Consiglio di Stato Sez.VII n. 7829 del 18 agosto 2023
Urbanistica.Stato legittimo immobile

Dal momento in cui l’edificazione dei suoli è stata assoggettata al preventivo rilascio di un atto autorizzatorio, variamente denominato nel corso dei decenni, ed è stato istituito un sistema sanzionatorio che ha punito la realizzazione di opere edilizie in assenza o in difformità dai titoli autorizzativi, è stato implicitamente stabilito che la legittimità - ovvero lo “stato legittimo” – di un immobile è parametrata alle condizioni che ne hanno legittimato la prima costruzione (licenza di costruzione ovvero ubicazione fuori dai centri abitati, fino al 1967) nonché ai titoli edilizi che hanno autorizzato successive modifiche. Per questa ragione la giurisprudenza formatasi sul contenzioso avente ad oggetto ordinanze di demolizione di immobili esistenti da lungo tempo, solo con riferimento ai fabbricati di cui si prospettava la costruzione fuori dai centri abitati prima del 1967, ha ammesso che la prova della legittimazione potesse essere fornita anche con mezzi diversi dal titolo edilizio, cioè con mezzi di prova idonei a dimostrare la ricorrenza delle indicate condizioni in presenza delle quali non necessitava la licenza di costruzione. In ogni altro caso il parametro di riferimento é sempre stato individuato solo nei titoli edilizi: tant’è che per superare l’insanabile contrasto tra lo stato di fatto di un immobile e quello risultante dai titoli edilizi, per lungo tempo una parte della giurisprudenza ha ammesso che l’ordine di demolizione dovesse recare una motivazione rafforzata in punto pubblico interesse al ripristino, e ciò, peraltro, solo nel caso in cui fosse trascorso un lungo lasso di tempo tra la realizzazione dell’abuso e l’ordine di demolizione.


Pubblicato il 18/08/2023

N. 07829/2023REG.PROV.COLL.

N. 05505/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5505 del 2019, proposto da
Angelo Vecchi, Carlo Pierino Vecchi, Fausto Vecchi, Francesca Vecchi, Giuseppe Patrizio Vecchi, Maria Luisa Vecchi, rappresentati e difesi dall'avvocato Massimo Giavazzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il di lui studio in Bergamo, via A. Locatelli n. 49;

contro

Comune di Ghisalba, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Calvi e Gabriele Pafundi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, via Tagliamento n. 14;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia n. 00013/2019, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Ghisalba;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.;

Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 7 giugno 2023 il Cons. Roberta Ravasio, in collegamento da remoto ai sensi dell’art. 87, comma 4 bis, c.p.a.;

Dato atto che nessuno è comparso per le parti, che hanno chiesto il passaggio della causa in decisione senza discussione;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Gli appellanti erano proprietari di un immobile ubicato nel centro storico del Comune di Ghisalba, ereditato dai genitori, da costoro ristrutturato nel 1965 in forza di licenza di costruzione n. 22-181 del 4 ottobre 1965: nell’eseguire l’intervento essi realizzavano alcune opere in difformità, le quali, così come accertate anche in separato giudizio (in particolare nella sentenza del TAR per la Lombardia, Brescia, n. 1035 del 30 agosto 2018: cfr. doc. 19 delle produzioni del Comune), si sono compendiate in una maggiore altezza al colmo del tetto, nell’ampliamento della superficie coperta (pari a 171,4 mq. invece di 146,5 mq), nella conseguente maggiore volumetria (circa 170 mc) del sottotetto, nell’ampliamento di una stanza al primo piano mediante inclusione della superficie di un balcone (27 mc), in ulteriore piccolo ampliamento al piano terreno (circa 5 mc).

2. Delle suddette difformità l’Amministrazione non veniva a conoscenza per molto tempo, e lo stato effettivo dell’immobile veniva “recepito” in un piano di recupero del centro storico approvato dal Comune nel 1987. Ancora nel 1991, quando si trattò di realizzare alcuni interventi minori, veniva presentata una comunicazione di opere interne, n. prot. 2578 del 27 luglio 1991, che rappresentava l’immobile come da progetto del 1965, senza riprodurre le difformità.

