La Corte di Giustizia riapre la questione della individuazione dei rifiuti pericolosi di Pasquale FIMIANI SVERSAMENTI IN MARE DI RIFIUTI SOLIDI O LIQUIDI

Testo Corte di Giustizia (Sesta Sezione) 22 giugno 2000, procedimento C-318/98, Fornasar (+ 5).

 

 

La Corte di Giustizia riapre la questione della individuazione dei rifiuti pericolosi

 

 

L'individuazione della natura pericolosa o meno di un rifiuto riveste la massima importanza sia sotto il profilo sostanziale che sanzionatorio (il fatto che un rifiuto sia pericoloso può incidere non soltanto sulla quantificazione della pena, ma anche sull'esistenza stessa del reato: ad es.: violazione del divieto di miscelazione, delle prescrizioni in tema di gestione dei rifiuti sanitari pericolosi).

Di qui la necessità di individuare, in primo luogo, le regole per operare l'esatta classificazione.

Nonostante la previsione dell'art. 57 comma 1, per il quale ogni riferimento ai rifiuti tossici e nocivi si deve intendere riferito ai rifiuti pericolosi[1], il Decreto Ronchi è impostato in modo del tutto diverso rispetto al D. P. R. 10 settembre 1982, n. 915.

Questo, all'art. 2, comma 5, indicava il criterio di individuazione dei rifiuti tossici e nocivi nel fatto che essi contenessero o fossero contaminati dalle sostanze di cui all'elenco allo stesso allegato, inclusi i policlorodifenili e policlorotrifenili e loro miscele, in quantità e/o in concentrazione tali da presentare un pericolo per la salute e l'ambiente. Il criterio veniva precisato dal punto 1.2. della Delib. C. I. 27 luglio 1984 [2], per quanto riguarda provenienze e concentrazioni .

Nel Decreto Ronchi, invece, la valutazione di pericolosità non è rimessa all'analisi, caso per caso, dello specifico rifiuto[3], ma è effettuata a monte dal legislatore, attraverso una puntuale elencazione.

Nell’originaria previsione del D.Lgs 22/1997, infatti, i rifiuti pericolosi venivano individuati ( art. 7, comma 4) in quelli, non domestici, elencati nell' allegato D) al decreto.

Tale allegato riproduce integralmente l'elenco dei rifiuti pericolosi contenuto nella Decisione del Consiglio 94/904/CE del 22 dicembre 1994 [4]che, per la prima volta[5], istituiva un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE[6]. A sua volta tale direttiva, finalizzata al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri sulla gestione controllata dei rifiuti pericolosi, all’art. 1, comma 4, individuava questi ultimi:

- nei rifiuti precisati in un elenco da stabilirsi conformemente alla procedura prevista all'art. 18 della direttiva 75/442/CEE [7]e basato sugli allegati I e II. Si precisa che " Tali rifiuti devono possedere almeno una delle caratteristiche elencate nell'allegato III. L'elenco precitato tiene conto dell'origine e della composizione dei rifiuti e eventualmente dei valori limite di concentrazione. L'elenco è riesaminato periodicamente e, se necessario, riveduto secondo la stessa procedura ";

- in “qualsiasi altro rifiuto che, secondo uno Stato membro, possiede una delle caratteristiche indicate nell'allegato III. Tali casi saranno notificati alla Commissione e riesaminati conformemente alla procedura prevista all'art. 18 della direttiva 75/442/CEE ai fini dell'adeguamento dell'elenco”.

Al di là delle valutazioni tecniche relative alle nuove caratteristiche di pericolosità rispetto ai precedenti criteri per la classificazione dei rifuti come tossici e nocivi[8], il problema che si era immediatamente posto agli operatori era quello della tassatività o meno dell'allegato D). Problema acuito dal fatto che il Decreto Ronchi, nella versione originaria, non si era pienamente allineato alla disciplina comunitaria ma aveva soltanto riprodotto l'elenco dei rifiuti pericolosi contenuto nella Decisione del Consiglio 94/904/CE del 22 dicembre 1994, senza riprendere gli allegati I, II, e III della direttiva 91/689/CEE.

Nonostante si ritenesse in prevalenza che l'elenco fosse tassativo e potesse essere modificato solo ricorrendo alla procedura prescritta dalle norme comunitarie (con la conseguente arbitrarietà, quindi, sino al momento in cui non fossero intervenute modifiche ritualmente approvate ai sensi degli artt. 1 comma 4, II parte dir. 91/689/CEE e 18 dir. 91/156/CEE, dell'inclusione o esclu­sione di altre tipologie di materiali[9]), un’ importante decisione giurisprudenziale [10] rimetteva sostanzialmente in gioco il vecchio sistema.

