Cass. Sez. III n. 22826 del 12 giugno 2007 (Ud. 27 mar 2007)
Pres. Onorato Est. Marini Ric. PG ed altri in proc. Artese
Rifiuti. Responsabilità per realizzazione e gestione di discarica abusiva

La situazione di grave illegalità e di rilevante pericolosità provocata dagli esiti di gestione di una società non possono trovare nelle oggettive e rilevanti difficoltà di soluzione una circostanza impropriamente scriminante. Così come non è accettabile, sul piano giuridico, che le cautele di intervento derivanti dalla legge e dagli atti amministrativi possano trasferire sugli enti territoriali e sulle amministrazioni pubbliche forme più o meno dirette di responsabilità che farebbero venir meno quelle degli amministratori o liquidatori della società che ha dato origine alla situazione di illegalità e pericolo. In altri termini, la violazione da parte dei privati delle regole di cautela e degli obblighi connessi alla realizzazione e gestione di una discarica non può perdere il carattere di illiceità sul presupposto che neppure le autorità e gli enti aventi competenza sul sito e sugli immobili hanno saputo riportare nell'ambito della legalità una situazione gravemente compromessa cui i privati hanno dato origine

Udienza pubblica del 27 marzo 2007

SENTENZA N.00930/2007
REG. GENERALE N.7054/2006


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE


Composta dagli ill.mi Sigg.:


Dott. Onorato Pierluigi Presidente
Dott. Marmo Margherita Consigliere
Dott. lanniello Antonio Consigliere
Dott. Marini Luigi Consigliere
Dott. Sarno Giulio Consigliere

ha pronunciato la seguente


SENTENZA


Sul ricorso proposto da:


PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI BARI


WWF ONLUS, PARTE CIVILE


CODACONS ONLUS, PARTE CIVILE


ARTESE STEFANO, nato a Merate il 28 luglio 1962


Avverso la sentenza in data del 21 Ottobre 2005 con cui la Corte di Appello di Bari, in parziale riforma della sentenza emessa in 16 giugno 2004 dal Tribunale di Bari in composizione monocratica, lo ha mandato assolto dai reati contestati ai capi B), C), D) ed E) della originaria imputazione, ed ha confermato la condanna per il capo A), e cioè per il reato previsto dall'art.51, comma 3, in relazione agli artt.27, 28 e ss. Del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22, con conseguente condanna, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena (condizionalmente sospesa) di anni 1 di arresto e Euro 12.000,00 di ammenda; confermando, altresì, il provvedimento di confisca e la condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle parti civili costituite; disponendo, infine, la revoca delle provvisionali disposte in primo grado, ad eccezione di quella in favore del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, quantificata in Euro 5.000,00, oltre accessori di legge,


Fatti di reato commessi fino al gennaio 2003.


Sentita la relazione effettuata dal Consigliere LUIGI MARINI


Udito il Pubblico Ministero nella persona del Cons. GIOVANNI D'ANGELO, che ha concluso per l'annullamento della sentenza con rinvio alla Corte di Appello limitatamente ai capi B) e D) della rubrica; per l'accoglimento della istanza di correzione di errore materiale presentata dall'Avvocatura dello Stato per la parte civile Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio; per il rigetto di tutti i restanti motivi di ricorso.


Uditi i Difensori del ricorrente, AVVOCATI FUMAGALLI E D'ARGENTO, che hanno concluso per l'accoglimento del ricorso presentato, con conseguente assoluzione del ricorrente "perché il fatto non sussiste" o, in subordine, accertarsi la prescrizione del reato sub A); per la inammissibilità dei ricorsi presentati dal Procuratore Generale e delle parti civili.


RILEVA


Con decreto del Pubblico Ministero in data del 15 gennaio 2003, il Sig ARTESE fu tratto a giudizio avanti il Tribunale di Bari, unitamente ai Sigg.Galvani e Cuniolo, per rispondere, in qualità di liquidatore della "Finanziaria Fibronit Srl", dei seguenti reati:


A) artt. 81 cpv., 110 c.p., 51, comma 3 in relazione agli artt.27, 28 ss. del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22, per avere realizzato e gestito all'interno dello stabilimento industriale Fibronit in Bari una discarica non autorizzata destinata allo smaltimento di rifiuti pericolosi, in particolare prodotti di cemento-amianto;
B) artt.81 cpv., 110, 674 c.p., per avere provocato l'emissione e la dispersione nell'aria di derivati della lavorazione dell'amianto;
C) artL8l cpv., 110, 635, comma 2, n.3 c.p., per avere, a seguito di inquinamento da amianto, distrutto o comunque deteriorato e reso inservibili le falde acquifere sotterranee e le strade poste nelle adiacente del complesso industriale;
D) artt.110 c.p., 50, comma 2 in relazione all'art. 14, comma 3 ultima parte del citato decreto legislativo n.22 del 1997, per non avere ottemperato alle ordinanze sindacali relative alla messa in sicurezza e bonifica dell'area ex Fibronit entro 60 gg. dalla notifica;
E) arti. 81 cpv., 110 c.p., 51 bis del citato decreto legislativo n.22 del 1997 per avere omesso di procedere alla bonifica delle aree inquinate secondo il procedimento previsto dall'art.17.
Fatti commessi dal 23 settembre 1999 al gennaio 2003, con permanenza.


Nel processo avanti il Tribunale si sono costituiti parti civili sia gli enti territoriali, sia la curatela fallimentare, sia associazioni come WWF Onlus, CODACONS Onlus, ed altre.


Va detto che nel corso del processo è stata emessa dal Tribunale sentenza ai sensi dell'art.129 c.p.p. per essere deceduto il co-liquidatore della società e coimputato, Sig.Cuniolo.

La sentenza 16 giugno 2004 del Tribunale di Bari.


All'esito del processo di primo grado per il Sig.Galvani è stato ritenuto non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati, escluso il concorso di reati con il coimputato Artese, mentre il Sig.Artese è stato condannato in data 16 giugno 2004 dal Tribunale di Bari per tutti i reati contestati (con responsabilità per il capo C limitata ai soli danni arrecati alle strade), determinando la pena in anni due di reclusione, con sospensione della stessa. Il Tribunale ha disposto altresì la confisca degli immobili interessati, fatti salvi gli obblighi di bonifica, ed ha condannato il Sig.Artese al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, disponendo provvisionali in favore del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio (Euro 5.000.000,00), della Regione Puglia e della Provincia di Bari (Euro 25.000,00 ciascuno), nonché in favore di WWF e CODACONS (Euro 5000,00 ciascuno).


Avverso tale sentenza hanno proposto appello sia il Sig.Artese sia il Pubblico Ministero (impugnazione poi rinunciata dalla Pubblica accusa in sede di giudizio).


La sentenza 21 Ottobre 2005 della Corte di Appello di Bari.


Con sentenza in data 21 Ottobre 2005 la Corte di Appello di Bari, ha mandato assolto il Sig.Artese dai reati contestati ai capi B) ed E), con la formula "perché il fatto non sussiste", ed ai capi C) e D), con la formula "per non avere commesso il fatto"; ha invece confermato la condanna per il capo A), e cioè per il reato previsto dall'art.51, comma 3, in relazione agli artt.27, 28 e ss. del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22, con conseguente condanna, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena (condizionalmente sospesa) di anni 1 di arresto e Euro 12.000,00 di ammenda; confermando, altresì, il provvedimento di confisca e la condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, ed alla rifusione delle spese del processo in favore delle parti civili costituite; disponendo, infine, la revoca delle provvisionali disposte in primo grado, ad eccezione di quella in favore del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, quantificata in Euro 5.000,00, oltre accessori di legge.


La dettagliata ricostruzione dei fatti operata nella prima parte della sentenza consente di ritenere accertati, anche alla luce dei motivi di impugnazione, alcune essenziali circostanze di fatto, la cui esposizione appare fin d'ora necessaria ai fini della successiva esposizione dei motivi di ricorso:


- Risale al 1933 l'inizio di attività in Bari della Società Adriatica Prodotti in Cementoamianto (SAPIC) controllata dalla famiglia Milanese, fino alla cessione alla soc.Fibronit, sempre controllata dai sigg. Milanese fino a che, con vari passaggi societari, la proprietà viene integrata e poi assunta da altri soggetti; in particolare, per quanto di interesse in questa sede, i Sigg. Galvani (che presiedeva la Fibronit Srl nel 1993) e Cuniolo (che presiedeva la Finanziaria Fibronit Spa il 18 febbraio 1996, data in cui incorpora la Fibronit Srl);
- La Fibronit Finanziaria Spa è stata messa in liquidazione il 14 maggio 1997, con nomina quali liquidatori dei Sigg.Cuniolo e Attese;
- L'attività produttiva di cementoamianto si è protratta nello stabilimento barese fino al 1985, generando una enorme quantità di scarti e residui di lavorazione, compresi fanghi e polveri di amianto, tutti prodotti qualificati (con il d.P.R. n.915 del 1982) come rifiuti tossici e nocivi e quindi (con il d.lgs. n.22 del 1997) come "rifiuti pericolosi";
- L'esistenza di quantità consistenti di rifiuti pericolosi all'interno dell'area Fibronit, che è situata in adiacenze di zone abitate, viene rilevata ufficialmente solo nel 1995, quando nel corso di un sopralluogo vengono ispezionati sia la zona su cu insistevano i capannoni produttivi, sia una vasta area incolta dove giacciono oltre 100 tonnellate di giunti e tubi di cementoamianto;
- Una parte dei materiali esistenti risulta essere stata apportata ancora nel novembre 1994, e cioè ad anni di distanza dalla cessazione delle attività produttive;
- Nel corso delle attività di controllo, nell'agosto 1995 si è accertato che i materiali venivano "smaltiti" mediante attività di distruzione e di interramento all'interno dell'area Fibronit;
- Solo a partire dal 1994 il Comune di Bari ha ritenuto di adottare le prime misure di cautela: risale al maggio 1996 l'ordinanza sindacale di attivazione delle procedure volte alla bonifica dell'area, cui fa seguito nel successivo mese di Agosto la presentazione del piano di lavoro per la bonifica dello stabilimento;
- Nel frattempo, il 10 ottobre 1995 il Pubblico ministero in sede emette un provvedimento di sequestro probatorio dell'area in relazione a violazioni degli artt.25 e 26 del d.P.R. n.915 del 1982, sequestro che cesserà solo nell'agosto del 1998, essendo state completate secondo il Pubblico Ministero, le attività di acquisizione probatoria;
- A partire dal novembre 1997 l'area è comunque fatta oggetto di interventi di "messa in sicurezza";
- Il 23 settembre 1999 nel corso di un nuovo sopralluogo viene accertato che all'interno di un capannone giacciono abbandonati oltre 70 mc di materiali contenenti amianto, verosimilmente raccolti nell'ambito della messa in sicurezza, che si trovavano all'interno di sacchi ("big bags") che risultavano per una quota privi di data di confezionamento e, per altra quota, confezionati in parte nel luglio 1997 e in parte nel marzo 1998, mentre altre quantità di materiali simili, o comunque contenenti amianto, sono abbandonati all'interno di altri capannoni ed in una diversa area dello stabilimento;
- Negli anni successivi segue uno scambio di comunicazioni tra il Comune e i responsabili della Fibronit, con una indicazione da parte di questi ultimi delle attività poste in essere, ivi compreso l'appalto dato per gli interventi di sicurezza programmati, e con ripetute segnalazioni di inadempimento inviate dal Sindaco di Bari;
- Nel corso di sopralluogo effettuato il 25 e 27 luglio 2001 i verbalizzanti accertano il permanere di materiali abbandonati che creano situazioni di evidente pericolosità e verificarono che solo aree molto limitate avevano subito interventi di bonifica o messa a norma significativi; accertarono, altresì la presenza di vani e di rifiuti non inseriti nel "piano generale di sicurezza";
- In data 12 gennaio 2002 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari dispone il sequestro preventivo dello stabilimento e delle aree collegate;
- Un nuovo sopralluogo, effettuato il 23 gennaio 2002, ha portato all'accertamento della permanenza di situazioni gravemente irregolari;
- Infine, un ultimo sopralluogo è stato effettuato dai consulenti del Pubblico Ministero il 16 febbraio 2002, ed ancora una volta è emersa la sussistenza di plurime situazioni irregolari e gravemente pericolose, così come è emerso che il crescente stato di degrado dell'area e delle strutture esistenti costituisce elemento destinato ad aggravare la situazione (sentenza Corte Appello, pagg.9-12);
- Con nuova ordinanza del 26 ottobre 2002 il Sindaco ha ordinato alla Finanziaria Fibronit in liquidazione di dare corso agli interventi ed ai lavori prescritti, ivi compresa la integrale rimozione dei materiali contenenti amianto, con "immediata esecuzione in danno" della società e "ferme restando le responsabilità relative, anche di carattere penale, degli interventi elencati nel verbale di sopralluogo del 26 novembre 2001";
- Preso atto dell'inottemperanza da parte della società, il 10 febbraio 2003 il Comune di Bari ha proposto l'approvazione della spesa di Euro 3.720.000 per l'esecuzione in danno degli interventi urgenti;
- I consulenti hanno accertato che i casi di decesso riconducibili all'esposizione all'amianto sono stati tra i dipendenti della Fibronit ben 204, con esclusione dei decessi per mesotelioma;
- Che i casi di decesso per mesotelioma tra la popolazione barese al dicembre 2003 risultavano essere 119, e di questi: 16 tra ex dipendenti Fibronit, 4 tra familiari dei dipendenti, 31 tra la popolazione residente attorno all'opificio;
- Che aree circostanti la sede della Fibronit risultavano ancora caratterizzate da situazione di pericolo.


