Cass. Sez. III n. 4562 del 31 gennaio 2018 (Ud 5 ott 2017)
Presidente: SWavani Estensore: Renoldi Imputato: Caccialanza ed altri
Caccia e animali.Associazioni di protezione animali
Non può dubitarsi che un'associazione, la quale sia statutariamente deputata alla protezione di una determinata categoria di animali (cani), debba riconoscersi come tendenzialmente portatrice degli interessi penalmente tutelati, tra gli altri, dai reati di cui agli artt. 544-bis, 544-ter, 544-quater, 544-quinquies e 727 cod. pen. In una siffatta ipotesi, infatti, l'ente, per l'attività concretamente svolta e, appunto, per la sua finalità statutaria primaria, coincidente con la tutela dei cani, ovvero degli interessi lesi dai reati contestati, si fa portatore, secondo il ricordato meccanismo di immedesimazione, di una posizione di diritto soggettivo che lo legittima a chiedere il risarcimento dei danni derivati dalle violazioni della legge penale. Nondimeno, onde evitare forme di abnorme dilatazione nella legittimazione alla tutela civilistica, è necessario che vi sia anche una forma di collegamento territoriale tra l’associazione e il luogo in cui l’interesse è stato inciso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del Tribunale di Cremona in data 17/02/2015, Cheti Nin, Elena Caccialanza e Laura Grazia Gaiardi erano state condannate: la prima alla pena di due anni e due mesi di reclusione e, le altre due, alla pena di un anno e tre mesi di reclusione, in quanto riconosciute colpevoli dei reati, commessi in concorso tra loro e unificati dal vincolo della continuazione, previsti dagli artt. 81 cpv., 110, 544-bis cod. pen. per avere ucciso, dal 2005 al marzo 2009, la Nin come vice-Presidente dell’Associazione Zoofili Cremonesi, la Caccialanza e Gaiardi come volontarie del Rifugio del cane, con crudeltà e senza necessità, un considerevole numero di cani, anche intere cucciolate, e di gatti, inoculando, ingiustificatamente ed illegittimamente, il farmaco eutanasico Tanax o il Penthotal sodium (capo c), nonché dall’art. 348 cod. pen. per avere esercitato, dal 2005 al 2009, le funzioni tipiche del medico veterinario uccidendo cani e gatti attraverso la somministrazione dei farmaci indicati al capo che precede, procedendo alle vaccinazioni e rimuovendo i punti di sutura (capo d). Per la sola Nin, il tribunale lombardo aveva, peraltro, ritenuto che nella fattispecie contestata al capo c) fossero assorbiti ulteriori reati, contestati ai capi e), f) e g) della rubrica, relativi alla soppressione, con crudeltà e senza necessità, di singoli animali.
2. Con sentenza in data 12/04/2016, la Corte d'appello di Brescia, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, assolse Cheti Nin dal reato di cui al capo e) limitatamente alla soppressione del cane Matisse, dichiarò non doversi procedere, sempre nei suoi confronti, in ordine ai capi c) e d) limitatamente alle condotte commesse fino al 24/08/2008 nonché in ordine ai reati di cui al capo e) limitatamente alla soppressione del cane appartenente a Francesco D’Angelo e di cui ai capi f) e g) in quanto estinti per prescrizione, per l’effetto rideterminando la pena, nei confronti della stessa Nin, in un anno e tre mesi di reclusione per le residue condotte di cui ai capi c) e d), commesse successivamente al 24/08/2008. Quanto a Elena Caccialanza e a Laura Grazia Gaiardi, la Corte territoriale dichiarò non doversi procedere in relazione alle condotte di cui ai capi c) e d) commesse sino al 24/08/2008, rideterminando la pena, nei confronti di entrambe le imputate, in nove mesi di reclusione per le residue condotte di cui ai capi c) e d) successive al 24/08/2008. Con lo stesso provvedimento, i giudici di appello dichiararono l’inammissibilità della costituzione di parte civile delle associazioni animaliste, con l’eccezione della sola Lega nazionale per la difesa del cane.
3. Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione le tre imputate a mezzo dei rispettivi difensori fiduciari, deducendo una serie di motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
3.1. Il ricorso proposto dall’avv. Ennio Buffoli nell’interesse di Cheti Nin si articola in quattro distinti motivi di doglianza.
3.1.1. Con il primo di essi, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge processuale penale in relazione agli artt. 74, 91, 92, 93 e 94 cod. proc. pen. nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla legittimazione alla costituzione di Parte civile della Lega nazionale per la difesa del cane, nonostante che l’associazione in questione, pur avendo un “aggancio” territoriale nella provincia di Cremona, non fosse in realtà operativa nella struttura del canile. Né potrebbe, nella specie, essere richiamata la disciplina dettata dall’art. 91 cod. proc. pen., come integrato dall’art. 7 della legge n. 189 del 2004, atteso che la predetta associazione non rientrerebbe nel novero degli enti individuati dal Ministero della salute ai sensi dell’art. 19-quater delle disp. coord. transitorie cod. pen..
3.1.2. Con il secondo motivo, la difesa di Cheti Nin censura, ex art. 606, comma 1, B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 348 cod. pen. nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata dimostrazione della sussistenza dei requisiti di continuità, professionalità e onerosità della condotta.
3.1.3. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla concreta configurabilità del delitto di cui all’art. 544-bis cod. pen.. Sotto un primo profilo, si deduce la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui, da un lato, i testi sarebbero stati ritenuti attendibili nel fondare la responsabilità dell’imputata in relazione alla soppressione di numerosissimi animali e, dall’altro lato, essi sarebbero stati ritenuti inattendibili in relazione alle singole condotte di soppressione. Sotto altro aspetto, la Corte territoriale avrebbe omesso di esplicitare in base a quali specifici elementi sia stato possibile affermare che l’uccisione degli animali avesse avuto luogo con “crudeltà” ovvero in “assenza di necessità”.
3.1.4. Con il quarto motivo, la difesa di Cheti Nin censura, ex art. 606, comma 1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 62-bis cod. pen. nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche nonostante la dedotta assenza, nella commissione delle condotte alla stessa ascritte, di finalità lucrative.
3.2. Venendo, quindi, ai ricorsi proposti dall’avv. Stefania Amato per conto di Laura Grazia Gaiardi e di Elena Caccialanza, gli stessi vengono articolati in tre distinti motivi di doglianza.
3.2.1. Con il primo di essi, le ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in relazione all’art. 544-bis cod. pen.. Sotto un primo profilo, la sentenza impugnata, una volta ritenuta dimostrata la morte di centinaia di animali, avrebbe omesso di motivare in relazione all’assenza di necessità in ordine alla soppressione degli stessi, traendo argomentazione da una serie di elementi indiziari (quali l’indicazione, sui cartellini identificativi degli animali soppressi a seguito di “eutanasia ufficiale”, di cause non riconducibili tra le legittime ipotesi di soppressione per ragioni veterinarie, l’assenza di patologie negli animali soppressi, il mancato rispetto degli obblighi certificativi) in realtà riferibili soltanto in capo a chi, come Cheti Nin, aveva la gestione operativa del canile. Del resto, le testimonianze avrebbero descritto condotte soppressive, riferibili alle due imputate, come limitate soltanto a una o due decine di esemplari, sicché non sarebbe stato dimostrato il loro coinvolgimento nell’uccisione delle diverse centinaia di animali indicate in contestazione; fermo restando che non sarebbe stato dimostrato, neanche rispetto agli esemplari per cui esse sarebbero state viste, che gli animali non dovessero essere soppressi, considerato che l’abbattimento era all’epoca consentito anche in caso di disagio psichico dell’animale, indipendentemente da patologie organiche, nella specie pacificamente non rinvenute. In subordine, viene dedotta dalle ricorrenti l’avvenuta prescrizione del reato.
3.2.2. Con il secondo motivo, la difesa di Gaiardi e Caccialanza censura, ex art. 606, comma 1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’erronea applicazione del delitto di cui all’art. 348 cod. pen. nonché la mancanza della motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità delle due imputate. In particolare, non sarebbe stata dimostrata l’esistenza degli elementi qualificanti della professionalità dell’attività svolta, atteso il carattere meramente volontario e senza retribuzione della stessa.
