Cass. Sez. III n. 1716 del 15 gennaio 2015 (Ud 1 lug 2014)
Pres. Fiale Est. Grillo Ric. Cinefra
Rifiuti. Scarti di origine animale

Affinché gli scarti di origine animale, siano sottratti al regime dei rifiuti ed assoggettati al regolamento CE n. 1774/2002, occorre che essi siano qualificabili come sottoprodotti ai sensi dell'art. 183, comma primo, lett. n), D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, con la conseguenza che, nei casi in cui in cui il produttore se ne sia disfatto per destinarli allo smaltimento, essi restano assoggettati alla disciplina sui rifiuti dettata dal D. Lgs. 152/06

RITENUTO IN FATTO

1.1 Con sentenza del 10 gennaio 2014 la Corte di Appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Brindisi - Sezione Distaccata di Francavilla Fontana - del 13 dicembre 2011, dichiarava non doversi procedere a carico di C.R. in ordine al reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a) perchè estinto per prescrizione e, scissa la continuazione, eliminava la quota di pena stabilita quale aumento ex art. 81 cpv.

c.p., mantenendo ferma la condanna per il residuo delitto di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 260, alla pena di mesi otto di reclusione come irrogatagli dal primo giudice.

1.2 Ricorre avverso la detta sentenza, a mezzo del proprio difensore di fiducia, l'imputato C.R. deducendo, con un primo motivo, violazione di legge per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale per avere la Corte territoriale qualificato quali rifiuti i sottoprodotti di origine animale.

Con un secondo motivo la difesa lamenta vizio di motivazione per carenza e manifesta illogicità, per avere il giudice territoriale confermato la statuizione di responsabilità senza prestare fede alle specifiche censure sollevate con l'atto di appello in punto di configurabilità del delitto di illecita gestione, nonchè, raccolta e trasporto in forma organizzata di rifiuti rappresentati da scarti di origine animale.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è manifestamente infondato. La Corte territoriale, nel ricostruire analiticamente l'attività posta in essere - tra gli altri - dall'odierno ricorrente (attività in forma organizzata di gestione, cessione, raccolta e trasporto di scarti di origine animale che venivano recuperati come sottoprodotti di origine animale senza le prescritte autorizzazioni), ha preso in esame - diversamente da come sostenuto dal ricorrente nel secondo motivo di ricorso - le specifiche censure sollevate con l'atto di appello. La motivazione della sentenza è, sul punto, estremamente analitica e riflette il portato probatorio meglio compendiato nella sentenza del Tribunale all'uopo richiamata in parte qua.

1.1 Ciò doverosamente premesso, con riferimento al primo motivo di ricorso afferente ad una asserita, inesatta qualificazione giuridica della condotta, è da escludere che nel caso in esame gli scarti di origine animale provenienti da lavorazioni industriali, gestiti, trasportati e commercializzati dal C. potessero essere inclusi nella categoria del sotto prodotto.

1.2 La definizione di sottoprodotto contenuta nel D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, lett. n), applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis, include i "prodotti dell'attività di impresa che, pur non costituendo l'oggetto dell'attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell'impresa stessa e sono destinati ad un ulteriori impiego o al consumo".

1.3 Si tratta di una nozione complementare a quella di rifiuto, spesso al centro di accese dispute sia dottrinarie che giurisprudenziali. Nell'elaborazione interpretativa di questa Suprema Corte il sottoprodotto - da distinguersi nettamente dalla nozione di rifiuto - ricomprende anche il residuo produttivo commercializzato a favore di terzi per essere utilizzato, senza trasformazioni preliminari, in un ciclo produttivo diverso da quello di origine e si pone in contrapposizione con la nozione comunitaria di rifiuto, come interpretata dalla Corte di giustizia, secondo la quale, ai fini della distinzione tra le due categorie, è necessario che il riutilizzo sia certo; che esso avvenga nel medesimo processo produttivo e senza trasformazioni preliminari; occorre, poi che le cinque condizioni previste dalla norma citata debbono sussistere contestualmente (in termini Sez. 3^ 21.12.2006 n. 14557, Palladino, Rv. 236375; Idem 28.1.2009 n. 10711, Pecetti, Rv. 243107).