Sulla base di queste circostanze, la Corte ha analiticamente ripercorso la motivazione della sentenza di primo grado, esponendone i passaggi essenziali, con riferimento, soprattutto (pag.29 ss.), al capo A), soffermandosi in particolare sulla attività di "gestione" (pag.39 ss.), sul tempo del commesso reato e sulle specifiche condotte attribuite al Sig. Artese (pag.44 ss.), anche con riferimento ai poteri da costui ricevuti quale co-liquidatore e alle relative responsabilità, anche quale presidente della società denominata "Beta" (pag.48 ss; si veda in particolare la nota 98 di pag.53). Anche la motivazione della sentenza di primo grado con riferimento alle restanti ipotesi contravvenzionali viene analiticamente esposta (pag.57 ss.), così come le dichiarazioni di appello presentate ed i relativi motivi (pag.82 ss.).


La motivazione della decisione della Corte di Appello viene esposta nelle pagine 94 ss. In estrema sintesi:


Capo A) - La Corte di Appello ritiene di confermare il giudizio di responsabilità formulato dal giudice di prime cure, motivando sia sulla sussistenza dei presupposti in fatto e dell'elemento soggettivo del reato contravvenzionale, sia sulla natura permanente del reato (pag.96, con riferimento anche alla rilevanza del sequestro preventivo dell'area), sia sull'assenza di violazioni di legge quanto a corrispondenza tra contestazione e reato ritenuto in sentenza (pag.97 e 98), sia sulla qualificazione giuridica del fatto (pag.98 e 99);


Capo B) - La Corte ha ritenuto di escludere la sussistenza dell'ipotesi contravvenzionale prevista dall'art.674 c.p. in quanto non risulta provato il superamento dei limiti previsti per le emissioni, limiti che, contrariamente alla tesi della pubblica accusa, non opererebbero esclusivamente per le attività autorizzate; diversamente opinando, il giudice, svincolato da parametri tecnici, si troverebbe a "svolgere una funzione curativa" ricorrendo a parametri incerti, così come avrebbe fatto il giudice di primo grado parlando di "normale tollerabilità" e di "concreto disturbo". Ciò, a maggior ragione, quando gli stessi consulenti hanno affermato che le rilevazioni effettuate non consentono di avere un quadro "effettivamente rappresentativo" della situazione, circostanza che non può dirsi superata, in assenza di rilevazioni costanti e precise, dal fatto che polveri provenienti dall'area Fibronit furono rinvenute sui terrazzi delle abitazioni vicine. Mancherebbe, in conclusione, la prova della rilevanza delle emissioni.


Capo C) - L'assoluzione del Sig.Artese dal reato di danneggiamento delle sedi stradali si fonda su due considerazioni: a) che la prova che il danneggiamento sia avvenuto è stata acquisita con riferimento ad epoca anteriore al 1997 e non vi è prova di condotte del Sig.Artese che abbiano provocato ulteriori danni, circostanza decisiva quando non si è in presenza di reato permanente; b) al Sig.Artese non risultano indirizzate ordinanze sindacali né altri provvedimenti che lo obbligassero ad intervenire.


Capo D) - La Corte premette (pag.102) che il capo di imputazione risulta, a proprio parere, errato, nel senso che la commissione del reato non avrebbe dovuto essere ancorata alla data delle ordinanze sindacali, bensì al momento di cessazione del reato permanente; ne consegue che lo scadere del sessantesimo giorno dalla comunicazione dell'ordinanza avrebbe dovuto segnare l'inizio della permanenza della condotta illecita, non certo la sua cessazione.


A differenza del reato sub A), la contravvenzione sub D) costituisce reato proprio, cioè esclusivo dei destinatari formali della ordinanza, e l'ordinanza del marzo 2001 era indirizzata solo al Sig.Cunicolo. Il Sig. Artese fu successivamente destinatario di altra ordinanza, anch'essa rimasta senza ottemperanza, ma tale fatto non è stato oggetto di contestazione.


Capo E) - L'assoluzione con la formula "perché il fatto non sussiste" dal reato previsto dall'art.5 l bis del d.lgs. n. 22 del 1997, è stata motivata con la circostanza che il capo di imputazione non opera alcun riferimento al superamento dei limiti di accettabilità fissati dal DM 15/12/1999 n. 471 (emanato in attuazione dell'art.17 del citato d.lgs. n.22 del 1997, articolo cui opera espresso rinvio l'art.51 bis). Il fatto che l'imputazione rinvii ai precedenti capi d'imputazione ed alle disposizioni ivi citate quali fonti dell'obbligo di bonifica non è stato ritenuto sufficiente dalla Corte, che ha considerato non esaustivo il richiamo del Tribunale alla nota sentenza della Corte di cassazione del 28 aprile 2000, Pizzuti e che ha richiamato quanto affermato con riferimento al reato contestato sub B) in ordine al divieto di interpretazione "creativa". Ha affermato, inoltre, la Corte che "la pur doverosa tutela dell'ambiente e della salute pubblica non può giustificare scorciatoie o pragmatismi probatori", così che deve essere rispettata la "nozione rigidamente formale di inquinamento" introdotta dal reato in esame e capace di soddisfare i principi di certezza e determinatezza, così che la responsabilità deve essere ancorata, al pari di quanto previsto dall'art.59 del d.lgs. n.152 del 1999 in tema di inquinamento delle acque, ad accertamenti tecnici precisi e non a valutazioni che seguano criteri logico-induttivi come quelli seguiti dal giudice di prime cure.


Infine, la Corte ha escluso che sussistano prove sufficienti a carico specificamente del Sig. Artese in ordine al reato in esame. Il principio fissato dall'art.27 della Costituzione impedisce di ritenere che la titolarità legale di una società sia sufficiente ad attribuire responsabilità penale, che vanno pur sempre collegate a condotte specifiche che mettano in collegamento l'imputato con l'evento inquinamento o con il suo pericolo concreto e attuale.


Quanto all'appello circa le provvisionali concesse dal Tribunale, la Corte di appello (pag.107 ss.), ha ritenuto di confermare esclusivamente la provvisionale concessa al Ministero costituitosi parte civile. Solo in questo caso, infatti, il Tribunale ha esposto i parametri che ha posto a fondamento della determinazione della provvisionale, seppure determinata espressamente (pag.86 della motivazione della sentenza del Tribunale) "in via equitativa". L'importo liquidato è inferiore a quello richiesto dall'Avvocatura dello Stato (pari a Euro 6.746.130). La Corte evidenzia che né nei motivi di appello né nella discussione la difesa del Sig.Artese ha contestato i criteri seguiti per la quantificazione dell'importo citato.


Al contrario, per tutte le altre parti civili il Tribunale non avrebbe esposto in alcun modo gli elementi su cui fondava l'esistenza certa di un danno e del suo ammontare, così che sul punto la sentenza non viene confermata.


Deve segnalarsi, infine, che il dispositivo della sentenza della Corte di appello, in contrasto con quanto esposto in motivazione, al punto 3 fissa in soli 5.000 Euro la provvisionale concessa al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio.


Avverso la sentenza della Corte di Appello hanno presentato ricorso la Procura Generale della Repubblica in sede, le parti civili costituite (WWF e CODACONS), il Sig.Artese ed i suoi difensori.


1. Il ricorso della Procura Generale della Repubblica lamenta la violazione ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. b e lett. e) c.p.p. con riferimento alla decisione di assoluzione dell'imputato dal reato indicato al capo B) con la formula "perché il fatto non sussiste" e per quello indicato al capo D) con la formula "per non avere commesso il fatto". A parere del ricorrente, infatti, la motivazione su questi punti risulterebbe manifestamente illogica e contraddittoria e vi sarebbe stata erronea interpretazione delle norme penali.


Rileva il ricorrente che la Corte, condannando il Sig.Artese per i fatti contestati al capo A) della rubrica, ha accertato il protrarsi fino al 2003 delle condotte illecite e pericolose, così che non si comprendono le ragioni per cui non sussisterebbe la responsabilità dell'imputato anche per le violazioni sub 13) e D).

1.a - Quanto alla contravvenzione ax art.674 c.p., contestata al capo B), e cioè la dispersione nell'aria di fibre di amianto provenienti dai materiali illecitamente stoccati, il ricorrente evidenzia come la sentenza si fondi sul richiamo alla recente giurisprudenza di legittimità che ha interpretato la locuzione "nei casi non consentiti dalla legge" nel senso che non sussisterebbe violazione penale nei casi in cui - come in quello di specie - gli accertamenti compiuti escludano che la presenza nell'aria di agenti inquinanti superi i valori fissati dalle specifiche disposizioni di legge. Osserva il ricorrente che tale impostazione è pienamente condivisibile quando si versi in ipotesi di attività legittimamente poste in essere dal cittadino, ma non può essere accolta quando si sia in presenza di un'attività abusiva o comunque illecita. In questo caso, infatti, le "molestie" che le sostanze presenti nell'aria possono apportare alla collettività derivano da una condotta posta in essere al di fuori dei parametri di legalità, così che non possono essere ricondotte all'interno di quella "presunzione di legittimità" che deriva dal mancato superamento dei limiti legali.


In questo senso, e cioè con conclusioni più aderenti al fatto contestato al Sig. Artese, si sarebbe espressa la giurisprudenza di legittimità che ha individuato la sussistenza dei presupposti di applicazione dell'art.674 c.p. con riferimento ai contenuti del provvedimento autorizzatorio, così che solo per le attività regolarmente autorizzate possono assumere valore i limiti quantitativi fissati dalla normativa in vigore.


Erroneamente, dunque, la sentenza impugnata avrebbe fatto derivare la soluzione assolutoria dalle semplice mancanza di prove del superamento dei limiti quantitativi in vigore, del tutto trascurando la premessa delle emissioni: e cioè il fatto che tali emissioni, sicuramente avvenute, trovano la loro causa nella natura abusiva della discarica esistente.


E non solo, perché la sentenza impugnata presenterebbe, secondo il ricorrente, un secondo ordine di vizi logici e giuridici. Nel ritenere non provato il superamento dei limiti di tollerabilità, la Corte di Appello avrebbe omesso del tutto di considerare il dettato della normativa fondamentale in tema di amianto: la legge 27 marzo 1992, n.257. Tale legge ha reso in radice illegale ogni attività che comporti estrazione, trasporto e impiego dell'amianto (art.1), prevedendo come uniche eccezioni (art.3) i casi delle attività produttive in cui sia possibile trasformare o smaltire o bonificare l'amianto; solo in questi casi avrebbero efficacia i limiti quantitativi, le soglie di tollerabilità fissate. A conferma di queste conclusioni il ricorrente evidenzia che il citato art.3 opera un rinvio all'art.3 i del decreto legislativo 15 agosto 1991, n.227; disposizione questa, che non a caso si riferisce ai soli luoghi di lavoro ed alla salute dei lavoratori.