3.2.3. Con il terzo motivo, le ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale e in particolare degli artt. 74 cod. proc. pen. e 185 cod. pen. nonché la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta legittimazione alla costituzione di parte civile della Lega nazionale per la difesa del cane. La Corte territoriale avrebbe omesso qualunque riferimento alla concreta attività svolta nel territorio cremonese dalla suddetta associazione, in violazione dei principi affermati, in proposito, dalle Sezioni unite di questa Corte. Né potrebbe condividersi il riferimento, contenuto nella sentenza di primo grado, alla richiesta di gestire il Rifugio del cane di Cremona da parte della stessa associazione, trattandosi di istanza formulata a distanza di quasi tre anni dai fatti per cui è processo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Preliminarmente, è necessario affrontare la questione della legittimazione alla costituzione di parte civile della Lega nazionale per la difesa del cane, dedotta dalla difesa di Cheti Nin con il primo motivo di impugnazione e, dalla difesa delle altre due imputate, con l’ultimo motivo di ricorso.
2.1. In argomento, va ricordato che l’art. 3 della legge 20 luglio 2004, n. 189, ha introdotto, nel corpo delle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale, gli artt. 19-ter e 19-quater. Quest'ultima disposizione, rubricata “affidamento degli animali sequestrati o confiscati”, stabilisce che “gli animali oggetto di provvedimenti di sequestro o di confisca sono affidati ad associazioni o enti che ne facciano richiesta individuati con decreto del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro dell'interno”. Inoltre, a mente dell'art. 7 della stesse legge, rubricato “diritti e facoltà degli enti e delle associazioni”, “ai sensi dell'articolo 91 del codice di procedura penale, le associazioni e gli enti di cui all'articolo 19-quater delle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale perseguono finalità di tutela degli interessi lesi dai reati previsti dalla presente legge”. E in attuazione dell'art. 19-quater, disp. att. cod. pen., il Ministero della Salute ha emanato il D.M. 2 novembre 2006, pubblicato nella Gazz. Uff. n. 19 del 24/01/2007.
Ora, secondo quanto in passato affermato da questa Corte, il combinato disposto delle due norme non conferisce alle associazioni ed enti individuati con il citato decreto ministeriale, alcun diritto di costituirsi, in esclusiva, quale parte civile nei processi penali relativi ai reati commessi ai danni di animali.
Infatti, l'art. 7 della legge n. 189 del 2004 riconosce automaticamente, in favore di tali associazioni ed enti (individuate al solo fine di ottenere l'affidamento e la custodia degli animali), l'esistenza della finalità di tutela degli interessi lesi dai reati previsti dalla stessa legge, ma non esclude in alcun modo che tale finalità possa essere perseguita anche da associazioni diverse da quelle così individuate, le quali deducano di aver subito un danno diretto dal reato. Ciò anche, e soprattutto, ove si consideri che persona danneggiata (legittimata a costituirsi parte civile) e persona offesa (legittimata a esercitare anche le facoltà espressamente previste dal titolo VI del libro primo - parte prima del codice di rito) non sono normativamente sovrapponibili e che mentre l'art. 91, cod. proc. pen., attribuisce agli enti e alle associazioni ivi indicati, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato, l'art. 74, cod. proc. pen. riconosce a chiunque assuma di avere subito un danno in conseguenza del reato, la legittimazione all'azione civile nel processo penale.
Ne consegue che è pienamente ammissibile la costituzione di parte civile di un'associazione, anche non riconosciuta, che avanzi, iure proprio, la pretesa risarcitoria, assumendo di aver subito, per effetto del reato, un danno, patrimoniale o non, consistente nell'offesa all'interesse perseguito dal sodalizio e posto nello statuto quale ragione istituzionale della propria esistenza ed azione, con la conseguenza che ogni attentato a tale interesse si configura come lesione di un diritto soggettivo inerente alla personalità o all’identità dell'ente (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, dep. 18/09/2014, Espenhahn, Rv. 261110). Ciò sul presupposto che determinati organismi abbiano “fatto di un determinato interesse” collettivo “l'oggetto principale della propria esistenza”, tanto che esso sia “diventato elemento interno e costitutivo del sodalizio e come tale ha assunto una consistenza di diritto di soggettivo”. Nondimeno, perché questo accada è necessario, secondo la giurisprudenza di questa Corte, fare riferimento ad una situazione storica determinata, al ruolo concretamente svolto dall'organismo che si costituisce nel giudizio e alla sua capacità di rappresentare, in un contesto ben determinato, gli interessi per la cui tutela si intende esercitare, nel processo penale, l’azione civile.