3. Nel 2017 gli appellanti cedevano l’immobile a tale società Santa Rita s.r.l., la quale presentava la CILA n. AEL6719/2017 del 7 agosto 2017 per la realizzazione di opere di manutenzione straordinaria: in occasione dell’esame di tale pratica edilizia il Comune si è avvedeva che lo stato di fatto del fabbricato, puntualmente rappresentato nelle tavole progettuali presentate dalla società, non corrispondeva allo stato legittimo risultante dai titoli edilizi del 1965 e del 1991; procedeva quindi, con nota n. 6747 dell’8 agosto 2017, notificata alla società, a inibire il nuovo intervento edilizio, e successivamente, con ordinanza n. 17 del 15 settembre 2017, notificata agli odierni appellanti e alla società, con cui si ingiungeva la “demolizione opere abusive e ripristino dei luoghi”.

4. Gli ex proprietari, odierni appellanti, avendovi interesse impugnavano ambedue i provvedimenti innanzi al TAR per la Lombardia, sede di Brescia, deducendone l’illegittimità per mancanza di pubblico interesse al ripristino, per contraddittorietà con il piano di recupero del 1987, e per sviamento di potere, assumendo che i provvedimenti impugnati costituirebbero uno strumento per impedire l’insediamento, nel fabbricato, di un centro di accoglienza; deducevano, ancora, violazione degli artt. 31 e 34 del DPR 380 e dell’art. 54 LR12/2005, in relazione al fatto che non si tratterebbe di difformità essenziali.

5. Il TAR respingeva tutte le censure, rilevando, in particolare, che le norme vigenti nella zona, centro storico, non consentivano alcun aumento di volumetria né di altezza, conseguendo da ciò la rilevanza essenziale delle difformità.

6. I signori Vecchi hanno proposto rituale appello avverso tale decisione.

7. Il Comune di Ghisalba si è costituito in giudizio, insistendo per la reiezione del gravame.

8. La causa è stata chiamata all’udienza straordinaria del 6 giugno 2023, in occasione della quale è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

9. Con il primo motivo d’appello i signori Vecchi contestano il capo della appellata sentenza con cui il TAR ha affermato che “La redazione della scheda del piano di recupero sulla base della situazione attuale non può avere alcun effetto ingenerante legittimo affidamento o addirittura la sanatoria, di fatto, dell’abuso ivi rappresentato. Può ragionevolmente presumersi, infatti, che il piano di recupero abbia indicato l’edificio in questione rappresentandone la consistenza rilevata in concreto, senza verificare se essa sia stata realizzata sulla scorta di titoli legittimanti la medesima, in quanto ciò sarebbe risultato eccentrico rispetto allo scopo perseguito con la sua redazione. L’unico effetto che può discenderne, però, è la datazione degli interventi censurati come anteriori al 1987, ma non anche la legittimazione di una situazione di fatto non supportata dai necessari atti autorizzatori”.

9.1. Sostengono gli appellanti che, costituendo il piano di recupero un atto amministrativo, il fatto che in esso il fabbricato sia stato rappresentato nella attuale consistenza avrebbe determinato l’insorgenza, nella generalità dei cittadini e in particolare negli appellanti, di un affidamento circa la legittimità di tale consistenza, da essi garantita nell’atto di vendita dell’immobile; tale affidamento, in quanto qualificato dalla buona fede, dovrebbe prevalere rispetto all’interesse al ripristino della legalità, conseguendo da ciò che il principio secondo cui le sanzioni edilizie possono essere adottate in ogni tempo e non necessitano di una motivazione specifica circa l’interesse pubblico al ripristino, sarebbero inapplicabili al caso di specie.

9.2. La censura deve essere respinta per più d’una ragione.

9.2.1. Giova rammentare, in primo luogo, che l’art. 9 bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001, aggiunto al corpo della norma dall’art. 10, comma 1, lett. d), n. 2, del D.L. n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla L. n. 120/2020, stabilisce che “Lo stato legittimo dell'immobile o dell'unita' immobiliare e' quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l'ultimo intervento edilizio che ha interessato l'intero immobile o unita' immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un'epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo e' quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d'archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l'ultimo intervento edilizio che ha interessato l'intero immobile o unita' immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresi' nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia”.