In conclusione, il ricorrente chiede che la sentenza venga censurata per avere erroneamente - e cioè operando un riferimento a limiti di tollerabilità non applicabili all'ipotesi di inquinamento causato da discarica abusiva - escluso la sussistenza della contravvenzione contestata.


1.b - Quanto alla assoluzione "per non avere commesso il fatto" riferita al capo D) della contestazione - e cioè violazione dell'art.50, comma 2 in relazione all'ultima parte dell'art.14, comma 3 del citato d.lgs. n.22 del 1997, il ricorrente lamenta la contraddittorietà della motivazione. La Corte di Appello, infatti, ha escluso la responsabilità del Sig. Artese sulla base della circostanza che le ordinanze sindacali non ottemperate erano state intestate e indirizzate al solo Sig. Cuniolo. Tale conclusione si porrebbe in contrasto con le circostanze che la stessa Corte ha ritenuto pacifiche, ed in particolare con la circostanza che i Sigg. Artese e Cunicolo era stati nominati entrambi liquidatori e, dunque, legali rappresentanti della società destinataria delle ordinanze; per mero errore le ordinanze si dirigono al Sig. Cuniolo, ancora qualificato come "presidente" della Finanziaria Fibronit Spa in un momento in cui la società era in liquidazione ed egli rivestiva, unitamente al Sig. Artese, la qualità di liquidatore. In conclusione, la natura propria del reato contestato non comporterebbe affatto la non responsabilità del Sig. Artese, posto che occorrerebbe fare riferimento non al formale destinatario delle ordinanze, bensì all'incarico di rappresentanza legale ricoperto effettivamente, come dimostra il fatto che in più occasioni fu lo stesso Sig. Artese a indirizzare all'amministrazione comunale le formali risposte alle ordinanze sindacali.

2. Il ricorso della parte civile CODACONS Onlus si articola attorno a plurimi motivi, che possono così sintetizzarsi:


2.a - quanto al capo B) della rubrica: violazione ai sensi dell'art.606 c.p.p. in relazione all'art.674 c.p., alla legge 27 marzo 1992 n.257 e al D.M. 6 settembre 1994, per avere la sentenza erroneamente escluso la responsabilità del Sig.Artese per la contravvenzione sub B) ritenendo carente la prova del superamento dei limiti fissati dal D.M. citato. Erroneamente la sentenza avrebbe omesso di considerare il limite fissato dal D.M. 8 agosto 19994 e il fatto che la legge 27 marzo 1992, n.257, agli artt.2 e 3, vieta ogni forma di trattamento e dispersione di amianto, con l'unica eccezione dei luoghi di lavoro in presenza di severissime cautele (D.M. 6 settembre 1994). Con la conseguenza che in tutti i casi diversi la contravvenzione sarebbe integrata da qualsiasi dispersione, anche di una sola fibra di amianto, circostanza che la sentenza ritiene provata (pag.55).


2.b - Quanto al capo C) della rubrica: violazione ai sensi dell'art.606 c.p.p. in relazione all'art.635 c.p. per manifesta contraddittorietà della motivazione. Dopo avere riconosciuto che il danneggiamento delle strade vi fu (pag.34 e 35), la motivazione irragionevolmente omette di considerare che questo si protrasse anche durante il periodo in cui il Sig.Artese fu liquidatore della soc.Fibronit: si veda pag.62 della sentenza di primo grado là dove afferma che ancora il 16 febbraio 2002 le strade limitrofe erano impregnate di amianto.


2.c - Quanto al capo D) della rubrica: violazione ai sensi dell'art.606 c.p.p. e dell'art.50, comma 2 del citato d.lgs. n.22 del 1997 per erronea applicazione di legge. Erroneamente la sentenza attribuisce l'obbligo di adempimento alla sola persona fisica individuata nelle ordinanze, perché, in ottemperanza del principio fissato dall'art,27 Costituzione, la responsabilità gestionale fa capo a tutti i rappresentanti legali della società.


2.d - Quanto al capo E) della rubrica: violazione ai sensi dell'art.606 c.p.p. in relazione all'art.192 c.p.p. per erronea applicazione della legge penale e contraddittorietà della motivazione. Il principio del libero convincimento del giudice impone allo stesso giudice una rigorosa valutazione del complessivo quadro probatorio, così che l'assenza di campionamenti non potrebbe essere sufficiente ad escludere la responsabilità del Sig.Artese in presenza di numerosi e diversi ulteriori elementi di prova a suo carico. Il ricorrente non comprende come la sentenza impugnata possa fondare su un precedente giurisprudenziale in tema di sospensione condizionale subordinata al ripristino o alla bonifica del luoghi (Cassazione n.35501/2006, Spadetto, della III Sez.Pen.) una valutazione negativa in tema di sufficienza del quadro probatorio, e ciò dopo avere più volte riconosciuto l'esistenza di una situazione di gravissimo e protratto inquinamento (pagg.3, 4, 9, 31 e 32).


2.e - Quanto alla disposta revoca della provvisionale, erroneamente il giudice di appello avrebbe omesso di considerare che la certezza del danno (mai messa in dubbio dalla stessa sentenza) e la sua liquidabilità secondo equità sono elementi sufficienti per concedere la provvisionale.


3. Il ricorso della parte civile WWF Onlus si articola attorno ai medesimi motivi articolati dalla parte civile Co.Da.Cons, così che è sufficiente rinviare a quanto appena esposto, anche in tema di revoca della provvisionale.


4. Il ricorso presentato dal Sig.Artese. Con atto di ricorso depositato il 5 dicembre 2005 il Sig.Artese propone impugnazione avverso: a) la citata sentenza della Corte di Appello 21 Ottobre 2005; b) l'ordinanza dibattimentale del 21 Ottobre 2005 che rigettava una istanza di sospensione del dibattimento in relazione all'attività ispettiva in corso presso la sede della ditta Fibronit; c) l'ordinanza dibattimentale in pari data con cui la Corte ha rigettato l'istanza di rinnovazione parziale del dibattimento; d) l'ordinanza con cui è stata dichiarata manifestamente infondata la questione incidentale di legittimità costituzionale, in quanto non sollevata nei motivi di appello, con riferimento all'applicazione della nozione di "reato permanente".


Il ricorso si articola attorno a undici diversi motivi, così riassumibili:

Per quanto concerne la SENTENZA DEL 21 OTTOBRE 2005:


4.1 - con riferimento al capo A) della rubrica: violazione ai sensi dell'art.606, co.1, lett,b) c.p.p. in relazione agli artt. 81, 110 c.p., 51, co.3, 27, 28 ss. D.lgs. n.22 del 1997 per erronea applicazione della legge. La condanna per reato continuato non sarebbe stata in alcun modo motivata con riferimento al reato continuato ritenuto sussistente. Mancherebbe in motivazione ogni riferimento all'inizio delle condotte, alle violazioni, alla cessazione delle condotte, alla più grave delle violazioni, alla natura omogenea oppure eterogenea delle condotte; parimenti manca ogni indicazione sulla pena base e sull'entità degli aumenti.


Sempre con riferimento al capo A), il medesimo motivo introduce una diversa doglianza, concernente questa volta la stessa sussistenza della fattispecie disciplinata dall'art.51, comma 3 del citato d.lgs. n.22 del 1997, ritenendo non conferente il richiamo agli artt.27 e 28 della medesima legge, che disciplinano l'attivazione di un nuovo impianto di smaltimento dei rifiuti o di un deposito temporaneo, e, dunque, una radicale incoerenza nella stessa contestazione così come accolta in sentenza.


Infine, si lamenta l'assoluta carenza di motivazione circa l'applicazione dell'art.110 c.p., così che o si versa in ipotesi di mancanza di motivazione, oppure la condanna ha avuto, irritualmente, riguardo ad un reato monosoggettivo.


4.2 - sempre con riferimento al capo A) della rubrica: violazione ai sensi dell'art.606, co.1, lett.e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione, emergente dallo stesso testo del provvedimento, con riferimento ai "tempi distinti" della condotta incriminata. Sostiene il ricorrente che non versandosi in ipotesi di reato continuato - ipotesi su cui la sentenza non avrebbe in alcun modo motivato - nessun pregio può avere il richiamo ai "tempi distinti" quando si è in presenza di "leggi miste alternative". Nel caso di specie la nonna incriminatrice sanzione chiunque "realizza o gestisce una discarica non autorizzata", e ciò, a detta del ricorrente descrive "un reato che si perfeziona indifferentemente sia con la realizzazione ... sia con la gestione della discarica abusiva", per cui "la contestualità nel tempo o la frazionabilità del comportamento ... sono del tutto indifferenti ai fini della sussistenza del reato, apparendo come modalità equipollenti della condotta di contrasto con la legge penale...".


Ciò che la sentenza non affronta è quale sia il legame fra la condotta ascritta al Sig.Artese ed i tempi distinti di essa, né quale sia la sua condotta riconducibile ad una contestazione che riguarda fatti commessi dal 1995 al 2002, quando è pacifico che egli assunse la qualità di liquidatore solo il 14 maggio 1997, e cioè (pare di capire) dopo che la fattispecie di reato si sarebbe ormai perfezionata.


In particolare, osserva il ricorrente che la Fibronit aveva predisposto un piano di risanamento dell'area industriale fin dal 20 agosto 1996; che la diffida ad adempiere era stata intimata dal Comune di Bari alla Fibronit il 2 maggio 1997, e cioè prima dell'ingresso del Sig.Artese nell'incarico di liquidatore; che il Sig.Artese ha nel tempo, a partire dal 20 maggio 1997 fino al 30 novembre 2001, presentato plurimi piani di risanamento, così che va escluso che egli abbia mai "gestito" una discarica abusiva, considerando anche che i conferimenti di materiale sono cessati il 30 dicembre 1996, prima cioè del suo ingresso nella società, e che, comunque, a tale data andrebbe fissata la cessazione delle contravvenzioni, con conseguente prescrizione dei reati al 30 giugno 2001.


4.3 - Ancora con riferimento al capo A): violazione ai sensi dell'art.606, lett.e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione. In particolare si lamenta che la sentenza dedichi la maggior parte delle sue argomentazioni alle condotte di accumulo ed interramento dei materiali, condotte pacificamente cessate nel 1996 e quindi non riferibili al Sig.Artese. Tale circostanza dimostrerebbe che la Corte di Appello ha seguito il percorso argomentativo del primo giudice, con conseguenti aporie e contraddizioni insanabili, anche a seguito della assenza nel presente giudizio dei presunti concorrenti nel reato.


4.4 - Ancora con riferimento al capo A): violazione ai sensi dell'art.606, lett.e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione. In particolare si lamenta l'illogicità della motivazione con riferimento alle condotte ascritte al Sig.Artese relative all'utilizzo dei capannoni e dell'area contrassegnata in planimetria come "Z", alla raccolta di rifiuti pericolosi in sacchi, alla conservazione di materiale contenente amianto ed in pessimo stato di conservazione. Erroneamente la sentenza omette di considerare che fino all'ottobre 1999 i legali rappresentanti Fibronit hanno operato ogni operazione possibile a tutela dell'ambiente, fronteggiando eventi imprevisti (come l'incendio del capannone "D5") e inadempienze contrattuali di terzi (quali la SAT Impianti Sri), così come omette di considerare che gli accertamenti tecnici hanno sempre rilevato che i valori esistenti sull'area e attorno ad essa si conservavano al di sotto dei limiti fissati dal DM 6 settembre 1994 e dall'OMS e, infine, che ancora successivamente alla cessazione del Sig.Artese dall'incarico la situazione di fatto non è mutata, neppure dopo che il sito è stato preso in carico dagli enti territoriali costituitisi poi parte civile. Ciò dimostrerebbe che il Sg.Artese ha fatto quanto era in suo potere per gestire al meglio la situazione che ha rinvenuto all'atto dell'assunzione dell'incarico di liquidatore.