Osserva, sul punto, il Collegio come non possa dubitarsi che un'associazione, la quale, come nel caso di specie, sia statutariamente deputata alla protezione di una determinata categoria di animali (cani), debba riconoscersi come tendenzialmente portatrice degli interessi penalmente tutelati, tra gli altri, dai reati di cui agli artt. 544-bis, 544-ter, 544-quater, 544-quinquies e 727 cod. pen. (così Sez. 3, n. 34095 del 12/05/2006, dep. 12/10/2006, P.O. in proc. Cortinovis ed altro, in motivazione). In una siffatta ipotesi, infatti, l'ente, per l'attività concretamente svolta e, appunto, per la sua finalità statutaria primaria, coincidente con la tutela dei cani, ovvero degli interessi lesi dai reati contestati, si fa portatore, secondo il ricordato meccanismo di immedesimazione, di una posizione di diritto soggettivo che lo legittima a chiedere il risarcimento dei danni derivati dalle violazioni della legge penale. Nondimeno, onde evitare forme di abnorme dilatazione nella legittimazione alla tutela civilistica, è necessario che vi sia anche una forma di collegamento territoriale tra l’associazione e il luogo in cui l’interesse è stato inciso.
Muovendosi lungo il crinale interpretativo testé riassunto, le ricorrenti hanno dedotto, per un verso, che l’associazione in questione, pur avendo un “aggancio” territoriale nella provincia di Cremona, non fosse in realtà operativa nella struttura del canile (Nin) e, per altro verso, che la richiesta di gestire il Rifugio del cane di Cremona da parte dell’associazione de qua, ricordata nella sentenza di primo grado per giustificare il riconoscimento della legittimazione a costituirsi parte civile, non sarebbe pertinente, trattandosi di un’istanza formulata a distanza di quasi tre anni dai fatti per cui è processo.
E, tuttavia, osserva il Collegio che la Corte di appello ha precisato, facendo riferimento ad un elemento di fatto non sindacabile in questa sede, come la Lega Nazionale per la difesa del Cane avesse una precisa articolazione territoriale nella provincia di Cremona, nella quale si trovava il canile ove operavano le tre imputate, con ciò venendo soddisfatto il menzionato requisito elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte, non essendo, invece, richiesto un radicamento dell’associazione nello specifico contesto operativo in cui la lesione sia maturata, pena una inammissibile neutralizzazione delle istanze di tutela, attesa l’impossibilità che enti esponenziali di un interesse collettivo o diffuso possano avere una capillare articolazione in qualunque realtà ove possano determinarsi situazioni di danno all’interesse rappresentato.
Ne consegue, pertanto, la manifesta infondatezza delle relative doglianze.
3. Per quanto, ancora, concerne la concreta configurabilità del delitto di cui all’art. 544-bis cod. pen. (oggetto del terzo motivo del ricorso della Nin e del primo dei ricorsi delle altre due imputate), le censure concernono, sotto un primo profilo, la mancata dimostrazione che l’uccisione degli animali avesse avuto luogo con “crudeltà” ovvero in “assenza di necessità”.