9.2. La previsione, benché entrata in vigore solo nel 2020, in realtà costituisce mera applicazione di norme già da molti anni vigenti nell’ordinamento, in particolare delle norme che hanno introdotto l’obbligo, per i proprietari di terreni, di munirsi di un titolo autorizzatorio per realizzare le costruzioni, sanzionando la violazione di tale obbligo. Trattasi, in particolare: dell’art. 31 della L. 1150/42 , che per primo ha introdotto l’obbligo della licenza di costruzione per tutti gli edifici da costruirsi all’interno dei centri abitati; nonché degli artt. 10 e 6 della L. n. 765/1967, i quali hanno previsto, rispettivamente, l’estensione dell’obbligo della licenza di costruzione in tutto il territorio comunale - e quindi anche fuori dai centri abitati - nonché la sanzionabilità delle opere eseguite senza licenza di costruzione o in contrasto con essa. Il sistema così disegnato è stato poi portato ad ulteriore completamento con la L. n. 10/1977, che ha introdotto anche l’obbligo, del proprietario, di partecipare alle spese di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, nonché con la L. n. 47/85, che ha rafforzato il sistema sanzionatorio degli abusi edilizi.

9.3. Si osserva, dunque, che dal momento in cui l’edificazione dei suoli è stata assoggettata al preventivo rilascio di un atto autorizzatorio, variamente denominato nel corso dei decenni, ed è stato istituito un sistema sanzionatorio che ha punito la realizzazione di opere edilizie in assenza o in difformità dai titoli autorizzativi, è stato implicitamente stabilito che la legittimità - ovvero lo “stato legittimo” – di un immobile è parametrata alle condizioni che ne hanno legittimato la prima costruzione (licenza di costruzione ovvero ubicazione fuori dai centri abitati, fino al 1967) nonché ai titoli edilizi che hanno autorizzato successive modifiche. Per questa ragione la giurisprudenza formatasi sul contenzioso avente ad oggetto ordinanze di demolizione di immobili esistenti da lungo tempo, solo con riferimento ai fabbricati di cui si prospettava la costruzione fuori dai centri abitati prima del 1967, ha ammesso che la prova della legittimazione potesse essere fornita anche con mezzi diversi dal titolo edilizio, cioè con mezzi di prova idonei a dimostrare la ricorrenza delle indicate condizioni in presenza delle quali non necessitava la licenza di costruzione (ex multis, fra le più recenti, si veda Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 570 del 27 gennaio 2022). In ogni altro caso il parametro di riferimento é sempre stato individuato solo nei titoli edilizi: tant’è che per superare l’insanabile contrasto tra lo stato di fatto di un immobile e quello risultante dai titoli edilizi, per lungo tempo una parte della giurisprudenza ha ammesso che l’ordine di demolizione dovesse recare una motivazione rafforzata in punto pubblico interesse al ripristino, e ciò, peraltro, solo nel caso in cui fosse trascorso un lungo lasso di tempo tra la realizzazione dell’abuso e l’ordine di demolizione.

9.4. Come noto, anche quest’ultimo orientamento è stato definitivamente superato dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2017, la quale ha affermato il principio secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.

9.5. L’art. 9-bis, comma 1 bis, del D.P.R. n. 380/2001 in sostanza non ha fatto altro che codificare il principio per cui lo stato legittimo di un immobile è quello che risulta dai titoli edilizi, potendosene prescindere solo per gli immobili “realizzati in un'epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio” nonché per quelli relativamente ai quali “sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia”: la norma è stata introdotta soprattutto allo scopo di fornire all’acquirente di un immobile la certezza della legittimità dell’immobile, potendo ottenere dall’amministrazione comunale (come desumibile dall’art. 34 bis, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001) una attestazione dello stato legittimo dell’immobile, che comunque non è sostitutiva dei titoli edilizi.