Il caso riguardava un notevole quantitativo di residui polverulenti derivati da rottamazione di autoveicoli, non compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi, di cui all'allegato D) del D.Lgs n. 22/1997[11].

La conclusione che la mancata inclusione significava abolitio criminis, posto che i residui già tossici e nocivi, in dipendenza del loro contenuto in sostanze tossiche, erano da considerare meri rifiuti speciali perché non annoverati specificamente o comunque non riconducibili nelle categorie classificate nell'elenco dei rifiuti pericolosi, non veniva accettata sulla base delle seguenti conclusioni.

 

" Deve, infatti, riflettersi che sotto la normativa oggi abrogata i veicoli dismessi e le loro parti costituivano rifiuto speciale e che, secondo logica, la loro frantumazione sino allo stato polverulento ne avrebbe potuto mutare lo stato fisico ma non anche l'individuazione della loro natura ai fini dell'applicazione delle disposizioni che ne regolavano lo smaltimento. Nella concreta vicenda di specie, per contro, le analisi dimostrarono che siffatta natura era mutata per la presenza, quanto meno, di piombo e di rame in notevole eccesso. Questa circostanza di fatto non può non avere una qualche rilevanza anche con riguardo all'applicazione della normativa subentrata, pena, altrimenti, la totale irrilevanza di un evento oggettivamente contrario alla stessa ratio che la ispira di fornire una tutela della salute e dell'ambiente efficace e diffusa.

Reputa, dunque, la Corte che le indicazioni offerte dall'allegato D) e, più in generale, dal catalogo europeo dei rifiuti valgono sino a che non risulta smentita, da elementi affidabili, la rispondenza di un concreto residuo a quella tipologia alla quale, apparentemente, esso potrebbe venir ricondotto. Come nel sistema abrogato le analisi potevano evidenziare che un rifiuto, astrattamente urbano o speciale, doveva esser considerato, in realtà, avente natura diversa per il suo concreto contenuto difforme, così anche attualmente le classificazioni e le tipologie valgono sino a che risulti appropriata la rispondenza ad esse della vera natura del residuo in questione. La chiave per questa interpretazione è offerta dallo stesso D.Lgs n. 22/1997, il quale all'art. 9 vieta ed all'art. 51, comma quinto, punisce la miscelazione di rifiuti pericolosi tra loro o con rifiuti non pericolosi. E' evidente che una siffatta operazione conduce ad un risultato che difficilmente sarà inquadrabile in una precisa casella degli elenchi; ma tale circostanza appare, secondo la previsione normativa, non rilevante ai fini della punibilità del comportamento. Certamente non potrà considerarsi eliminata la natura pericolosa dei rifiuti mescolati sol perché, dalla loro commistione, ne deriva un qualcosa che le elencazioni non hanno preveduto.

Se il D.Lgs offre spunti per considerare non tassative le elencazioni recepite nell'allegato D), relativo ai rifiuti pericolosi, argomenti in tal senso di maggior spessore si traggono direttamente dalle direttive CEE e dalle decisioni di organi comunitari alle quali l'ordinamento interno è stato adeguato con il citato provvedimento. Come si è accennato, il catalogo europeo dei rifiuti non ha carattere tassativo: ma neppure l'elencazione dei rifiuti pericolosi appare congegnata in modo da escludere dal loro novero i residui non ricompresi nell'elenco. Ne fa esplicita avvertenza la decisione del Consiglio 22 dicembre 1994, n. 904, la quale premette all'elenco dei rifiuti pericolosi la precisazione secondo cui «... i rifiuti, diversi da quelli elencati in appresso, che secondo uno Stato membro presentino una o più caratteristiche indicate nell'allegato III della direttiva 91/689/CEE sono pericolosi. Tutti questi casi saranno notificati alla Commissione e verranno esaminati in vista della modifica dell'elenco .… ». Ne segue, come logica conseguenza, che le indicazioni dei rifiuti pericolosi offerte dagli elenchi ufficiali, non precludono la possibilità di ritenere al di fuori di esse, la natura pericolosa dei residui. L'unica condizione richiesta è che essi presentino una o più caratteristiche tra quelle menzionate nell'allegato III della direttiva 91/689/CEE. Trattasi, pertanto, di esaminare se i rifiuti stoccati presso la Inox Acciai sono rispondenti alle caratteristiche suddette.