4.5 - Ancora con riferimento al capo A): violazione ai sensi dell'art.606, lett.a) c.p.p. per abnormità della sentenza nella parte in cui crea la nozione di reato permanente quale nozione rilevante ai fini della prescrizione. Considerato che il capo di imputazione reca la menzione dell'art.81 cpv. c.p., la sentenza avrebbe dovuto chiarire definitivamente in cosa consista il concetto di permanenza, cui la sentenza di primo grado dedica appena un cenno a pag.44. Nulla quaestio, ovviamente, qualora la permanenza si traducesse in un istituto applicabile in bonam partem, unificando in unica figura di reato tutti gli aspetti oggetto del capo di imputazione. Se, invece, l'istituto si traduce in una applicazione in malam partem, allora occorre che ne sia chiarito in modo definitivo il fondamento normativo, evitando ogni soluzione "creativa" e rispettando i principi di tassatività e legalità della fattispecie.


La sentenza si esprime per l'esistenza di una condotta protrattasi fino al 15 gennaio 2003 che avrebbe provocato un'alterazione permanente dello stato dei luoghi. Tale alterazione per il ricorrente non ha niente a che vedere con la natura permanente del reato, posto che essa rappresenterebbe una conseguenza esterna rispetto alla condotta eventualmente posta in essere. Nel caso di specie non sussisterebbe alcuno dei requisiti del reato permanente, nella sua accezione non fattuale ma giuridica, posto che esso è caratterizzato non dalla distruzione del bene protetto, ma solo dalla sua compressione, così che col cessare della permanenza l'offesa viene a cessare ed il bene protetto torna ad espandersi. Circostanze che la stessa sentenza esclude caratterizzino i fatti oggetto del presente giudizio.


Così stando le cose, l'applicazione dell'art.158 c.p. quale conseguenza della ritenuta permanenza rappresenta una applicazione in malam partem che non è consentita dal nostro ordinamento. In realtà la condotta punibile ascritta al Sig.Artese ha inizio, secondo la contestazione, il 14 maggio 1997 e, applicando i termini prescrizionali per il reato continuato, i fatti sono soggetti a prescrizioni che sarebbe maturata, al più tardi, il 14 novembre 2002.


4.6 - Quanto alla confisca dell'area in sequestro: violazione ai sensi dell'art.606,1ett.b) c.p.p. in relazione all'art.51, comma 3 del citato d.lgs. n.22 del 1997 per erronea applicazione della legge. La sentenza, non risolvendo i dubbi circa la proprietà dell'area, già lasciati irrisolti dalla decisione di primo grado, dispone la confisca degli immobili. Premesso che in atti non è stato rinvenuto l'originale del provvedimento di sequestro preventivo - che i giudici hanno acquisito in copia incompleta - il ricorrente lamenta che. A) non vi è prova alcuna che l'area su cui insiste la discarica sia di sua proprietà, e che i giudici non hanno apprezzato correttamente la circostanza che la "Finanziaria Fibronit Spa" è rimasta del tutto estranea al processo; b) che la confisca può essere disposta solo nel caso di "realizzazione" di una discarica abusiva, condotta che non può essere addebitata al Sig.Artese, eventualmente responsabile di condotta di gestione di una discarica che altri avevano in precedenza realizzato.


4.7 - Quanto alle statuizioni civili: violazione ai sensi dell'arrt.606, lett. e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento. Premesso che erroneamente la Corte di Appello ha affermato che il Sig.Artese avrebbe proposto appello solo per le statuizioni in tema di provvisionale, e non anche in tema di responsabilità civile (in realtà, impugnando la sentenza negli aspetti attinenti la responsabilità penale egli avrebbe "implicitamente" contestato anche gli aspetti relativi alla condanna al risarcimento dei danni), il ricorrente lamenta che la sentenza non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alla causazione del danno e, in particolare, alle conseguenze derivanti sul punto dall'assoluzione del Sig.Artese per tutti gli altri capi di imputazione.


Inoltre, del tutto incoerente appare la riduzione in sentenza della provvisionale in favore del Ministero a soli 5.000,00 Euro (a fronte dell'importo di 5 milioni di Euro statuito in prime cure) senza che sul punto si motivi adeguatamente e senza che se ne faccia derivare una almeno parziale compensazione delle spese fra imputato e Ministero. Altrettanta incoerenza sussiste in sentenza nella misura in cui, ritenuta assente la prova in ordine alla presenza fattuale di particelle inquinanti nell'aria, si considera comunque sussistente un danno risarcibile in favore delle parti civili.


Da tutto ciò avrebbe dovuto discendere l'obbligo per la Corte di Appello di condannare le parti civili alla rifusione delle spese processuali sopportate dal ricorrente (pari ad Euro 12.000,00 oltre Iva ed accessori), nonché a risarcire con Euro 100.000,00 i danni causati al ricorrente stesso mediante il gravemente colposo esercizio dell'azione civile in sede penale, con provvisionale pari ad Euro 45.000.000,00 (quarantacinque milioni), oltre accessori. Tale richiesta viene meglio chiarita al punto 8 che segue: avendo le parti civili eseguito gli accertamenti tecnici, ben avrebbero dovuto sapere che le particelle di amianto presenti nell'aria non superavano la soglia di tollerabilità, così che la loro azione civile é stata promossa pur sapendo che non vi era alcun danno da calcolare e risarcire.


Conseguentemente si richiede la sospensione dell'esecuzione della condanna civile ai sensi dell'art.612 c.p.p.


4.8 - Con riferimento alla condanna ai danni ed alle spese: violazione ai sensi degli artt.606, co.1, lett. b), 539 e 541 c.p.p. per erronea applicazione della legge. L'iter logico della sentenza appare contraddittorio nella parte in cui, dato per assodato che il giudice di prime cure aveva determinato le provvisionali con criterio equitativo, afferma che il giudice avesse in atti la prova che i danni risarcibili in favore del Ministero costituitosi parte civile ammontassero ad Euro 6.746.13,00, secondo il prospetto prodotto in giudizio dallo stesso Ministero. Erroneamente la sentenza impugnata afferma che la difesa del Sig.Artese non ha contestato i calcoli prodotti dalle parti civili, perché, come già esposto, il ricorrente afferma di avere impugnato la sentenza di primo grado anche sul punto responsabilità civile "implicitamente" in quanto ha agito in sede di appello per ottenere una sentenza assolutoria. Non solo, ma la Corte di Appello ha omesso di considerare che il Sig.Artese in sede di conclusioni aveva richiesto (ed in sede di ricorso per cassazione ribadisce tale richiesta) la condanna delle parti civili a rifondergli le spese sopportate ed i danni subiti.


Ciò detto, il ricorrente evidenzia che le parti civili hanno chiesto un risarcimento con riferimento a tutti i reati contestati al Sig.Artese, senza operare alcuno specifico riferimento al nesso causale fra i danni richiesti e le condotte contestate al capo A). Ne consegue che la richiesta è priva di ogni specificità sia con riferimento al nesso causale, sia con riferimento all'an ed al quantum del danno riconducibile eventualmente all'unico reato per cui vi è stata affermazione di responsabilità. Tale vizio travolge anche le richieste in punto di provvisionale.


Con riferimento alle ORDINANZE DIBATTIMENTALI impugnate:


4.9 - Quanto alla mancata sospensione del dibattimento: violazione ai sensi dell'art.606, co.1, lett.c) c.p.p. in relazione agli artt. 178, lett. c) e 185 c.p.p. per violazione delle norme processuali stabilite a pena di nullità. A fronte di una richiesta di sospensione del giudizio avanzata dalla parte civile Regione Puglia, la Corte di Appello ha ritenuto che l'esistenza di una attività ispettiva sugli immobili oggetto dell'imputazione, e gli eventuali documenti che in tale contesto si sarebbero prodotti, la difesa del Sig.Artese ha instato perché la sospensione venisse concessa, in modo da comprendere gli estremi e le caratteristiche dell'attività ispettiva e di poterne valutare la rilevanza ai fini della propria difesa. La Corte ha, invece, considerato che le attività in parola dedotte non rivestissero rilievo probatorio nell'ambito del processo, ed ha pertanto respinto l'istanza. A parere del ricorrente non solo la Corte ha erroneamente motivato tale decisione con il richiamo all'art.16, comma 11 bis del d.lgs. n.22 del 1997 - dovendo eventualmente richiamare il successivo art.17, comma 11 bis - ma ha omesso di considerare che non si era in presenza di mera attività amministrativa, bensì di attività che, svolta dalla polizia giudiziaria, presentava dirette connessioni con le previsioni di accesso, messa in sicurezza e prevenzione dei danni che concernono direttamente l'autorità giudiziaria. Erroneamente, dunque, la Corte ha respinto l'istanza senza consentire alla difesa di valutare la rilevanza probatoria delle nuove attività con riferimento al processo in corso.


4.10 - Quanto alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale: violazione ai sensi degli artt.606, co.1, lett. b), 495 e 603 c.p.p. per erronea applicazione della legge. L'istanza di4ensiva, volta a rinnovare parzialmente il dibattimento al fine di escutere alcuni testi, è stata rigettata dalla Corte di Appello per più ragioni: tardività, non essendo inclusa nei motivi di i impugnazione; non necessità dell'escussione dei testi; estraneità rispetto al devolutum (trattandosi di circostanze estranee ai tempi distinti della condotta dell'appellante) in quanto le testimonianze erano state invocate con riferimento al reato previsto dall'art,674 c.p.


In realtà, secondo il ricorrente, le testimonianze sarebbero risultate rilevanti, avendo ad oggetto la alterazione permanente dei luoghi, ed essendo elementi sopravvenuti non avrebbero dovuto incorrere in censure di non tempestività.


Evidentemente la Corte ha posto in relazione il tema della alterazione permanente con la contravvenzione ex art. 674 c.p. ed omesso ogni valutazione in ordine al legame con le condotte contestate al Sig.Artese al capo A).


4.11 - Quanto alla questione di legittimità costituzionale in relazione all'art.23 della legge 11 marzo 1953, n.23: erronea applicazione della legge per essere stata la questione ritenuta manifestamente infondata e non proposta ritualmente con i motivi di appello. Premesso che l'art.24 della citata legge n.23 del 1953 prevede che la questione possa essere riproposta all'inizio di ogni grado di giudizio, il ricorrente insiste nella questione, censurando la decisione della Corte di Appello che ha impropriamente ritenuto esistente un'analogia strutturale tra reato permanente e reato continuato ed una consonanza tra reato permanente e reato abituale, con il risultato di giungere ad una applicazione in malam partem che pone 1'art.158 c.p. in contrasto con gli artt.25 e 3 della Costituzione.


5. Il ricorso presentato dalla difesa del Sig.Artese. Accanto ai motivi di impugnazione presentati dal Sig.Artese per mezzo dei suoi difensori, e come sopra sintetizzati, sempre in data 5 dicembre 2005 la difesa ha presentato ulteriori e diversi motivi di ricorso, così riassumibili: Violazione ai sensi dell'art.606, co.1, lett. b), e) ed e) in relazione agli artt.516, 521 e 522 c.p.p., nonché art.530 c.p.p., nonché 40 e 42 c.p.


5.1 - Con riferimento al capo A) della rubrica, erroneamente la sentenza di secondo grado avrebbe escluso la sussistenza di un vizio nella correlazione fra accusa e decisum, non ritenendo pregiudizievole per la difesa che né la condanna in sede di appello abbia riferimento ad una ipotesi contravvenzionale, e non ad ipotesi dolosa, né che la decisione escluda l'ipotesi di concorso con il Sig.Galvani, predecessore del Sig.Artese nella gestione societaria.


A fronte di tale valutazione della Corte di Appello, la difesa segnala che nella contestazione iniziale le condotte addebitate al Sig.Artese avevano carattere doloso e commissivo, mentre la sentenza di primo grado aveva finito col ritenerlo responsabile per un reato omissivo improprio. Si tratta di condotte ontologicamente diverse tra loro, e tale circostanza non risulta meno grave per il fatto che il reato ritenuto in sentenza abbia natura contravvenzionale, posto che il pubblico ministero avrebbe comunque avuto l'obbligo di modificare la contestazione ai sensi dell'art.516 c.p.p. Da tale violazione dell'obbligo di modificare espressamente la contestazione discenderebbe, a parere della difesa, la violazione da parte del giudice dell'obbligo di trasmissione degli atti al pubblico ministero, con conseguente nullità dell'intera procedura ai sensi dell'art.522 c.p.p.. Si chiede pertanto che il giudice di legittimità annulli la sentenza impugnata, ai sensi degli artt.521 e 522 c.p.p., con restituzione degli atti al pubblico ministero competente.