9.6. Segue da quanto esposto che lo stato di un immobile attestato in un documento diverso dal titolo edilizio abilitativo non ha mai posseduto efficacia probante, tale da far insorgere un affidamento di buona fede, salvo che per gli immobili per i quali non era necessario il titolo abilitativo e limitatamente alla prima costruzione e alle modificazioni intervenute prima del 1967.

9.7. Il fabbricato già di proprietà degli appellanti è situato nel centro storico della città, non risulta che la relativa costruzione fosse essente dall’obbligo della licenza di costruzione e, in ogni caso, gli abusi contestati sono stati determinati dal Comune con riferimento alla licenza di costruzione rilasciata nel 1965 e alla successiva comunicazione di opere interne del 1991; pertanto alcuna efficacia probante, idonea a far insorgere negli odierni appellanti un affidamento legittimo, poteva essere attribuita al piano di recupero del centro storico approvato nel 1987, non ricorrendo le condizioni che consentono di dimostrare lo stato legittimo di un immobile per diversa via

9.8. Il capo di sentenza in esame merita, dunque, integrale conferma.

10. Con il secondo motivo d’appello è contestato il capo della sentenza che ha portato il TAR ad affermare che le difformità contestate dal Comune integrerebbero “variazione essenziale” rispetto alla licenza di costruzione del 1965, imponendo l’adozione dell’ordine demolitorio.

10.1. Il TAR ha osservato che in effetti il Comune non ha dimostrato che i parametri di altezza e volumetria dell’edificio siano superiori ai parametri che l’art. 54 della L.R. Lombardia n. 12/2005 considera indicativi di variante essenziale; tuttavia ha osservato che le previsioni dello strumento urbanistico generale del Comune di Ghisalba relative ai centri storici, e in particolare l’art. 6 delle NTA, vietano, all’attualità, qualsiasi incremento, seppur minimo, di altezza o di volumetria. Né si potrebbe, secondo il TAR, dare rilevanza all’eventuale conformità di tali abusi rispetto alle norme urbanistiche vigenti al momento della realizzazione degli abusi, poiché ciò “equivarrebbe a riconoscere l’operatività di una sorta di “sanatoria” di fatto che non trova alcun riscontro nell’ordinamento giuridico”.

10.2. Gli appellanti ritengono che l’interpretazione che il TAR ha dato delle NTA non è corretta: in sintesi, essi ritengono che il volume racchiuso nel sottotetto non deve essere computato, per la ragione questo, avendo una altezza interna inferiore a mt. 2,40, non è agibile e non incide sul parametro della superficie utile (SLP). L’interpretazione che il TAR ha dato dell’art.6 delle NTA produrrebbe l’incoerente risultato di ritenere non agibile il sottotetto, che pacificamente ha una altezza inferiore a 2,40 metri, ma di qualificare come utile la volumetria in esso racchiusa.

Gli appellanti richiamano inoltre l’art. 54, comma 3, della L.R. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “Non sono comunque da considerarsi variazioni essenziali quelle che incidono sull'entità delle cubature dei volumi tecnici ed impianti tecnologici, sulla distribuzione interna delle singole unità abitative e produttive, per l'adeguamento alle norme di risparmio energetico, per l'adeguamento alle norme per la rimozione delle barriere architettoniche, nonché le modifiche che variano il numero delle unità immobiliari”.

In sostanza, secondo gli appellanti, l’innalzamento del colmo del tetto ha prodotto un aumento di volumetria che, però, non ha reso agibile il sottotetto, che pertanto è rimasto un locale tecnico, le cui variazioni non possono costituire variazione essenziale.