Per sciogliere il quesito devesi risalire alla direttiva 91/689/CEE del 12 dicembre 1991, relativa ai rifiuti pericolosi, la quale ha stabilito il seguente principio: sono pericolosi i rifiuti di cui all'allegato 1B che contengono uno dei costituenti elencati nel suo allegato II se tali costituenti hanno almeno una delle caratteristiche elencate nell'allegato III. Si legge, nell'allegato 1B alla direttiva, che sono rifiuti potenzialmente pericolosi, tra l'altro, le «Polveri metalliche», il «Materiale contaminato» e «Qualunque altro rifiuto contenente uno qualunque dei costituenti elencati nell'allegato II e aventi una delle caratteristiche elencate nell'allegato III». A loro volta i costituenti elencati nell'allegato II sono, per quanto concerne strettamente il processo, l'arsenico, il rame, il cadmio ed il piombo. L'allegato III precisa, infine, che i rifiuti contenenti i citati costituenti sono pericolosi se presentano le caratteristiche di facile esplosività, comburenza, tossicità e simili specificamente da esso indicate. Tra tali caratteristiche sono annoverate la tossicità e la nocività, costituite dal fatto che l'inalazione, l'ingestione o la penetrazione cutanea possono comportare rischi, più o meno gravi, per la salute umana.

Sotto questo profilo, a parere della Corte, risulta non del tutto abbandonato il sistema giuridico imperniato su una classificazione dei rifiuti dipendente dalla loro intrinseca natura piuttosto che su indicazioni formali e di etichetta (ed in tal senso si esprimeva la direttiva n. 91/689/CEE, art. 1, paragrafo 4, primo alinea, penultimo periodo). Nonostante le esplicite elencazioni e le espresse intenzioni di codificazione, infatti, è stato mantenuto spazio ad una valutazione dei reali effetti del singolo rifiuto sulla salute e sull'ambiente".

 

 

Il tentativo di recupero del vecchio sistema veniva prontamente bloccato dalla Cassazione[12] con una decisione che incontrava i favori della prevalente dottrina[13], in cui, a chiare lettere, si affermava che "al Giudice penale non è consentito qualificare come pericolosi rifiuti che non sono inclusi nell'allegato D) del D.Lgs n. 22 del 1997, neppure se presentino una o più caratteristiche tra quelle menzionate nell' allegato III della direttiva 91/689/CEE".

Le argomentazioni della Corte (articolate in ben 14 punti) possono sostanzialmente ricondursi a tre profili:

- l'inaccettabilità di un'operazione ermeneutica tesa a colmare in modo improprio e per giunta in malam partem le lacune normative;

- l'erronea interpretazione del D.Lgs 22/1997;

- la violazione dei principi fondamentali del diritto comunitario e del rapporto con la normativa nazionale.

Sotto il primo profilo, sono giudicate corrette le affermazioni del ricorrente per cui "l'intero argomentare della Corte, sostanzialmente rivolto a superare l'univoco dato letterale, si traduce in una interpretazione incompatibile con la normativa nazionale e comunitaria, normativa basata su di una elencazione tassativa ed esaustiva dei rifiuti pericolosi. Indubbiamente l'elencazione è suscettibile di integrazione, ma solo ad opera degli Stati e cioè dei legislatori e dei governi dei vari Stati (non mai dei giudici nazionali) e nel rispetto della procedura comunitaria specificamente prevista".

 

In quali precisi limiti il giudice può colmare le insufficienze normative. - La corte di appello ritiene che l'elenco di cui all'all. D ha certamente il pregio di facilitare la certezza dei rapporti e delle situazioni giuridiche, ma che esso, tuttavia, rivela «le sue insufficienze ove si rifletta che le elencazioni, per quanto diffuse e diligenti, non possono coprire la varietà [... ] delle situazioni possibili nella vita concreta e possono, anzi, consentire furbesche elusioni della ratio normativa ogni volta in cui un residuo, per le manipolazioni ricevute, non rientri più, con precisione, in una specifica tipologia indicata negli elenchi». Questa parte della motivazione è la chiara spia dell'errore in cui la corte di appello incorre.

Il giudice deve applicare le norme così come sono: è questa l'affermazione fondamentale. Il giudice può colmare le «insufficienze» normative ma solo con corretto metodo interpretativo, nel rispetto dei valori fondamentali dell'ordinamento; nel rispetto, prima di tutto, del principio di stretta legalità.

Una cosa il giudice non deve mai fare, quali che siano i valori da tutelare: invadere il campo della produzione normativa.

Il divieto dell'interpretazione penale in malam partem. - Non è lecito all'interprete, ha ribadito più volte la Corte di cassazione, «ricavare norme incriminatrici non chiare e sicure per via analogica», tenuto anche presente l'art. 14 disp. prel. ; non è lecito «interpretare le norme penali in malam partem» (Cass. , Sez. III, 25 maggio 1993, Penta).