1.4 Con specifico riferimento al tema che qui interessa riguardante gli scarti di origine animale, perchè essi siano sottratti al regime dei rifiuti ed assoggettati al regolamento CE n. 1774/2002, occorre che essi siano qualificabili come sottoprodotti ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma 1, lett. n), con la conseguenza che, nei casi in cui in cui il produttore se ne sia disfatto per destinarli allo smaltimento, essi restano assoggettati alla disciplina sui rifiuti dettata dal D.Lgs. 152 del 2006 (così Sez. 3^ 15.12.2011 n. 2710, Lombardo, Rv. 251900).

1.5 Nel caso in esame la Corte territoriale ha correttamente inquadrato gli scarti derivanti dalla macellazione degli animali alla società del C. quali rifiuti perchè destinati allo smaltimento: in effetti, come precisato dalla Corte di appello, tali prodotti venivano ricevuti con abitualità e poi trasformati in farine animali o altri prodotti da mettere in commercio; ma quel che è certo è che, una volta che da parte dei vari macelli gli scarti animali venivano consegnati alla società del C., la finalità perseguita era quella dello smaltimento anche se, oltre allo smaltimento avveniva poi un ulteriore processo di trasformazione che non era incluso nella destinazione originaria perseguita dalle ditte che avevano operato la macellazione. Ed è proprio questa la ragione per la quale tali scarti non possono rientrare -come preteso dal ricorrente - nella categoria dei sottoprodotti, così come correttamente evidenziato dalla Corte distrettuale che ha accertato una attività organizzata in modo continuativo per il traffico illecito di rifiuti senza alcuna autorizzazione.

1.6 In questo senso le censure contenute nel primo motivo sono reiterative di quelle sollevate con l'atto di appello in ordine alle quali la Corte distrettuale ha reso una motivazione ampia, congrua e rispettosa della normativa vigente, sicchè detti motivi si profilano aspecifici in quanto ripropositivi di questioni congruamente esaminate nel giudizio di merito e come tali sottratti al giudizio in sede di legittimità. Vale, al riguardo, il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo il quale "E' inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.

La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo l'ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità" (in termini Sez. 4^ 29.3.2000 n. 5191. Barone C:L: Rv. 216473; Sez. 1^ 30.9.2004 n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 2^ 15.5.2008 n. 19951, Lo Piccolo, Rv. 240109; Sez. 4^ 9.2.2012 n. 18826, Pezzo, Rv. 253849).

2. Parimenti generico il secondo motivo con il quale si censura la motivazione della sentenza impugnata per manifesta illogicità della motivazione e sua carenza, nella parte in cui la Corte affronta il tema dell'attività di smaltimento dei rifiuti in forma organizzata.

Le analitiche argomentazioni contenute alle pagg. 3 e 5 della sentenza impugnata dedicate alla questione sopra indicata non solo risolvono in termini esaustivi e assolutamente logici (in coerenza, del resto, con le prove emerse nel corso del giudizio di primo grado e rivisitate dalla Corte) il problema della attività organizzata e della sua abitualità, ma analizzano la suddivisione dei ruoli tra i vari sodali.

Il giudice di appello ha ribadito quindi, con argomenti immuni da fratture logiche, l'abitualità dell'attività posta in essere dai vari imputati - e per quanto qui rileva - dall'odierno C. R., non mancando di osservare che gli stessi contenuti della censura difensiva sono in sè del tutto generici limitandosi ad una descrizione della norma di riferimento, senza il minimo collegamento con i fatti del processo.

3. All'inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma, che si ritiene congrua nella misura di Euro 1.000,00, in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 1 luglio 2014.