5.2 - Sempre con riferimento al capo A), erroneamente la sentenza ha omesso di mandare assolto il Sig.Artese rispetto alla condotta di "realizzazione" della discarica. Posto che l'art. 51 del citato d.lgs. n.22 del 1997 ricomprende due distinte condotte, di realizzazione e di gestione della discarica, e posto che è pacifico che il Sig.Artese assunse cariche sociali dopo che la presunta discarica era stata realizzata da altri, la difesa chiede che il giudice di legittimità escluda la sussistenza delle condotta di realizzazione, annulli sul punto la sentenza di appello e riduca conseguentemente la pena inflitta.


5.3 - Ancora con riferimento al capo A), la difesa lamenta l'erronea qualificazione giuridica del fatto, che avrebbe dovuto essere ricondotto alla diversa ipotesi prevista dall'art.50, comma 1, oppure 51, comma 2 del d.lgs. n.22 del 1997. Tale doglianza si riferisce al fatto che per il Sig. Artese la sentenza riterrebbe addebitabile esclusivamente la fase conclusiva delle condotte contestate, ed in particolare il solo avere ammassato 70 mc. di materiale non avviato a discarica, con la conseguenza che avrebbe dovuto parlarsi di deposito temporaneo incontrollato. Se così fosse stato deciso, la Corte di Appello avrebbe dovuto prendere atto che il reato era cessato comunque il 2 maggio 2001, e cioè 60 giorni dopo l'ordinanza sindacale del 2 marzo 2001, posto che, secondo la difesa, ai sensi "dell'art.8, comma 4 del D.Min. 471 del 1999" in caso di mancata individuazione o di inerzia del responsabile dell'inquinamento scatta l'obbligo di intervento degli enti territoriali, i quali divengono responsabili giuridici degli interventi di bonifica, con la conseguenza che i loro ritardi non possono riverberarsi in danno del Sig.Artese. Ciò senza considerare che, nella contraddizione esistente alle pagine 95 e 96 della sentenza impugnata circa le attività di bonifica e di messa in sicurezza, la motivazione alla pagina 97 finisce per addebitare all'Artese una condotta meramente negligente, di mancata rispetto alle inerzie del co-liquidatore, Sig.Cuniolo.


La sentenza deve quindi essere annullata.


5.4 - Erronea individuazione della data di commesso reato con riferimento al capo A) della rubrica. La difesa lamenta che il giudice dell'appello abbia erroneamente superato la prospettiva di una cessazione del reato nel momento in cui, il 12 gennaio 2002, intervenne un provvedimento di sequestro preventivo, ritenendo invece di fissare tale momento alla data del 15 gennaio 2003, e cioè alla data del decreto di citazione a giudizio.


La natura giuridica e le finalità del sequestro preventivo, così come riconosciute in via generale da plurime decisioni della Corte di Cassazione e dalla stessa motivazione adottata dal giudice delle indagini preliminari (necessità di interrompere un reato permanente i cui effetti erano ancora in atto), avrebbero imposto alla Corte di Appello di ritenere cessate le condotte criminose alla data del 12 gennaio 2002.


6. I motivi nuovi


Con atto depositato il 1° marzo 2007, la difesa del Sig. Artese ha presentato motivi nuovi in relazione al regime introdotto dal T.U. in materia di ambiente del 3 aprile 2006, n.152. In particolare si sostiene che gli artt.192 e 255 di tale disciplina avrebbero "depenalizzato" le condotte ascritte al Sig. Artese mediante la introduzione di ipotesi di "abbandono" e "deposito incontrollato" dei rifiuti per le quali sono previste sanzioni extra penali.


Infine, si sollecita l'applicazione dell'art.257 del T.U. in parola, sul presupposto che l'assoluzione del Sig.Artese dai reati contestati ai capi da 13) ad E) dimostrerebbe la sussistenza di condotte di osservanza dei progetti di risanamento, con conseguente obbligo per il giudice di applicare la condizione di non punibilità prevista dalla disposizione citata.


7. Le specifiche istanze successive ai moti d'impugnazione


Successivamente alla presentazione dei motivi d'impugnazione sono state depositate due istanze.

7.a - Con memoria ai sensi dell'art.8 della legge n.46 del 2006, la difesa del Sig.Artese ha chiesto:


1. che la Corte voglia dichiarare non doversi procedere nei confronti del ricorrente per essere il reato estinto per prescrizione. Posto che la legge 5 dicembre 2005, n.251, all'art.6, comma 2 ha modificato l'art.158, comma l c.p. nel senso di far decorrere il termine prescrizionale dalla data di inizio della consumazione del reato continuato, data che va fissata al 14 maggio 1997, il termine massimo di prescrizione, pari ad anni 4 e mesi 6, risulterebbe decorso. Il tutto ferme restando le richieste avanzate nei motivi di ricorso in tema di pregiudiziale di costituzionalità e di condanna delle parti civile costituite a risarcire i danni causati al Sig.Artese.


2. che la Corte voglia ritenere applicabile al caso di specie lo jus superveniens costituito dalla modifica all'art. 533 c.p.p., come novellato dall'art.5 della legge 20 febbraio 2006 n.46, e quindi accogliere anche sotto questo profilo il ricorso principale e mandare assolto il ricorrente;


3. che la Corte voglia ritenere applicabile al caso di specie lo jus superveniens rappresentato dalla modifica all'art.606, comma 1, lett. d) c.p.p. apportate dall'art.8 della citata legge n.46 del 2006 con riferimento alla mancata assunzione di prova "decisiva";


4. che la Corte voglia ritenere applicabile al caso di specie lo jus superveniens rappresentato dalla modifica all'art.606, comma 1, lett. e) c.p.p. apportate dall'art.8 della citata legge n.46 del 2006 con riferimento al vizio di motivazione in relazione agli atti del procedimento specificamente indicati nel ricorso, atti che consistono nelle già richiamate ordinanze di reiezione delle istanze di sospensione e di rinnovazione del dibattimento (motivi di ricorso n.9 e 10).


7.b - L'Avvocatura dello Stato, in favore del Ministero dell'ambiente e delle tutela del territorio, in data 6 Ottobre 2006 ha presentato "rinnovazione di istanza di correzione sentenza", segnalando che non può non costituire mero errore materiale la riduzione da 5 milioni a 5 mila Euro dell'importo della provvisionale disposta dalla sentenza di appello in favore del predetto Ministero. Si tratta di errore evidente che può trovare oggi correzione alla luce di plurime decisioni della Corte di Cassazione (Sez.III Pen., 11/4/1994, Bessone; Sez.V Pen., 13/11/2003, Aragona). In effetti, su istanza del Tribunale di Bari, la Corte di Appello ebbe a fissare per la data dell'8 giugno 2006 una udienza per la correzione dell'errore; nel corso dell'udienza, preso atto della proposizione dei ricorsi per cassazione, la Corte di Appello decide si rimettere gli atti al giudice di legittimità per ragioni di competenza.


OSSERVA


1. Come esposto nelle pagine che precedono, la complessa e ampiamente motivata sentenza della Corte di Appello di Bari è stata oggetto, al pari della altrettanto articolata sentenza del Tribunale di Bari, di censure che riguardano sia le statuizioni in ordine alla responsabilità penale del ricorrente, sia in ordine alla contestazione mossa dalla pubblica accusa ed alla sua gestione processuale, sia in ordine alle statuizioni civili. Ritiene la Corte che, alla luce del dispositivo qui adottato, sia opportuno prendere in esame preliminarmente le questioni di ordine processuale, così da sgombrare il campo dalle censure di metodo prima di passare all'analisi dei contenuti relativi alla sussistenza dei reati ed alle conseguenze civili che sono ad essi riconnesse.


2. La corrispondenza tra accusa e decisum


Il ricorrente ha argomentato in modo ampio in ordine alla violazione del principio di corrispondenza tra accusa e decisione, lamentando di non essere stata messa in grado di adeguatamente difendersi. Ciò sotto più aspetti: a) l'essere stata contestata al Sig.Artese una ipotesi di concorso nel reato senza che siano stati definiti in modo chiari i termini fattuali ed i rapporti con i presunti concorrenti, rimasti estranei al processo; b) l'avvenuta contestazione di una ipotesi di continuazione tra gli episodi criminosi, non precisata nei termini temporali e per di più caratterizzata da contraddittorietà per essere stato l'istituto della continuazione impropriamente commisto alla struttura permanente dei fatti reato relativi alla realizzazione e gestione della discarica abusiva.


Tali censure non meritano accoglimento. La contestazione mossa dalla pubblica accusa al Sig.Artese presenta contenuti chiari sia in ordine ai fatti ed alle condotte, sia in ordine alla loro qualificazione giuridica. E' evidente, infatti, che l'originaria imputazione è stata mossa ad entrambi i liquidatori, uniti tra loro dal vincolo del concorso di persone ex art.110 c.p., e ha riguardo a più condotte protrattesi nel tempo ed aventi caratteristiche fattuali chiaramente delineate. La circostanza che la posizione processuale del coimputato sia stata definita con sentenza ex art.129 c.p.p. a seguito dell'avvenuto decesso nulla ha modificato in ordine ai contenuti della contestazione mossa al Sig.Artese, persona che entrambe le sentenze hanno ritenuto, pur nelle diversità di valutazione sulla sussistenza dei reati, corresponsabile dei fatti e delle condotte per cui vi è stata pronuncia di condanna. Non solo, ma il Tribunale ebbe a valutare in termini negativi l'ipotesi di concorso tra il Sig.Artese e il Sig.Galvani, escludendola e considerando prescritti i reati allo stesso Galvani contestati, in tal modo rapportando in modo articolato il proprio decisum all'originaria contestazione mossa dalla pubblica accusa.


Quanto alla contestata continuazione tra i reati, nessuna violazione di legge e nessuna limitazione dei diritti della difesa risultano realizzate con la sentenza impugnata e, si aggiunge, con quella di primo grado. Premesso che il capo di imputazione relativo alla discarica abusiva (capo A) ipotizzava anche per il Sig.Artese sia la condotta di realizzazione sia quella di gestione della discarica, la sentenza impugnata chiaramente esclude che all'odierno ricorrente sia addebitabile la prima delle due condotte e, in modo del tutto coerente, afferma la di lui responsabilità solo per la condotta gestionale evitando di applicare qualsiasi aumento di pena a titolo di continuazione.


3. La continuazione e la permanenza del reato


Quanto si è appena detto impone di respingere anche le censure mosse in ordine alla presunta incoerenza della contestazione, sempre al capo A) della rubrica, di un reato insieme continuato e permanente. Esclusa la sussistenza della contestata continuazione, la sentenza ha qualificato come permanente il reato di gestione della discarica abusiva. Si tratta di qualificazione che la Corte, come vedremo, ritiene corretta e, soprattutto, di soluzione giuridica che non presenta conflitti logici o giuridici né con il quadro complessivo oggetto della contestazione, né con le statuizioni adottate dalla Corte territoriale.


4. La questione di legittimità costituzionale


Sempre con riferimento alla contestazione di una ipotesi di permanenza nel reato, la difesa ha censurato l'ordinanza con cui la Corte di Appello ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art.158 c.p. per contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione.


Premesso che questa Corte condivide le valutazioni che la Corte territoriale ha dato della natura permanente del reato contestato al capo A), che si pone del tutto in linea con la costante giurisprudenza di legittimità relativa sia alla struttura del reato permanente sia alla sua applicazione, ex art.158 c.p., con riferimento all'istituto della prescrizione del reato, si osserva che la Corte costituzionale con sentenza n.520 del 26 novembre-17 dicembre 1987 ha affermato il seguente principio:
"La natura permanente o istantanea del reato non dipende da esplicita ed apodittica qualificazione del legislatore, ma dalla sua naturale essenza, trattandosi di un carattere che inerisce alla qualita' della condotta cosi' come si presenta nella realta' e la cui definizione e' affidata all'interpretazione dei giudici ordinari; pertanto, non costituisce lacuna costituzionalmente rilevante l'omessa affermazione legislativa del carattere permanente di un reato."

Coerentemente con tale principio, e con le altre sentenze del giudice delle leggi in tema di permanenza del reato e prescrizione (in particolare la sentenza n.46 del 25 febbraio-3 marzo 1998 e la sentenza n.26 del 5-12 aprile 1978), la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa va ritenuta manifestamente infondata ed il motivo di ricorso deve essere respinto.