Due esigenze in conflitto erano presenti allora davanti ai giudici, come lo sono nel presente processo: «[... ] il rispetto del [... ] principio di stretta legalità e l'esigenza della protezione ambientale». Nella citata sentenza, la Corte di cassazione ha realizzato «la sintesi» ovviamente nel senso che la protezione ambientale deve sempre avvenire «nel rispetto del principio di stretta legalità e delle regole che presiedono alla corretta interpretazione delle norme penali».

Ma altre norme del codice penale vengono in considerazione, «Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato» (art. 2 comma 2 c. p. ). «Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo» (art. 2 comma 3 c. p. ). Lo spirito della legislazione penale italiana, come quello della legislazione di tutti i Paesi che fanno parte dell'Unione europea, e, quindi, come quello della normativa dell'Unione europea (tenuta in particolare presente l'esigenza di proteggere sempre ed in ogni caso i diritti dell'uomo), è tutto orientato nel senso di inibire interpretazioni del giudice penale in malam partem.

Il principio di certezza del diritto. - La Corte di giustizia europea ha, peraltro, espresso il principio fondamentale della certezza del diritto (C. giust. Ce 11 marzo 1981, Worringham e Humphreys c. Lloyds Bank Ltd. ; C. giust. Ce 2 febbraio 1988, Vincent Blaizot c. Università di Liegi). Anche in nome del principio della certezza del diritto (di cui il principio di stretta legalità in campo penale è sublimazione, il procedimento interpretativo «integrativo» della corte di appello di Torino non può essere seguito.

 

Erronea viene poi giudicata l'interpretazione della norma, sia per quanto concerne l'affermazione per cui la ratio della nuova normativa sarebbe quella di fornire una tutela efficace e diffusa della salute e dell'ambiente, per cui le indicazioni offerte dall'all. D) varrebbero solo sino a che non risultino smentite, da "elementi affidabili", sia per quanto attiene al richiamo del divieto di miscelazione previsto dall'art. 9 del D.Lgs 22/1997.

 

Va osservato che la ratio della nuova normativa è certamente quella di fornire una tutela efficace e diffusa della salute e dell'ambiente, ma - è questo l'aspetto dalla corte di appello trascurato - secondo la valutazione economico-politica del legislatore comunitario non secondo la valutazione etico-politica dei giudici nazionali dei vari Stati. La libertà interpretativa-creativa dei giudici nazionali, ovviamente, porterebbe al caos; ad una grande disparità di applicazione normativa nei vari Stati dell'Unione europea[14]. E' la certezza (e l'uniformità) del diritto che deve invece prevalere, unitamente al principio di stretta legalità. [Inoltre] secondo la corte di appello, «la chiave» della sua interpretazione sarebbe offerta «dallo stesso d.Lgs. n. 22 del 1997, il quale all'art. 9 vieta ed all'art. 51 comma 5 punisce la miscelazione» dei rifiuti pericolosi; ma - osserva correttamente il ricorrente -punisce la miscelazione dei rifiuti pericolosi definiti con precisione ed in modo esaustivo dall'elenco D: «Non è che perché è vietata la miscelazione oggi possiamo ritenere aperto l'elenco dei rifiuti pericolosi»; elenco che, invece, manifestamente, è chiuso e può essere aperto solo previa procedura nazionale (attivabile dagli Stati nazionali) e comunitaria normativamente prevista.

 

 

 

Viene infine sottolineata la violazione dei principi in tema di rapporti tra disciplina comunitaria e normativa nazionale.

 

Il principio di diretta applicazione. - La corte di appello ha fatto applicazione del principio di diretta applicazione degli atti comunitari ma il principio di diretta applicazione, come la Corte di giustizia europea ha ripetutamente affermato, incontra precisi limiti dalla corte di appello non analizzati e che devono essere invece analizzati proprio per evitare che il giudice nazionale si trasformi in legislatore a protezione dell'ambiente.

Il principio di diretta applicazione degli atti comunitari da parte del giudice nazionale si riferisce a quattro tipi diversi di atti comunitari: 1) diretta applicazione delle norme del Trattato (C. giust. Ce 5 febbraio 1963, N. V. Algemene Transport en Expeditie Ondememing Van Gend & Loos o Amministrazione olandese delle imposte; C. giust. Ce 15 luglio 1964, Costa c. ENEL; C. giust. Ce 17 dicembre 1970, Internationale Handelsgesellschaft ed altre successive); 2) diretta applicazione delle decisioni (C. giust. Ce 6 ottobre 1970, Grand o. Finamzamt Traunstein); 3) diretta applicazione dei regolamenti (C. giust. Ce 18 febbraio 1970, Hauptzollamt Hamburg Obereibe o. Ditta Bollman); 4) diretta applicazione delle direttive. In questa sede vengono in considerazione solo le direttive ed alle direttive l'analisi viene limitata. Più precisamente, il tema di analisi è questo: i limiti dell'applicazione diretta delle direttive comunitarie da parte dei giudici nazionali.

