Cass. Sez. III n. 47872 del 22 dicembre 2011 (Ud. 20 ott. 2011)
Pres. Ferrua Est. Marini Ric. Garatti
Caccia e animali. Specie non cacciabili

La disciplina posta a tutela delle specie non cacciabili include sia l'abbattimento dell'animale sia le condotte di cattura e detenzione. Anche la compromissione della vita o della libertà di un unico esemplare di fringillidi integra il reato previsto dalla lett. b) dell'articolo 30 Legge 157\92, in conformità con l'elenco compreso nell'art.2 della legge 11 febbraio 1992, n.157 e con 1'allegato II della Convenzione di Bema del 19 settembre 1979 (recepita con legge 5 agosto 1981, n.503).  A diversa conclusione potrebbe giungersi in presenza di legge regionale derogatoria, che per un determinato arco temporale fissi in non più di cinque esemplari il numero massimo cacciabile

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. FERRUA Giuliana - Presidente - del 20/10/2011
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - SENTENZA
Dott. GRILLO Renato - Consigliere - N. 2151
Dott. MARINI Luigi - est. Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. ROSI Elisabetta - Consigliere - N. 4133/2011
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GARATTI Ettore, nato a Carbonia il 9 Maggio 1943;
Avverso la sentenza emessa in data 23 Settembre 2010 dal Tribunale di Pordenone, che lo ha condannato alla pena di 600,00 Euro di ammenda per il reato previsto dalla L. 11 febbraio 1992, n. 157, art. 30, lett. H per avere detenuto un esemplare di peppola, specie non cacciabile. Fatto accertato il 12 febbraio 2009;
Sentita la relazione effettuata dal Consigliere Dott. Luigi Marini;
Udito il Pubblico Ministero nella persona del Cons. Dott. FRATICELLI Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RILEVA
Con sentenza emessa in data 23 Settembre 2010 al termine di giudizio conseguente a opposizione a decreto penale di condanna, il Tribunale di Pordenone ha condannato il Sig. Garatti alla pena di 600,00 Euro di ammenda per il reato previsto dalla L. 11 febbraio 1992, n. 157, art. 30, lett. H per avere detenuto in data 12 febbraio 2009 un esemplare di peppola, specie non cacciabile, custodita in una gabbia nel cortile interno del locale gestito dal ricorrente. Ricorre personalmente in Sig. Garatti in sintesi lamentando;
1. Errata applicazione della L. n. 157 del 1992, art. 30, lett. h e vizio di motivazione per avere il Tribunale ritenuto di applicare anche alla detenzione di un solo esemplare di peppola non l'art. 31, lett. g) della medesima legge, che prevede per la detenzione di non più di cinque fringillidi (specie cui la peppola appartiene) la sola sanzione amministrativa, bensì il citato art.30 in forza della disposizione con cui il D.P.C.M. 22 novembre 1993 ha incluso le peppole fra gli animali non cacciabili. Si tratta, secondo il ricorrente, di disposizione che fissa il generale divieto di caccia ai fringillidi ma non incide sul regime sanzionatorio fissato dagli artt. 30 e 31 della legge. In tal senso si sono espressi sia la Corte costituzionale (sentenza n. 117 del 1994) sia la più recente giurisprudenza di legittimità (sentenza n. 36486 del 2008). 2. Errata applicazione delle medesime disposizioni nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto che la detenzione di animale non cacciabile possa essere punito ai sensi di una norma che vieta la caccia, e cioè l'abbattimento, e non la detenzione;
3. Vizio di motivazione per errata attribuzione al ricorrente della detenzione dell'animale, detenzione che ben potrebbe essere attribuibile ad altra persona; mentre il ricorrente è allevatore riconosciuto, il figlio di lui si dedica alla caccia e non vi è alcuna prova che non sia stato quest'ultimo a catturare l'animale. 4. Eccessività della pena inflitta.
OSSERVA
Il ricorso è basato su motivi manifestamente infondati e non meritevoli di accoglimento.
Premesso che la disciplina posta a tutela delle specie non cacciabili include sia l'abbattimento dell'animale sia le condotte di cattura e detenzione (sentenze n. 11111 del 2005, Pelamatti, rv 233668; n. 23931 del 2010, Fatti, rv 247798), la Corte rileva come la giurisprudenza di questa Sezione sia costante nell'interpretare detta disciplina nel senso che anche la compromissione della vita o della libertà di un unico esemplare di fringillidi integra il reato previsto dalla lett. b) del citato art. 30, in conformità con l'elenco compreso nella L. 11 febbraio 1992, n. 157, art. 2 e con l'allegato 2 della Convenzione di Berna del 19 settembre 1979 (recepita con L. 5 agosto 1981, n. 503); si tratta di principi affermati ancora con la sentenza n. 16441 del 2011, Feroldi, rv 249859, e meritevoli di applicazione in questa sede. A diversa conclusione potrebbe giungersi in presenza di legge regionale derogatoria, che per un determinato arco temporale fissi in non più di cinque esemplari il numero massimo cacciabile (si veda la sentenza di questa Sezione, n. 36846 del 2008, rv 241270, in relazione alla previsione della L.R. Lombardia n. 13 del 2005). Nel caso in esame non risulta essere operativa ne' è stata invocata dal ricorrente una disciplina derogatoria, così che resta ferma la violazione della regola generale sopra richiamata e i primi due motivi di ricorso risultano manifestamente infondati. Manifestamente infondato e viziato per genericità il terzo motivo di ricorso. Le affermazioni che sostengono il motivo non sono fondate su elementi specifici e introducono una ipotesi di estraneità del ricorrente rispetto al fatto che deve essere considerata generica nei termini fissati dall'art. 581 c.p.p., lett. c) e art. 591 c.p.p., lett. c) se rapportata alla motivazione offerta dal Tribunale a pag. 3 della sentenza.
Anche il quarto motivo di ricorso risulta manifestamente infondato e generico se esaminato alla luce della motivazione che il Tribunale ha esposto (pa. 4) in ordine alla concessione delle circostanze generiche e alla determinazione della pena, che tiene conto sia del massimo edittale sia della pena inflitta in sede di decreto penale, poi opposto dal ricorrente.
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nonché al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2011.
Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2011