5. La richiesta di sospensione del dibattimento


La difesa ha poi contestato una diversa violazione del diritto di difesa, e cioè la reiezione della richiesta di sospensione del processo in sede di appello con riferimento alla istanza di nuove attività istruttorie.


Premesso che per giurisprudenza costante di questa Corte la rinnovazione del dibattimento in appello o lo svolgimento in quella sede di nuove attività istruttorie risponde a logiche di eccezionalità, deve osservarsi che le attività di integrazione probatoria richieste alla Corte di Appello avevano ad oggetto circostanze successive all'epoca dei fatti contestati ed allo stesso avvio della fase processuale. Si era, dunque, in presenza di elementi probatori relativi a circostanze solo indirettamente ed eventualmente incidenti sulla contestazione. In questo quadro deve ritenersi correttamente motivata e non caratterizzata da illogicità l'ordinanza del 21 ottobre 2005 con cui la Corte di Appello ha ritenuto di non ammettere i nuovi mezzi di prova e di non procedere alla sospensione del dibattimento così come richiesta e illustrata dalla difesa del ricorrente. Tale ordinanza (che questa Corte può esaminare versandosi in ipotesi di motivo di ricorso di che ha riguardo ad aspetti procedurali); sottolinea come i  fatti sopravvenuti concernessero accesso richiesto dall'Assessorato all'ambiente della Regione Puglia, così dando luogo ad attività svoltasi il 24 e 29 settembre 2005 avente "natura prettamente amministrativa e priva di qualunque rilievo probatorio nell'ambito di questo processo". In presenza di motivazione corretta e coerente, questa Corte non può sostituire a quella del giudice del merito la propria valutazione sulla rilevanza dei nuovi mezzi richiesti, a ciò ostando le caratteristiche e le finalità del giudizio di legittimità ancora successivamente alla modifica apportata all'art.606 c.p.p. dalla legge n.46 del 2006.


6. Le censure mosse ai sensi della lett.e) dell'art.606 c.p.p.


Così affrontate le censure della difesa in ordine alla correttezza del rapporto fra accusa e decisum e della gestione dello strumento processuale da parte dei giudici di prime e seconde cure, occorre procedere all'esame delle censure mosse dai diversi ricorrenti allo stesso decisum.


La Corte ritiene necessario premettere, atteso il tenore di alcune delle predette censure, che la modifica apportata dall'art.8 della legge 20 febbraio 2006, n.46, all'art.606, lett. e) c.p.p. non ha trasformato la natura essenziale del giudizio avanti la Corte di cassazione, che resta ancorato al controllo sulle violazioni di legge.


Tale conclusione emerge con chiarezza da numerosi precedenti, ed in particolare dall'ampia motivazione, che viene condivisa da questo Giudice, della sentenza della Seconda Sezione Penale della Corte, 5 maggio-7 giungo 2006, n.19584, Capri ed altra (rv 233773, rv 233774, rv 233775) e della sentenza della Sesta Sezione Penale, 24 marzo-20 aprile 2006, n.14054, Strazzanti (rv 233454).


Osserva la sentenza Capri che prima delle novella del 2006 la giurisprudenza pacificamente affermava che 1'art.606, lett.e) c.p.p. non affidava alla Corte "il compito di accertare l'intrinseca adeguatezza dei risultati dell'interpretazione delle prove, ma quello ben diverso di stabilire se i giudici di merito avessero esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se avessero dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se nell'interpretazione delle prove avessero esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione della prova...". Tali principi sono rimasti fermi anche dopo la legge n.46 del 2006, e la natura del vizio denunciabile resta attinente alla correttezza del discorso giustificativo della decisione e non al suo contenuto valutativo.


Ciò non toglie importanza alla circostanza che il nuovo testo del citato art.606, lett. e) sottolinea il valore decisivo che la valutazione del fatto ha con riferimento alla corretta applicazione della disposizione che si attaglia al caso concreto, posto che un'errata applicazione delle regole sulla valutazione della prova si trasforma in una non coerente applicazione della legge al fatto realmente accaduto ed alle conseguenti responsabilità.


Tuttavia, resta fuori dubbio che il giudizio avanti la Corte di cassazione risponde a logiche e finalità sue proprie, che non ripetono quelle del giudizio avanti i giudici di merito. Una dimostrazione di questa differenza la si ricava, tra l'altro, dalla motivazione della sentenza n.26 del 2007 della Corte costituzionale, là dove (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica apportata dalla legge n.46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la possibilità di ricorso avanti la Corte di cassazione è "rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito (invece) dall'appello".


Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha "la pienezza del riesame di merito" che è propria del controllo operato dalle corti di appello, ben si comprende come il riferimento del nuovo testo dell'art.606, lett. e) agli "altri atti del processo" su cui il ricorso può fondare la richiesta di annullamento della sentenza di merito non significa affatto che il giudice di legittimità sia chiamato, attraverso l'esame di tali atti, a ripercorre l'intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.


Come giustamente osservato dalla citata sentenza Capri ed altra, il rapporto tra il disposto degli artt. 544 e 546 c.p.p., e cioè tra completezza e concisione della motivazione, comporta che la motivazione del giudice di merito non deve dare conto di tutti gli elementi di prova esaminati, ma concentrarsi su quelli che assumono valore decisivo ai fini della decisione, posto che la finalità della motivazione resta quello di rendere edotte le parti delle ragioni essenziali della decisione stessa e del percorso logico seguito. E' all'interno di questa prospettiva di ordine generale che deve essere inteso il riferimento agli specifici atti del processo, con la conseguenza che il giudice di legittimità è chiamato a valutare l'incidenza di eventuali violazioni commesse dalla decisione impugnata sul risultato finale. Restano pertanto escluse dal controllo della Corte "non soltanto le deduzioni che riguardano l'interpretazione e la specifica consistenza degli elementi di prova, ma anche le incongruenze logiche che non siano assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate in altri passaggi argomentativi adottati dai giudici; cosicché non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti adottata dai ricorrenti né su altre spiegazioni fornite dalla difesa per quanto plausibili, ma comunque inidonee ad inficiare la decisione di merito. Al di là di questi limiti finirebbe per accreditarsi la Corte di cassazione di poteri rivalutativi che, come tali, appartengono alla sola cognizione del giudice di merito.".


In altri e conclusivi termini, questa Corte ritiene che il giudizio sulla completezza e correttezza della motivazione della sentenza impugnata non possa confondersi "con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporsi a quella fornita dal giudice di merito", con la conseguenza che una motivazione esauriente nell'affrontare i temi essenziali e coerente nella valutazione degli elementi probatori si sottrae al sindacato di legittimità. Conservano, dunque, piena validità anche dopo la novella del 2006 i principi essenziali fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n.2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv 203767).


7. Il reato contestato al capo A) della rubrica


Per quanto concerne la contestazione di gestione di discarica abusiva (capo A), la sentenza impugnata appare correttamente motivata (pag.94 ss.) e il ricorso del Sig. Artese deve essere respinto.


7.1 Entrambe le decisioni dei giudici del merito (che la Corte può esaminare congiuntamente attesa la coincidenza di gran parte dei motivi di ricorso con quelli di appello) hanno affrontato in modo completo e convincente il tema delle caratteristiche del sito e della relativa disciplina giuridica. La sussistenza di una "discarica non autorizzata" è certamente integrata dalla presenza di grandi quantità di prodotti contenenti amianto stoccati in magazzini non sufficientemente protetti oppure depositati addirittura all'aperto, materiali soggetti al deterioramento della struttura ed alla conseguente dispersione delle fibre. E, del resto, tutta la corrispondenza fra la Finanziaria Fibronit, gli enti territoriali e le autorità di controllo, come esposta in sentenza e sul punto non contestata dal ricorrente, appare elemento univoco nel dimostrare la esistenza di un sito che necessitava interventi di salvaguardia e di bonifica. Né sembra possa mettersi in dubbio che i prodotti contenenti amianto costituiscono tecnicamente "rifiuti" avente carattere di pericolosità. Sul punto, richiamato l'univoco dettato normativo, su cui dovrà tornarsi, si rinvia alla costante giurisprudenza di questa Sezione della Corte, tra cui la sentenza 26 ottobre-29 novembre 2006, n.39360, Lo Bello (rv 345464) e la recentissima decisione del 27 Marzo 2007, n.sezionale 00959/2007, Bertuzzi ed altri, non massimata.


7.2 Parimenti, la sentenza impugnata risulta pienamente convincente e immune da vizi allorché afferma che il Sig.Artese ha avuto co-responabilità nella integrazione del reato. Del tutto coerente appare la motivazione su questo punto, considerato che tra le altre cose vi si afferma (con circostanze in fatto che questa Corte considera come elementi accertati) che l'incarico accettato dal Sig.Artese non prevedeva una chiara ripartizione di compiti rispetto al co-liquidatore; che successivamente al sopralluogo del 23 settembre 1999 intercorse per anni tra la soc.Fibronit e gli enti locali e le autorità competenti una ripetuta corrispondenza avente ad oggetto gli interventi da porre in essere per porre rimedio al grave rischio ambientale; che il Sig.Artese fu soggetto attivo di tale corrispondenza e della predisposizione di progetti di intervento; che egli fu al vertice di una società costituita proprio al fine di supportare quei progetti; che, dunque, non si può escludere la sussistenza in capo al Sig.Artese delle responsabilità gestionali e degli obblighi connessi all'attività di liquidatore della società, responsabilità ed obblighi certamente rilevanti ai sensi dell'art.40 c.p. (si veda Sezione Terza Penale, sentenza 8 giugno-21 settembre 2006, n.31401, Boccabella, rv 234942).


7.3 Infine, si deve ritenere che la motivazione della sentenza impugnata affronti in modo corretto il tema, posto nei motivi di appello, della corrispondenza fra accusa e decisione (pagg.97-98). Non solo il fatto di reato è stato esposto con chiarezza nel capo di imputazione e non immutato dalla sentenza di primo grado, ma appare pacifico che la ritenuta sussistenza della responsabilità dell'odierno ricorrente a titolo di colpa è del tutto riconducibile alla lettera del capo A) che esplicita in modo in,equivoco sia la posizione del Sig.Artese di liquidatore della società sia ed la condotta a lui ascritta.


8. A fronte di questo quadro complessivo, non può condividersi la censura che il Sig.Artese muove alla sentenza impugnata nella parte in cui non terrebbe conto del fatto, asseritamene decisivo, che il co-liquidatore, Sig.Cuniolo, avesse, rispetto all'odierno ricorrente, una più diretta presenza e relazione con il luogo ove i materiali erano depositati. Tale circostanza assumerebbe, secondo il Sig.Artese, rilievo decisivo per escludere la sussistenza di una sua qualche responsabilità rispetto alla gestione della discarica. Risulta dalle sentenze in atti che la situazione in cui versava l'ex stabilimento era perfettamente nota alla società, ai precedenti amministratori ed ai liquidatori nominati nel 1997, tanto che l'attività di liquidazione era strettamente legata alla bonifica ed alla possibile destinazione degli immobili e dell'area, come dimostrano i progetti di lottizzazione, di cui il Sig.Artese si occupò direttamente e che potevano risultare praticabili solo nella eventualità che il recupero e la bonifica dell'area andassero a buon fine. La sentenza impugnata ha fatto buon uso di tali circostanze e la motivazione risulta coerente con le premesse in fatto e priva di vizi logici, con la conseguenza che anche sotto tale profilo i motivi di ricorso non meritano accoglimento.


9. Così ricostruiti i fatti, poche osservazioni merita il ricorso del Sig.Artese nella parte in cui sostiene che egli ebbe ad attivarsi presentando ben otto proposte di bonifica ed una proposta di lottizzazione dell'area, circostanze che escluderebbero che egli possa essere ritenuto responsabile di una illecita gestione della discarica.