Le sentenze della Corte di giustizia europea- 1) Su domanda dei cittadini europei, i giudici nazionali possono direttamente applicare le direttive comunitarie sul presupposto però che esse attribuiscano al singoli diritti soggettivi e l'obbligo dello Stato sia «incondizionato e sufficientemente preciso» (C. giust. Ce 5 aprile 1979, procedimento penale a carico di Tullio Ratti). 2) Secondo la costante giurisprudenza della Corte (in particolare, C. giust. Ce 19 gennaio 1982, in causa 8/81, Becker, in Raccolta, 1982, 53), in tutti i casi in cui disposizioni di una direttiva appaiono incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere nei confronti dello Stato», (C. giust. Ce 26 febbraio 1986, M. H. Marshall o. Southampton and South-West Hampshire Area Health Authority). 3) A norma dell'art. 189 del Trattato, «la natura vincolante di una direttiva, sulla quale si basa la possibilità di farla valere dinanzi al giudice nazionale, sussiste unicamente nei confronti dello Stato membro cui è rivolta». Ne consegue che di per sé la direttiva «non può imporre degli obblighi al singolo e che essa non può quindi essere fatta valere come tale a carico del singolo stesso dinanzi al giudice nazionale» (C. giust. Ce 8 ottobre 1987, in causa 80/86, Nijmegen Bv). 4) Si deve ricordare la giurisprudenza costante della Corte secondo la quale, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, imposto agli Stati membri di adottare un determinato comportamento, l'efficacia pratica di tale atto sarebbe attenuata se agli amministrati fosse precluso di valersene in giudizio e al giudici nazionali di prenderlo in considerazione in quanto elemento di diritto comunitario. Di conseguenza, lo Stato membro che non abbia adottato entro i termini provvedimenti di attuazione imposti dalla direttiva non può opporre ai singoli l'inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa. Pertanto, in tutti i casi in cui delle disposizioni di una direttiva appaiano incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono venire invocate, in mancanza di provvedimenti d'attuazione adottati entro i termini, per opporsi a qualsiasi disposizione nazionale non conforme alla direttiva, ovvero in quanto sono atte a definire diritti che i singoli possono far valere nei confronti dello Stato (C. giust. Ce 12 luglio 1990, A. Foster e altri o. British Gas plc). 5) In merito alla questione se un singolo possa avvalersi della direttiva nei confronti di una legge nazionale, occorre ricordare la costante giurisprudenza della Corte secondo la quale la direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso (C. giust. Ce 26 febbraio 1986, in causa 152184, Marshall, in Raccolta, 1986, 723; C. giust. Ce 13 novembre 1990, Marleasing SA o. La Commercial Intemacional). A questo punto occorre analizzare in dettaglio una importante sentenza della Corte di giustizia europea recentemente pronunciata: la sentenza Arcaro del 26 settembre 1996, relatore C. N. Kàkouris.

La sentenza Arcaro. - Nella sentenza Arcaro la Corte di giustizia europea ha affermato che, in caso di trasposizione incompleta delle direttive, nessuna autorità dello Stato membro, giudice compreso) può pretendere di far valere direttamente a carico del cittadino le restrizioni comunitarie. Una direttiva, di per sé, non può «creare obblighi a carico» del cittadino. Più precisamente, «la disposizione di una direttiva non può essere fatta valere in quanto tale» nei confronti del cittadino. Una direttiva «non può avere effetto, di per sé ed indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro (adottata per la sua attuazione), di determinare od aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni». Il «diritto comunitario non prevede né comporta un meccanismo che consenta al giudice nazionale di eliminare disposizioni interne» in contrasto con la disposizione di una direttiva non trasposta. Il potere interpretativo del giudice nazionale incontra un preciso limite: mai al singolo può essere imposto «un obbligo previsto da una direttiva non trasposta», «a maggior ragione» un obbligo che abbia «l'effetto di determinare o di aggravare, in forza della direttiva ed in mancanza di una legge emanata per la sua attuazione, la responsabilità penale di coloro che ne trasgrediscono le disposizioni».