10.3. Il Collegio precisa, preliminarmente, che la distinzione tra varianti essenziali e non essenziali rileva essenzialmente per la ragione che solo nel caso degli abusi realizzati in totale assenza di titolo edilizio o in variante essenziale al titolo rilasciato, l’inadempimento alla ingiunzione di demolizione comporta le conseguenze previste all’art. 30, commi 3 e segg. del D.P.R. n. 380/2001. Di conseguenza, nonostante che anche per le varianti non essenziali la sanzione prevista è, di regola, la demolizione, potendosi far luogo alla c.d. “fiscalizzazione” solo nel caso in cui si accerti che la rimozione delle opere abusive non possa avvenire senza pregiudizio di quelle legittimamente realizzate, sussiste l’interesse degli appellanti all’esame della censura, finalizzata all’accertamento della natura non essenziale delle difformità riscontrate nel fabbricato.

10.4. La pronuncia del TAR merita conferma, sia pure con diversa motivazione.

10.4.1. E’ pacifico che il sottotetto del fabbricato di che trattasi ha una un’altezza media compresa tra 1,77 metri e 2.07 metri, a seconda della porzione considerata.

10.4.2. Nella Regione Lombardia è consentito il recupero abitativo dei sottotetti, ma esclusivamente per i locali che garantiscano i parametri di cui all'art. 63 comma 6 della l.r. 12/2005 (altezza media ponderale netta interna minima m 2.40); è consentito, inoltre, il recupero ai fini abitativi di sottotetti esistenti comportanti modifica delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde solo nei casi nei quali l’altezza interna di imposta di gronda non sia inferiore a 1,50 e previo favorevole giudizio di impatto paesistico ai sensi dell'art. 64 comma 8 della l.r. 12/2005 come modificata dalla l.r. 20/2005.

10.4.3. Quanto dianzi specificato conferma che all’attualità il sottotetto presente nel fabbricato di proprietà degli appellanti non potrebbe ottenere l’agibilità a fini abitativi. Ciò, tuttavia, non implica che la relativa volumetria non debba essere computata al fine di stabilire se l’innalzamento del colmo e delle falde di copertura del tetto abbia determinato una variante essenziale.

10.4.4. Si deve infatti considerare che l’art. 32 del D.P.R. n. 380/2001, nell’indicare la tipologia delle varianti essenziali, al comma 1, lett. b), fa riferimento all’ aumento, non già della “volumetria utile” ma “della cubatura”, concetto, quest’ultimo, generico e certamente comprensivo di ogni volume, agibile o meno.

10.4.5. Anche l’art. 54 della L.R. Lombardia n. 12/2005, nell’indicare le varianti essenziali, al comma 1, lett. b), fa riferimento all’aumento del “volume” rispetto al progetto approvato, tuttavia senza effettuare alcun riferimento alla volumetria dei locali agibili. E’ poi vero che il comma 3 della norma esclude la rilevanza delle varianti “che incidono sull'entità delle cubature dei volumi tecnici ed impianti tecnologici”, ma tale previsione deve essere interpretata alla luce della nozione di “volume tecnico”, che non coincide con quella di “locale non agibile”: a tale proposito si rammenta che secondo la giurisprudenza consolidata costituisce “volume tecnico”, non computabile nella volumetria utile, solo quello destinato ad ospitare impianti tecnologici e di dimensioni strettamente necessarie a tale fine. Sicché la lettura sistematica dell’art. 54 della L.R. Lombardia n. 12/2005 conduce ad affermare che ai fini della verifica dell’aumento di volumetria che integra variante essenziale, non va computato solo il volume dei locali che, sia prima dell’intervento che dopo, mantengono le caratteristiche che consentono di qualificarli quali “volumi tecnici” nel senso individuato dalla giurisprudenza. Confluisce, di contro, nella volumetria da considerare a detti fini quella contenuta in locali non agibili a fini abitativi, ma di dimensioni eccedenti quella propria dei “volumi tecnici”. Opinando diversamente si otterrebbe il risultato di qualificare in termini di variante non essenziale, un rilevante aumento di volumetria solo perché afferente in via diretta a quello che era un “volume tecnico” e che poi ha perso le caratteristiche per essere considerato tale; si otterrebbe, inoltre, una norma regionale contrastante con il dettato della norma statale di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 380/2001, che – come già precisato – ai fini di verificare la sussistenza di varianti essenziali assume a parametro qualsiasi “cubatura” e non solo quella dei locali agibili.