Occorre qui chiarire che la situazione di grave illegalità e di rilevante pericolosità provocata dagli esiti di gestione della soc.Fibronit e della Finanziaria Fibronit non possono trovare nelle oggettive e rilevanti difficoltà di soluzione una circostanza impropriamente scriminante. Così come non è accettabile, sul piano giuridico, che le cautele di intervento derivanti dalla legge e dagli atti amministrativi possano trasferire sugli enti territoriali e sulle amministrazioni pubbliche forme più o meno dirette di responsabilità che farebbero venir meno quelle degli amministratori o liquidatori della società che ha dato origine alla situazione di illegalità e pericolo. In altri termini, la violazione da parte dei privati delle regole di cautela e degli obblighi connessi alla realizzazione e gestione di una discarica non può perdere il carattere di illiceità sul presupposto che neppure le autorità e gli enti aventi competenza sul sito e sugli immobili hanno saputo riportare nell'ambito della legalità una situazione gravemente compromessa cui i privati hanno dato origine: pur nella consapevolezza delle difficoltà che si collegano alla sanatoria di una realtà tanto complessa, quella prospettata dal Sig.Artese costituisce una vera inversione dei principi di responsabilità che non può essere in alcun modo condivisa.


Del tutto infondate sono, dunque, le doglianze del Sig.Artese - e le sue sorprendenti richieste di risarcimento dei danni rivolte ai soggetti pubblici costituitisi parte civile - che censurano la sentenza impugnata trasferendo sulle amministrazioni pubbliche le responsabilità del mancato intervento di risanamento e bonifica.


10. 11 reato sub A) come reato permanente


Considerate le caratteristiche del sito e la vicenda che in concreto ha visto interessata la sede della ex fabbrica Fibronit, la Corte può ritenere accertato che tale fabbrica ed i terreni di sua pertinenza divennero una discarica in cui giacevano prodotti contenenti amianto, ed accertato, altresì, che per tutto l'arco di tempo oggetto della contestazione vi fu un pericolo altissimo di inquinamento ambientale e sussistette in concreto la dispersione di fibre di amianto.


A fronte di questo stato di cose, sorprende che il ricorso del Sig.Artese insista con tanta larghezza di argomenti ed energia nel contestare il carattere di permanenza del reato oggetto del capo A) della rubrica e lo stesso fondamento di tale istituto giuridico.


La dottrina e la giurisprudenza da decenni (tra le moltissime si vedano le sentenze di questa Sezione del 29 settembre-4 dicembre 1989, n.12273, Barucca, rv 177178; 7 luglio-27 settembre 1995, n.2691, 'merito, rv 203476; 14 aprile-5 maggio 2005, n.16890, Gallucci e altro, rv 231649) hanno esaminato e quindi fondato le caratteristiche del concetto di permanenza nel reato e le differenze esistenti rispetto alle diverse nozioni del reato istantaneo con effetti permanenti e del reato continuato. Si tratta di osservazione talmente ovvia che questa Corte può in questa sede limitarsi ad evidenziare come la condotta di gestione di una discarica abusiva di rifiuti pericolosi rappresenti un esempio paradigmatico e di solare evidenza di permanenza del reato (sul punto si rinvia, tra le altre, alla sentenza di questa Sezione del 15-27 gennaio 2004, n.2662, PM in proc.Zanoni, rv 227219; si veda anche Quinta Sezione Penale, sentenza 14 gennaio-25 marzo 2005, n.11924, Spagnolo e altri, rv 231704).


Diverso il discorso sulle conseguenze che la natura permanente del reato ha con riferimento alla prescrizione del reato, discorso che sarà affrontato dopo avere esaurito l'esame dei motivi di ricorso relativi agli altri capi di imputazione.


11. Il reato previsto al capo D) della rubrica (art.50, co.2 d.lgs. n.22 del 1997)


Se, dunque, la sentenza impugnata merita di essere confermata con riferimento alla decisione sul capo A) della rubrica, questa Corte ritiene che essa, con riferimento al reato contestato al Sig.Artese al capo D), abbia erroneamente attribuito valore dirimente alla circostanza che le ordinanze sindacali del maggio e novembre 1997 e, poi, del marzo 2001 furono indirizzate al solo co-liquidatore e non anche al Sig.Artese.

Si è visto, in precedenza, che la Corte territoriale ha considerato il Sig.Artese pienamente coinvolto nelle attività di liquidazione e ricoprire di fatto un ruolo attivo nelle attività volte ad affrontare la complessa destinazione delle aree e degli immobili della soc.Fibronit. Se ciò è vero ai fini della responsabilità per il reato contestato al capo A) della rubrica, non appare né coerente né logico concludere che il Sig.Artese fosse, invece, all'oscuro delle ordinanze sindacali del 1997 e del 2001, ordinanze che comportavano per la Finanziaria Fibronit il sorgere di impegni che erano sia strettamente interessati alle trattative in corso con gli enti territoriali sia direttamente rilevanti ai fini della bonifica che, si è visto, costituiva passaggio essenziale per ogni futura lecita destinazione degli immobili a terzi (destinazione di cui il Sig.Artese, come ripetutamente affermato dalla sua stessa difesa, ebbe ad occuparsi direttamente).


L'ipotesi di reato prevista al capo D) della rubrica non può essere considerata come meramente formale, quasi che la intestazione delle ordinanze in capo ad uno solo degli amministratori della società interessata possa per ciò solo avere come conseguenza l'assenza del sorgere di obblighi giuridici per gli altri amministratori. Ritiene la Corte che per restare esenti da responsabilità questi ultimi debbano risultare del tutto all'oscuro del provvedimento, mentre, come si è visto, la stessa impostazione che la Corte territoriale ha dato alla ricostruzione dei fatti sembra comportare nel caso di specie una conclusione ben diversa.


Si è, dunque, in presenza di una contraddittorietà evidente della motivazione e la sentenza va annullata sul punto.


12. Il reato contestato al capo B) della rubrica (art.674 c.p.)


Ritiene la Corte che anche con riferimento al capo B) della rubrica la sentenza impugnata risulti viziata e debba essere annullata. Erroneamente, infatti, la motivazione fa discendere la non sussistenza della violazione dal mancato superamento dei valori contemplati dal DM 6 settembre 1994.


Sul punto appare, al contrario, accoglibile l'impostazione dei ricorrenti, Procura generale della Repubblica e parti civili, che collegano la rilevanza giuridica di quei valori esclusivamente allo svolgimento di attività autorizzate e regolamentate. Infatti, sia la disciplina vigente all'epoca dei fatti (operante nell'ambito dei principi fissati a partire dalla direttiva 80/1107/CEE e ribaditi dalle Conclusioni del Consiglio in data 7 aprile 1998), sia quella successiva (d.lgs. n.257 del 2006, avendo riguardo alla direttiva 2003/18/CE) operano con riferimento al rispetto da parte dell'imprenditore dei limiti posti a tutela delle persone che vengono professionalmente a contatto con l'amianto e le fibre di amianto, in tal modo assicurando che un'attività regolamentata riduca al massimo grado i rischi inevitabilmente connessi alle lavorazioni, al trattamento e allo smaltimento di tale sostanza.


Diverso il discorso per la dispersione delle fibre nell'ambiente circostante, dispersione che assume carattere di incontrollata pericolosità e riguarda una platea non limitata di possibili destinatari. Ritiene pertanto la Corte che quando tale situazione di pericolosità è collegata ad una situazione di irregolare gestione di una discarica, il reato previsto dall'art.674 c.p. risulti integrato dalla prova che la dispersione di fibre vi sia stata, senza che assuma rilievo il superamento dei valori che le regole in vigore riferiscono ad attività autorizzate e controllate e, come tali, poste all'interno di un sistema di cautele che è capace di ridurre al massimo i rischi per le persone. Tale sistema di cautele, infatti, ricomprende la formazione delle persone che vengono o possono venire a contatto con le fibre di amianto, la predisposizione di strumenti e di abbigliamento atti a ridurre il pericolo che le fibre possano venire respirate, la predisposizione di attività di decontaminazione: tutte cautele che restano escluse nelle situazioni come quelle create dalla gestione della soc.Fibronit e della Finanziaria Fibronit.


Se, dunque, vi è in atti la prova che una dispersione di fibre di amianto vi fu (v. pag.101 della motivazione) e che polveri di amianto furono rinvenute nelle pertinenze delle abitazioni adiacenti la ex fabbrica (ibidem), non vi è dubbio che tali circostanze fossero "idonee a cagionare danni alla salute dei cittadini", così come contestato al capo B) della rubrica. A parere di questa Corte l'affermare, come ha fatto il giudice di prime cure, che si sia in presenza di "emissioni" punibili ai sensi dell'art.674 c.p. non realizza alcuna "operazione creativa" e costituisce corretta applicazione della disciplina giuridica al caso concreto.


La sentenza impugnata deve pertanto essere sul punto annullata.


13. I reati contestati ai capi C) ed E) della rubrica (art.635, co.2 n.3 c.p. e art.51 bis d.igs. n.22 del 1997)


La stessa sentenza merita, invece, conferma con riferimento ai reati contestati ai capi C) ed E) della rubrica. Quanto al reato previsto dal comma secondo dell'art.635 c.p., la motivazione dà conto di una situazione di fatto (pag.102) che ragionevolmente impone di retrodatare il fatto lesivo ad epoca anteriore alla data in cui il Sig.Artese assunse la qualità di liquidatore, non potendo rilevare ai fini della sussistenza e dell'epoca del danneggiamento l'eventuale successiva assenza di condotte riparatorie.


Quanto al reato previsto dall'art.5 i bis del d.lgs. n.22 del 1997, va preso atto della circostanza che la Corte territoriale (pag.104-106 della motivazione) ritiene non sussistere la prova del superamento dei limiti previsti dalla normativa attuativa dell'art.17 del d.lgs. n.22 del 1997 richiamato nello stesso capo d'imputazione. A differenza di quanto esposto con riferimento al capo B)della rubrica, i valori di riferimento (DM 25 ottobre 199/n.471) non si riferiscono ad attività autorizzate e regolamentate, bensì alle conseguenze di attività comportanti inquinamento dell'ambiente o dei suoli, e cioè a situazioni corrispondenti a quella che viene riferita alla responsabilità del Sig.Artese.


In tale contesto normativo e di fatto, la esistenza di un deficit probatorio su cui la Corte territoriale ha fondato la pronuncia di assoluzione risulta motivata il modo logico e non censurabile in questa sede.


14. La maturata prescrizione per i reati contestati ai capi A), B) e D)


E' così giunto il momento di esaminare il motivo di ricorso del Sig.Artese che ha ad oggetto la maturazione del termine prescrizionale a seguito della cessazione della permanenza del reato in coincidenza con il sequestro preventivo disposto dall'autorità giudiziaria in data 12 gennaio 2002. Sostiene, infatti, il ricorrente che l'eventuale permanenza del reato non avrebbe potuto protrarsi oltre la data in cui iLSig.Artese, quale liquidatore della Finanziaria Fibronit, ha perduto la disponibilità dell'intera area seguito dell'intervenuto sequestro.


Ritiene la Corte di dover muovere dalla considerazione, costantemente affermata dalla giurisprudenza di legittimità, che la permanenza cessa nel momento in cui l'offesa al bene protetto viene meno oppure nel momento in cui l'azione prescritta viene realizzata oppure non è più esigibile, cessando in tal modo l'antigiuridicità vuoi per fatto volontario dell'obbligato o per altra causa (si vedano, tra le molte, Sezione Terza penale, sentenza Barucca, cit., rv 177178; 23 ottobre 1996-29 gennaio 1997, n.604, Salmeri, rv 207035; 16 aprile-23 maggio 1997, n.1721, PM in proc.Sciarrino, rv 208053; 27 marzo-14 maggio 2002, n.18198, Pinori, rv 221995; 12 febbraio-18 marzo 2004, n.13204, Merico e altro, rv 227571; 24 settembre-12 novembre 2004, n.44249, PM in proc.Cascina, rv 230468).


Con specifico riferimento al reato previsto dal citato art.51, comma 3 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n.22, merita segnalare che questa Sezione della Corte ha già affrontato il tema della cessazione della permanenza con riferimento al termine introdotto dal d.lgs. 13 gennaio 2003, n.36 (attuativo della direttiva 31/99/CE). Si tratta di termine che, in assenza di rimozione dei rifiuti o di ottenimento della autorizzazione, viene fissato in dieci anni a far data dall'ultimo conferimento (si veda la sentenza 15-27 gennaio 2004, n.2662, PM in proc.Zanoni, rv 227219). Detto termine, indipendentemente dal tema se operi o meno secondo il principio del favor rei, non assume rilievo diretto in questo caso, ma conferma il legame esistente fra la persistenza degli effetti pericolosi e nocivi e la permanenza del reato contestato al Sig.Artese.