Un'analisi che il giudice nazionale deve sempre effettuare. In linea di principio, quindi: 1) la direttiva si impone solo agli Stati; 2) negli Stati membri non è direttamente applicabile da parte dei giudici; 3) se dettagliata ed incondizionata ed in favore dei singoli (se crea diritti), è applicabile direttamente dai giudici nazionali.

Da tenere, comunque, presente che, secondo l'art. 189/3 del Trattato di Roma, («La direttiva vin­cola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi»), la direttiva dettagliata non è la regola ma l'eccezione. In presenza del dettato trascritto (e cioè del dato testuale), una parte della dottrina addirittura contesta che il Consiglio dell'Ue (e cioè il legislatore dell'Unione europea) possa emanare direttive dettagliate.

In ogni caso, se, in linea di principio, una direttiva non è direttamente applicabile dai giudici nazionali, un giudice nazionale che pretenda applicare direttamente una direttiva deve, innan­zi tutto, farsi carico dei limiti entro i quali una determinata direttiva possa essere direttamente applicata: limiti già indicati. La corte di appello di Torino ha del tutto pretermesso questo tipo di analisi".

 

 

 

La decisione della Corte ribadiva con chiarezza i principi in tema di applicazione, nel nostro ordinamento, delle direttive comunitarie. Né la questione doveva ritenersi riaperta a seguito della modifica introdotta dal D.Lgs 389/1997, che modificava l’art. 7, comma 4, prevedendo: “ Sono pericolosi i rifiuti non domestici precisati nell’elenco di cui all’allegato D), sulla base degli allegati G, H ed I” ( la novella ha aggiunto, quindi, anche tali allegati).

La nuova formulazione, anche se non molto felice, si limitava infatti ad integrare il Decreto 22 con tutti gli allegati della Direttiva 91/689/CEE, così riproponendo integralmente lo schema normativo in base al quale veniva poi emanata la decisione 94/904/CEE (ripresa "in toto" dall’allegato D). In sostanza venivano aggiunti al Decreto Ronchi i criteri a fondamento della individuazione dei rifiuti pericolosi, ma non veniva affatto modificata la procedura per l'individuazione stessa, che rimaneva e rimane quella prevista dalla normativa comunitaria.

Mentre sembrava ormai acquisito il principio della tassatività dell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D) e della sua insuperabilità al di fuori della procedura comunitaria di revisione[15], la  decisione della Corte di Giustizia in commento riapriva l’intera questione.

La Corte, pronunciandosi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Pretore di Udine vertente sull'interpretazione dell'art. 1, n. 4, della direttiva del Consiglio 91/689/CEE, nonché della decisione 94/904/CE[16], affermava che:

"1) la direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, non impedisce agli Stati membri, ivi comprese, nell'ambito dei loro poteri, le rispettive autorità giudiziarie, di qualificare come pericolosi rifiuti diversi da quelli figuranti nell'elenco dei rifiuti pericolosi fissato dalla decisione del Consiglio 22 dicembre 1994, 94/904/CE, che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 4 della direttiva 91/689, e di stabilire, conseguentemente, misure rafforzate di protezione al fine di vietare l'abbandono, lo scarico e l'eliminazione incontrollata di tali rifiuti. In tale ipotesi, spetta alle autorità dello Stato membro interessato, competenti in base alla legge nazionale, darne notifica alla Commissione, ai sensi dell'art. 1, n. 4, secondo trattino, della direttiva 91/689;

2) l'art. 1, n. 4, della direttiva 91/689 e la decisione 94/904 devono essere interpretati nel senso che la determinazione dell'origine di un rifiuto non costituisce una condizione necessaria per poterlo classificare, in un caso concreto, come rifiuto pericoloso".

La Corte di Giustizia giunge a tali conclusioni partendo dalla considerazione di carattere generale per cui la normativa comunitaria in materia di ambiente non sarebbe finalizzata ad un'armonizzazione completa.

Vengono richiamate due norme del Trattato su cui viene fondata tale conclusione:

-         l'articolo 174 (ex articolo 130 R) in cui si afferma che la politica della Comunità in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità;

-         l'articolo 176 (ex articolo 130 T) per il quale i provvedimenti comunitari di protezione ambientale non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere e di prendere provvedimenti per una protezione ancora maggiore.

Il potere dei singoli Stati membri di adottare una maggiore protezione sarebbe, secondo la Corte di Giustizia, contemplato dalla stessa Dir. 91/689/CEE del 12 dicembre 1991, che, all'art. 7 prevede: " Nei casi di emergenza o di grave pericolo, gli Stati membri prendono tutte le misure necessarie, comprese, se del caso, deroghe temporanee alla presente direttiva, al fine di garantire che i rifiuti pericolosi non costituiscano una minaccia per la popolazione o per l'ambiente. Gli Stati membri informano la Commissione di tali deroghe"[17].