10.4.6. Nel caso di specie l’aumento di volumetria del fabbricato, indotto dalle opere abusive, è stato stimato per il solo sottotetto in circa 170 mc, oltre a circa 32 mc per ampliamenti ai piani inferiori: ancorché il TAR abbia ritenuto che non v’è prova che la maggiore altezza, rispetto al progetto del 1965, superi il metro e sussistano pertanto dubbi in ordine all’effettivo incremento volumetrico del sottotetto, in mancanza di prova contraria si può presumere che esso ha superato la soglia indicata dall’art. 54, comma 1, lett. b) n. 1, per gli edifici residenziali aventi una volumetria inferiore a 1000 mc., soglia che è pari al 7,5% fino a 1000 mc, e che dunque è di 75 mc per gli edifici per i quali la volumetria da progetto sia di 1000 mc.

10.4.7. Gli appellanti non hanno dimostrato quale fosse la volumetria effettiva del fabbricato, da licenza del 1965; tuttavia, considerato che la superficie risultante dalla licenza edilizia del 1965 era di 146,5 mq, si può presumere che la volumetria originariamente assentita fosse compresa tra 439,5 mc (pari a 146,5 mq per una altezza di 3 metri) e 600 mc, calcolando una volumetria aggiuntiva del sottotetto: la soglia indicativa di variante essenziale, quanto al parametro volumetria, sarebbe dunque da quantificarsi, al massimo, nel 7,5% di 600 mc, cioè in 45 mc. E’ dunque verosimile che tale soglia sia stata superata nel caso di specie, essendo stati realizzati aumenti di volumetria di circa 32 mc solo nei piani inferiori, ai quali va aggiunto l’incremento volumetrico del sottotetto, che è comunque consistente e dunque superiore a 13 mc.

10.5. Va, infine, rilevato, che l’atto impugnato ha correttamente applicato, in ossequio al principio tempus regit actum, la normativa vigente al momento della sua adozione, ovvero il D.P.R. n. 380/2001 e la L.R. Lombardia n. 12/2005. Tale normativa impone di verificare la natura delle varianti prendendo a riferimento non le norme edilizie e urbanistiche che disciplinano l’uso del territorio, ma il progetto in concreto approvato, e ciò in coerenza con il principio secondo cui lo stato legittimo di un immobile è parametrato a quanto assentito nei titoli edilizi che ne hanno autorizzato la prima costruzione e le successive modifiche. Nessuna rilevanza, quindi, assume la normativa edilizia e urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’abuso né quella vigente al momento in cui l’abuso viene sanzionato: tale normativa è rilevante ai fini di una eventuale sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, mentre per stabilire la sussistenza, o meno, di una variante essenziale il parametro di riferimento è dato dal progetto approvato, cioè dallo “stato legittimo” dell’immobile, rispetto al quale va verificata la sussistenza di difformità della consistenza indicata nell’art. 32 del D.P.R. n. 380/2001 nonché nelle norme regionali (nel caso di specie l’art. 54 della L.R. 12/2005).

10.6. Alla luce delle considerazioni che precedono risulta corretta l’ordinanza di demolizione del 15 settembre 2017, anche nella parte in cui ha qualificato le difformità contestate quali varianti essenziali. Il secondo motivo d’appello va quindi respinto, e il capo della sentenza ivi impugnato va confermato con diversa motivazione.

11. L’appello va, conclusivamente, respinto.

12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e conferma l’appellata sentenza con motivazione parzialmente sostitutiva.

Condanna gli appellanti al pagamento, in favore del Comune di Ghisalba, delle spese di fase, che si liquidano in €. 3.000,00 (euro tremila), oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 giugno 2023, celebrata in videoconferenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 87, comma 4 bis, c.p.a. e 13 quater disp. att. c.p.a., aggiunti dall’art. 17, comma 7, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, recante “Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia”, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati:

Claudio Contessa, Presidente

Sergio Zeuli, Consigliere

Giovanni Tulumello, Consigliere

Marco Morgantini, Consigliere

Roberta Ravasio, Consigliere, Estensore