Tuttavia, osserva il Collegio che, in realtà, la Corte territoriale ha ricordato le puntuali testimonianze di Enrica Cerioni e Giuseppe Dambrosio, i quali avevano riferito di avere visto Cheti Nin sopprimere numerosi esemplari di cani senza alcuna necessità, in assenza di visita o di certificazione veterinaria che ne giustificasse l’abbattimento e, nel caso della sola Cerioni, di avere visto la Gaiardi eliminare dei cuccioli e la Caccialanza portare dei cani dietro un container constatando, subito dopo, che le loro carcasse erano state racchiuse in sacchi custoditi in una cella frigorifera; di Giuseppe Muto, che aveva visto la Nin e la Gaiardi eseguire iniezioni ai danni di animali che il giorno dopo, con significativa puntualità, venivano rinvenuti morti. Testimonianze, quelle appena riassunte, che sono state complessivamente riscontrate alla luce delle dichiarazioni, sottoposte ad attento vaglio, dei testi Maria Grazia Cassanelli, Luigina Bruni e Daniela Boccali; ma soprattutto, come ammesso dalla stessa difesa di Gaiardi e Caccialanza, alla stregua di una serie di elementi indiziari in grado di far emergere l’avvenuta soppressione “senza necessità” di decine e decine di animali: dalla indicazione, sui cartellini identificativi degli animali soppressi a seguito di “eutanasia ufficiale”, di cause non riconducibili tra le legittime ipotesi di soppressione per ragioni veterinarie, all’assenza di patologie fisiche negli animali soppressi, fino al mancato rispetto degli obblighi certificativi. Senza contare, poi, che i documenti di trasporto delle carcasse di animali avviati allo smaltimento riportavano un peso complessivo di gran lunga superiore al numero degli animali morti emergente dai registri ufficiali e che, presso il canile, erano state rinvenute dosi di farmaci letali in quantità abnormi rispetto alle esigenze della struttura.
A fronte della analitica esposizione degli elementi fattuali posti alla base del ragionamento probatorio, del tutto inconferente si palesa l’allegazione della difesa di Cheti Nin, secondo cui i testi sarebbero stati contraddittoriamente ritenuti attendibili in relazione alla soppressione della stragrande maggioranza di animali, ma non in relazione a singole condotte di soppressione, per le quali l’imputata è stata assolta. In realtà, il complessivo ragionamento probatorio svolto dai giudici di merito, concernente la gestione “criminale” del canile da parte delle tre imputate, appare estremamente coerente ed anzi, la circostanza che le sentenze abbiano dato conto, in relazione a singoli episodi, di un quadro indiziario poco chiaro, conseguente alla presenza di testimonianze non univoche, costituisce una dimostrazione del vaglio particolarmente attento che è stato dagli stessi compiuto e del pieno esercizio dei diritti di difesa che è stato assicurato.
Dinnanzi a una accurata ricostruzione degli elementi idonei ad affermare la responsabilità delle imputate, la difesa di Gaiardi e Caccialanza si è limitata a sottolineare come l’assenza di patologie fisiche idonee a giustificare la soppressione degli animali, non potesse essere assunta quale elemento dimostrativo dell’assenza di necessità dell’abbattimento, che all’epoca sarebbe stato consentito anche in caso di mero disagio psichico dell’animale. E tuttavia tale affermazione è rimasta al livello di mera enunciazione, non essendo stato dedotto alcun concreto elemento in grado di dimostrarla.
Né appare rilevante l’osservazione, sempre compiuta dalla difesa di Gaiardi e Caccialanza, secondo cui le richiamate condotte omissive (in particolare con riferimento agli obblighi certificativi), assunte quali indizi della eliminazione dei cani senza necessità, in realtà sarebbero state riferibili soltanto in capo a chi, come Cheti Nin, aveva la gestione operativa del canile ed era tenuta ai relativi adempimenti. Infatti, la responsabilità delle imputate è stata affermata su base concorsuale e, dunque, attraverso la configurazione, in capo alle due ricorrenti, di una partecipazione congiunta alle azioni ed omissioni direttamente ascrivibili alla stessa Nin, il cui movente era stato, dalle stesse, pienamente condiviso.
4. Manifestamente infondate sono, altresì, le questioni poste con riferimento alla configurabilità dell’art. 348 cod. pen., rispetto alle quali le ricorrenti hanno articolato, nelle rispettive impugnazioni, il secondo motivo di doglianza.
Si opina, da parte di tutte le imputate, che non sarebbe stata dimostrata l’esistenza degli elementi qualificanti della fattispecie contestata, quali la continuità, professionalità e onerosità della condotta, atteso il carattere meramente volontario e senza retribuzione della stessa.