Tali considerazioni servono alla Corte per affrontare la questione se la qualifica di un rifiuto come pericoloso esplichi la sua efficacia solo a seguito della notifica alla Commissione e del riesame conformemente alla procedura prevista all'articolo 18 della direttiva 75/442/CEE ai fini dell'adeguamento dell'elenco, ovvero se la qualifica stessa produca effetti immediati all'interno dello Stato membro, prima e a prescindere dalla procedura di notifica.

Viene al riguardo affermato che "l'elenco previsto dalla direttiva 91/689, conformemente all'art. 1, n. 4, della stessa, consente agli Stati membri di qualificare come pericoloso qualsiasi altro rifiuto che, a parere di uno Stato membro, possegga una delle caratteristiche indicate nell'allegato III della direttiva medesima. Ove casi di tal genere si verifichino, gli Stati membri sono tenuti a darne notifica alla Commissione affinché vengano riesaminati in base alla procedura prevista all'art. 18 della direttiva 75/442 al fine di procedere all'aggiornamento dell'elenco dei rifiuti pericolosi. Così, in base all'esperienza acquisita, è compito della Commissione esaminare in qual misura sia opportuno completare l'elenco generale dei rifiuti pericolosi applicabile a tutti gli Stati membri della Comunità, aggiungendovi i rifiuti che siano stati considerati come pericolosi da uno o più Stati membri ai sensi dell'art. 1, n. 4, secondo trattino, della direttiva 91/689".

Del tutto innovativo è il passaggio conclusivo cui perviene la Corte: " ne consegue che tali rifiuti (cioè quelli individuati dai singoli Stati membri) sono considerati pericolosi solamente con riguardo al territorio degli Stati membri che abbiano proceduto a tale qualificazione".

In sostanza la semplice qualifica come pericoloso di un rifiuto da parte delle Autorità statali viene ritenuta sufficiente all'interno del singolo Stato membro, a prescindere dall'inclusione nell'elenco comunitario. L'obbligo di notifica previsto dall'art. 1, numero 4, secondo trattino, Dir. 91/689/CEE del 12 dicembre 1991 è, quindi, nelle valutazioni della Corte, del tutto svincolato dal potere del singolo Stato di attuare una protezione ambientale più rigorosa; tale potere verrebbe pertanto ad assumere carattere di autonomia, mediante la qualifica, con effetto immediato, di un determinato rifiuto come pericoloso.

La sentenza precisa poi che, nell'effettuare questa operazione, non è indispensabile fare riferimento all'origine del rifiuto. Dopo aver ricordato che, dal tenore stesso dell'art. 1, n. 4, della direttiva 91/689, emerge che, con riguardo alla nozione di rifiuto pericoloso, il criterio determinante consiste nell'accertamento se il rifiuto possegga almeno una delle caratteristiche indicate nell'allegato III della direttiva 91/689, la Corte conclude che l'inclusione nell'elenco dei rifiuti pericolosi può anche basarsi sull'origine del rifiuto, ma "ciò non implica che la determinazione precisa di tale origine sia indispensabile ai fini della classificazione del rifiuto stesso come pericoloso. In sostanza, l'origine di un rifiuto non è l'unico criterio di qualificazione della sua pericolosità, bensì costituisce uno dei fattori di cui l'elenco dei rifiuti pericolosi si limita a tener conto".

Al di là di tale pur importante profilo, il punto centrale dell'intera questione è comunque la  possibilità per gli Stati membri, di qualificare, con effetto immediato, un determinato rifiuto come pericoloso al di fuori dell'inclusione nell'elenco comunitario.

Il ragionamento della Corte riflette, evidentemente, un'interpretazione per cui l'elenco previsto dalla Dec. 94/904/CE del 22 dicembre 1994 non ha portata esaustiva e tassativa, ma solo dichiarativa ed esplicativa. Si ritiene, in sostanza, che la fonte normativa per l'individuazione e la determinazione dei rifiuti pericolosi riposa esclusivamente nella Dir. 91/689/CEE del 12 dicembre 1991, per cui l'operazione posta in essere dall'autorità giudiziaria consisterebbe nella semplice verifica se un rifiuto possiede una delle caratteristiche indicate nell'allegato III della direttiva stessa.

In tale prospettiva non vengono ad essere smentiti i principi di tassatività della fattispecie e del divieto di diretta applicazione in malam partem delle direttive “self executing”, richiamati dalla sentenza Aprà del 1997 cit., poiché è la stessa direttiva 91/689/CEE a fornire i parametri per il compimento di tale operazione ermeneutica.