15. Da tutto quanto si è detto, emerge con chiarezza che il reato previsto dall'art.51, comma terzo del d.lgs. n.22 del 1997 non può sussistere in forma del tutto indipendente dalla riferibilità alla condotta, anche solo omissiva, della persona responsabile. In modo coerente, la giurisprudenza di questa Sezione ha costantemente affermato il principio che il sequestro preventivo dell'area o dei beni interessati fa cessare il loro legame con la persona e comporta la cessazione della permanenza (tra le altre, Terza Sezione Penale, sentenza 8 maggio-20 giugno 2003, n.26811, PG in proc.Orlando, rv 225734).


Questa Corte non può, peraltro, non rilevare che la Prima Sezione Penale, con sentenza del 13 giugno-8 settembre 2006, n.29855, Pezzetti e altro (rv 235255) ha, affermato il seguente principio: -In tema di reati ambientali, il reato di inquinamento previsto dagli artt. 51 bis e 17, comma secondo, D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 - di natura permanente anche dopo l'entrata in vigore degli artt. 242 e 257 del D.Lgs. n. 152 del 2006 che ha abrogato (art. 264, comma primo lett. i) il D.Lgs. n. 22 del 1997 - non cessa per effetto del sequestro del sito inquinante, preordinato all'eliminazione del danno, ma persiste fino agli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale delle aree, condotte riparatorie - queste - previste anche dal nuovo testo unico (art. 247 D.Lgs. n. 152 del 2006) che, ove poste in essere prima della pronuncia giudiziale, fanno venire meno la punibilita' del reato."


Si legge nella motivazione di tale decisione che "deve escludersi che il sequestro del sito faccia cessare la permanenza del reato, per gli effetti di cui all'art.158 C.P. in relazione all'art. 157, la quale persiste fino a quando non vengono fatte venire meno le conseguenze dannose o pericolose ovvero con la sentenza di condanna anche non irrevocabile. Il sequestro infatti era ed è preordinato alla eliminazione del danno e non impedisce, neppure dopo la entrata in vigore del d.lgs. n.152 del 2006 (art,247), cosi come non impediva prima, gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale delle aree anche al fine di evitare la ulteriore propagazione degli inquinanti ed il conseguente peggioramento della situazione ambientale. Sarebbe invero singolare che il sequestro delle aree ... possa determinare la cessazione della permanenza e cioè della antigiuridicità di una condotta che il responsabile della stessa è tenuto a denunciare ed a riparare evitando pure il sequestro se si mette immediatamente a disposizione e predispone gli interventi riparatori. ".
Conclude sul punto la motivazione che "soltanto la eliminazione del danno" - che non risulta nel caso intervenuta - "avrebbe potuto determinare la cessazione della permanenza".


16. A fronte di tale diversa impostazione, questa Corte ritiene, nei termini che seguono, di dover condividere l'orientamento illustrato fin qui seguito dalla Sezione.


Non vi è dubbio che la decisione assunta dalla prima Sezione Penale con la sentenza Pezzetti e altro si fa carico di un rischio connesso alla interpretazione che fa derivare dal sequestro la cessazione della permanenza del reato: il rischio che proprio la condotta inerte dei responsabili del sito o della discarica, costringendo l'autorità ad un intervento cautelare, finisca per trasformarsi in un vantaggio ai fini del decorso dei termini prescrizionali. In sostanza, coloro che si attivassero per porre rimedio alla situazione di pericolo vedrebbero permanere il reato fino al momento in cui le attività positive fanno cessare il pericolo stesso, mentre coloro che omettessero ogni intervento vedrebbero cessare la permanenza in momento potenzialmente anticipato grazie al doveroso intervento delle autorità.


La soluzione adottata con tale sentenza non può essere criticata affermando, secondo l'impostazione generale del ricorso del Sig.Artese, che in tal modo la situazione giuridica dell'indagato/imputato diverrebbe incerta in quanto il decorso del termine prescrizionale dipenderebbe da circostanza a lui estranea, e cioè dalla adozione o non adozione di misure cautelari da parte delle autorità. Si tratta di obiezione che non considera che l'intervento cautelare dell'autorità costituisce, innanzitutto, una misura a tutela degli interessi offesi o messi in pericolo dalla condotta del responsabile e si trasforma, poi, in un (immeritato) vantaggio per il responsabile stesso in relazione all'estinzione del reato per prescrizione. Nessuna conseguenza pregiudizievole, dunque, per la posizione giuridica della persona indagata o imputata.


Osserva a questo punto la Corte che nel caso in esame il sequestro conservativo disposto dall'autorità giudiziaria barese dopo alcuni anni dall'inizio delle indagini si fonda proprio sulla inerzia dei responsabilità della Finanziaria Fibronit rispetto alla esigenza di interventi operativi effettivi che facessero cessare la situazione di gravissimo pericolo e di attuale danno protraentesi ormai da moltissimo tempo.


Occorre dunque chiedersi se, il Sig.Artese, qualora avesse inteso dare finalmente corso alle necessarie attività, avrebbe potuto ancora farlo. La risposta, alla luce degli atti, non può essere univocamente positiva. L'atto di sequestro preventivo adottato dal giudice delle indagini preliminari il 12 gennaio 2002 nei confronti di Galvani, Cuniolo, Artese e altri, non prevede in alcuna forma la prosecuzione delle attività o comunque la possibilità per gli indagati di accedere all'area e agli immobili, così definitivamente facendo cessare per essi la disponibilità dei beni. Deve ritenersi, in conclusione, che le condotte penalmente rilevanti trovino nel sequestro preventivo un momento discriminante e debbano considerarsi esaurite.


E' ben vero che gli indagati avrebbero potuto attivarsi per richiedere le opportune modifiche del provvedimento giudiziale anche al fine di porre in essere nuove condotte attive, ma si tratta di elementi che, oggi probabilmente rilevanti ai sensi degli artt.242 ss. del d.lgs. 3 aprile 2006, n.152, non sembrano avere valore decisivo nella vigenza della precedente nomativa.


Ritiene conclusivamente la Corte che il reato debba intendersi cessato alla data del 12 gennaio 2002 e che il termine massimo di prescrizione, non essendosi in presenza di motivi inammissibili, sia oggi definitivamente maturato.


17. Osserva la Corte che risultano prescritti anche i reati contestati ai capi B) e D) della rubrica.


Per il primo di essi la contestazione deve ritenersi cessata al momento del sequestro preventivo dell'area e degli immobili. Una volta ritenuto che la perdita della disponibilità dei beni comporti l'interruzione del rapporto tra la condotta e la lesione del bene protetto, non vi è dubbio che ciò vale a maggior ragione per la contravvenzione prevista dall'art.674 c.p., le cui caratteristiche sono state in precedenza esaminate.


Per il reato contestato al capo D), emerge dalla stessa rubrica che a condotta punibile conseguente all'ultima ordinanaza sindacale in ordine di tempo va collocata non oltre la data del 2 maggio 2001.


18. Le statuizioni civili.


Così esaminati i motivi di ricorso relativi ai reati contestati al Sig.Artese, la Corte deve prendere in considerazione i motivi di ricorso relativi alle statuizioni civili, così come disposto dall'art.578 c.p.p. che fa obbligo alla corte di appello e a quella di cassazione di pronunciare su tali aspetti anche nel caso in cui dichiarino l'estinzione del reato per amnistia o prescrizione.


La Corte ha, come si è visto, confermato le conclusioni cui la sentenza impugnata è giunta relativamente al capo A), con annullamento per essere nel frattempo maturato il termine prescrizionale, mentre ha disposto l'annullamento della stessa sentenza con riferimento all'assoluzione del Sig. Artese per i reati contestati ai capi B) e D) della rubrica, anche in questo caso accertando l'intervenuta prescrizione dei reati. Ha, invece, confermato la sentenza impugnata nella parte in cui ha assolto il Sig.Artese per i reati contestati ai capi C) ed E).


A fronte di tali conclusioni, che accolgono parzialmente i motivi di ricorso delle parti civili costituite, la Corte non può che disporre la condanna del Sig.Artese al risarcimento dei danni causati alle parti civili, danni che andranno liquidati in separata sede, così come disposto dalla sentenza della Corte territoriale.


Della richiesta di risarcimento avanzata dal Sig.Artese nei confronti di alcune delle parti civili già si sono esposte le ragioni che ne impediscono l'accoglimento.


Per quanto concerne i motivi di ricorso relativi alla provvisionale, ritiene la Corte che erroneamente la sentenza impugnata abbia escluso dal beneficio le parti civili WWF e CODACONS. Il fatto che la quantificazione effettuata dal giudice di prime cure sia avvenuta "in via equitativa" per tutte le parti civili (pag.108 della motivazione della sentenza della Corte di Appello), non consente di ritenere che ciò comporti l'assenza di qualsiasi prova in ordine all'entità del danno, che sarà legittimamente accertata in separata sede, e comporti l'arbitrarietà della soluzione adottata dal Tribunale stesso. Ciò è tanto vero che per la parte civile Ministero dell'ambiente la Corte territoriale ha ritenuto la quantificazione fatta del Tribunale compatibile con una valutazione anch'essa equitativa.


Venendo così alla provvisionale disposta nei confronti del Ministero dell'ambiente, ritiene la Corte che debba essere accolta la richiesta di correzione di errore avanzata dall'Avvocatura dello Stato alla Corte territoriale e qui reiterata a seguito della decisione di quella. Risulta pacificamente dalla lettura di pag.108 della motivazione che la Corte ha ritenuto corretta e fondata la quantificazione in Euro cinque milioni effettuata dal giudice di prime cure; lettura che non lascia dubbi, proprio perché contiene un riferimento "a contrario" alla scelta della Corte di Appello di non confermare la provvisionale in favore delle altre parti civili.


Inoltre, il riferimento esplicito della motivazione ai costi di bonifica ed ai decreti ministeriali 18 settembre 2001 e 8 luglio 2002 (valutati come provvedimenti doverosi ed efficaci), alla quantificazione iniziale operata dall'Avvocatura dello Stato in oltre sei milioni di Euro ed alla mancata contestazione da parte della difesa concordano in modo in equivoco con la soluzione che vuole la Corte territoriale confermare la provvisionale disposta dal Tribunale nella misura di cinque milioni di Euro.


Così stando le cose, e non sussistendo su questo punto il minimo dubbio, deve ritenersi ineqivoco che la indicazione di soli cinque mila Euro contenuta nel dispositivo è frutto di errore materiale. Tale errore che non può in alcun modo riferirsi alla quantificazione che l'Avvocatura dello Stato ha indicato, sul punto nelle proprie conclusioni, anche in tal caso realizzando un contrasto con la richiesta di conferma della sentenza di primo grado; si osserva a tale proposito che delle conclusioni dell'Avvocatura dello Stato la sentenza non fa parola e che in motivazione non si affronta in alcun modo l'eventuale contrasto tra le diverse entità su cui la difesa ha insistito in sede di discussione davanti a questa Corte.


19. La confisca


L'annullamento della sentenza impugnata con riferimento al capo A) della rubrica comporta il venire meno dei presupposti per il mantenimento della confisca disposta con riferimento all'area ex Fibronit, che va pertanto restituita nella disponibilità degli aventi diritto.


P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata senza rinvio in ordine ai reati di cui agli artt.674 c.p., nonché 51, comma 3 e 50, comma 2 del d.lgs. n.22 del 1997 perché estinti per prescrizione.


Conferma le statuizioni civili relativamente al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede. Annulla la sentenza impugnata relativamente alla mancata liquidazione di provvisionale in favore delle parti civili WWF Onlus e CODACONS, con rinvio alla Corte di Appello di Bari in sede civile. Corregge il dispositivo della sentenza impugnata nel senso che la provvisionale in favore del Ministero dell'ambiente deve intendersi determinata in Euro cinque milioni.


Annulla altresì la sentenza impugnata senza rinvio in ordine alla disposta confisca e dispone la restituzione agli aventi diritto delle cose confiscate.

Respinge nel resto i ricorsi.


Dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata nel ricorso Artese.


Così deciso, in Roma il 27 Marzo 2007.