Tale ricostruzione dei requisiti del delitto de quo parrebbe fondata sul principio espresso dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo il quale “integra il reato di esercizio abusivo di una professione (…), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato” (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, dep. 23/03/2012, Cani, Rv. 251819). E tuttavia, in quel caso, il riferimento ai menzionati requisiti dell’attività delittuosa era strettamente connesso alla necessità di ricondurlo, sul piano probatorio, alla professione abusivamente esercitata e non alla identificazione degli indefettibili elementi di fattispecie. Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la fattispecie prevista dall'art. 348 cod. pen. ha natura istantanea (ovvero solo eventualmente abituale: così Sez. 2, n. 43328 del 15/11/2011, dep. 24/11/2011, Giorgini e altri, Rv. 251376), sicché essa non esige un'attività continuativa od organizzata, ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata (così Sez. 5, n. 24283 del 26/02/2015, dep. 5/06/2015, Bachetti, Rv. 263905; Sez. 6, n. 11493 del 21/10/2013, dep. 10/03/2014, Tosto, Rv. 259490, relativo a una fattispecie in tema di esercizio abusivo della professione di avvocato, nella quale la Corte ha ritenuto irrilevante la circostanza che la ricorrente avesse trattato un'unica pratica giudiziaria; negli stessi termini Sez. 6, n. 30068 del 2/07/2012, dep. 23/07/2012, Pinori e altro, Rv. 253272; Sez. 6, n. 42790 del 10/10/2007, dep. 20/11/2007, P.G. in proc. Galeotti, Rv. 238088). E nel caso di specie, le sentenze hanno perfettamente posto in luce come le pratiche di eutanasia ascritte alle tre imputate configurassero delle ipotesi di esercizio della professione di veterinario, in quanto attività allo stesso riservate.
5. Quanto, infine, al quarto motivo di doglianza formulato dalla difesa di Cheti Nin, con il quale viene censurato il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, osserva il Collegio che la valutazione circa la concessione o il diniego delle circostanze di cui all’art. 62-bis cod. pen. si configura come un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo (v. tra le tante Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, dep. 23/11/2010, Straface, Rv. 248737; Sez. 1, n. 46954 del 4/11/2004, dep. 2/12/2004, P.G. in proc. Palmisani e altro, Rv. 230591), se del caso anche attraverso il ricorso a formule sintetiche (così Sez. 4, n. 23679 del 23/04/2013, dep. 31/05/2013, Viale e altro, Rv. 256201).
In questa prospettiva, il giudicante, se si determina per il diniego, non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo, avuto riguardo ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., senza che, peraltro, sia necessario che il giudice li esamini tutti, essendo in realtà sufficiente che egli specifichi a quali, tra essi, egli abbia inteso fare riferimento, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (v., ex plurimis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, dep. 3/07/2014, Lule, Rv. 259899; sostanzialmente in termini anche Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, dep. 22/09/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
Orbene, nel caso di specie, i giudici di primo grado hanno posto in luce il peculiare atteggiamento soggettivo dell’imputata, connotato da una spiccata intensità del dolo e dalla futilità dei motivi sottesi alle condotte accertate, laddove la Corte territoriale, in risposta a una specifica doglianza espressa nell’atto di appello, ha sottolineato l’assenza di elementi di fatto valorizzabili, al di la della mera condizione di incensuratezza, per la concessione delle attenuanti generiche, anche “tenuto conto del ruolo di preminenza e di responsabilità che la stessa ricopriva nella gestione del canile”. In questo modo, attraverso il riferimento a taluni criteri posti dall’art. 133, comma 1 n. 3 e comma 2 n. 1 cod. pen. ed alla regola introdotta dall’art. 1, comma 1, lett. f) del decreto legge 23/05/2008, n. 92, convertito in legge 24/07/2008, n. 125 (secondo cui “l’assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato non può essere, per ciò solo, posta a fondamento della concessione” delle attenuanti generiche), i giudici di merito hanno adeguatamente motivato la decisione assunta, conformandosi alla già richiamata cornice di principio.
6. Sulla base delle considerazioni che precedono i ricorsi devono essere, pertanto, dichiarato inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro.
PER QUESTI MOTIVI
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuna ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2000,00 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 5/10/2017