebbe una prova impossibile,  sia l'art. 24 Cost. perchè, quando il possesso costituisce  un  addebito,  la gravità dell'onere probatorio imposto renderebbe  impossibile  il  diritto di difesa.

Il sistema, concludeva la Corte, non consente, se letto  in aderenza ai precetti costituzionali, che venga posta  a  carico  del  cittadino  la  prova  della  legittimità  del possesso  di  oggetti  archeologici,  ma è l'accusa che deve dare la prova  della  illegittimità  del possesso, e su questo non può che esservi convinta adesione.

Alfredo Montagna
 


[1] Il testo prevede la reclusione fino a tre anni e la multa da euro 31 a euro 516,50.

[2] In dottrina per un’ampia trattazione in merito G. Pioletti, Commento all’art. 176, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2004, Il Mulino, pag. 592.

[3] In Ced Cass. rv. 226870

[4] In Ced Cass. rv. 220742

[5] In applicazione di tale  principio,la Corte ha nell’occasione ritenuto la sussistenza del reato  con  riferimento a giare create tra la fine dell'Ottocento e i primi  del  Novecento  e  ritenute  di  interesse storico-etnologico sulla base di valutazione  di  merito  congrua e come tale, insindacabile in sede di legittimità.

[6] rv. 220626

[7] Con la loro inclusione nel demanio o nel patrimonio indisponibile a seconda che si tratti di beni immobili o mobili

 [8] In Ced Cass. rv.  216567, in fattispecie nella quale la Corte ha affermato che la illegittimità del  possesso  può  essere  desunta  da  altri  elementi,  quali  la tipologia,  la correlazione con riferimenti noti, la condizione delle cose  che  denunci il loro recente rinvenimento, il loro accumulo, il loro occultamento e altre particolarità del caso, ritenendo nel caso specifico la responsabilità dell'imputato per il numero degli oggetti, risalenti a prima di cristo, e per il loro pregio.

[9] In Ced Cass. rv. 213740, in una fattispecie relativa a furto archeologico in cui  il  ricorrente  era  stato  trovato  in  possesso di monete e di oggetti  metallici,  in  numero  rilevante  ed  indifferenziato e con esclusione  di  oggetti  fittili,  già  indizianti  del rinvenimento mediante  metal-detector, e la cui responsabilità è stata ritenuta legittimamente  fondata  sul  comportamento  tenuto  nel  corso della perquisizione  e  nella  omissione  di qualsiasi allegazione circa la legittimità del possesso, in presenza  dei  detti   elementi indizianti.