In realtà l'intepretazione del Giudice comunitario sembra in contrasto con la stessa lettera dell'articolo 1, paragrafo 4, secondo trattino, della direttiva 689 cit.; la previsione per cui è pericoloso " qualsiasi altro rifiuto che, secondo uno Stato membro, possiede una delle caratteristiche indicate nell'allegato III", non può non essere letta congiuntamente al successivo periodo per cui " tali casi saranno notificati alla Commissione e riesaminati conformemente alla procedura prevista all'art. 18 della direttiva 75/442/CEE ai fini dell'adeguamento dell'elenco", in cui vi è un esplicito e non derogabile aggancio (significativo è il carattere imperativo della locuzione usata) con la procedura comunitaria di individuazione dei rifiuti.

Inoltre, pure se ad avviso della Corte la normativa comunitaria in materia di ambiente non sarebbe finalizzata ad un'armonizzazione completa, ammettere che il singolo Stato possa considerare  pericoloso un rifiuto prima della pronuncia della Commissione, anche a prescindere dalle difficoltà applicative nell'ipotesi in cui non venga accolta la decisione nazionale, significherebbe consentire ai singoli Stati membri di introdurre regimi amministrativi differenziati in alcuni territori dell'Unione incidendo, senza alcun controllo, sulle regole della concorrenza e di parità di trattamento tra le imprese comunitarie.

La diversa interpretazione da parte della Corte di Giustizia va poi esaminata sotto il profilo pratico.

La sentenza, per quanto attiene alla procedura nazionale che dovrebbe essere seguita da uno Stato membro e l'organo competente a procedere alla qualificazione dei rifiuti come pericolosi ed alla relativa notifica alla Commissione, dalla mancanza, nell'art. 1, numero 4, cit., di previsioni al riguardo, fa discendere la conclusione che "la direttiva 91/689 non impedisce agli Stati membri, ivi comprese, nell'ambito dei loro poteri, le rispettive autorità giudiziarie, di qualificare come pericolosi rifiuti diversi da quelli figuranti nell'elenco dei rifiuti pericolosi fissato dalla decisione 94/904 e di stabilire, conseguentemente, misure rafforzate di protezione al fine di vietare l'abbandono, lo scarico e l'eliminazione incontrollata di tali rifiuti".

Trattasi di una affermazione coerente con quanto in precedenza affermato, ma che si presta a diverse puntualizzazioni critiche.

In primo luogo, per quanto attiene alla possibilità da parte delle Autorità amministrative di qualificare, con effetto immediato, un determinato rifiuto come pericoloso al di là delle previsioni dell'allegato D), va tenuto presente che tali determinazioni avrebbero comunque natura di norma tecnica e, come tali, per essere efficaci, dovrebbero essere comunque notificate alla Commissione in ossequio al sistema previsto dalla Dir. 83/189/CEE del 28 marzo 1983 [18]. La stessa Corte di Giustizia ha affermato che alla mancata notifica del progetto di norme tecniche segue l'inefficacia delle stesse [19].

Incongruo, con riferimento all’intervento da parte dell'autorità giudiziaria, appare il riferimento alla possibilità di stabilire, a seguito della qualificazione di un rifiuto come pericoloso, "misure rafforzate di protezione al fine di vietare l'abbandono, lo scarico e l'eliminazione incontrollata di tali rifiuti"; detto riferimento, evidentemente, si riferisce alle sole autorità amministrative e non ai giudici nazionali, in quanto il loro intervento è, ovviamente, ipotizzabile solo in ambito processuale.

Inoltre, anche a voler ammettere che il Giudice possa operare autonomamente la qualifica come pericoloso di un rifiuto, si dovrebbe comunque verificare, per l'applicazione delle più gravi sanzioni derivanti da tale operazione, l'elemento soggettivo delle contravvenzioni, poiché  la diversa e più grave qualificazione (si pensi, ad esempio alle conseguenze che possono derivare per gli illeciti in tema di formulario, ove un rifiuto venga ad essere considerato come pericoloso) non può certamente gravare sull'operatore che versi in stato di buona fede (e questa è facilmente ipotizzabile nel momento in cui venga osservato un determinato regime amministrativo facendo affidamento sul fatto che la normativa non prevede che un determinato rifiuto abbia la qualifica di pericoloso). 

In ogni caso va precisato che le sentenze emesse in via pregiudiziale hanno lo scopo di risolvere questioni di diritto e vincolano il giudice nazionale quanto all'interpretazione delle norme e degli atti comunitari rilevanti nella causa [20]. Di conseguenza, poiché in materia di qualificazione dei rifiuti come pericolosi, il D.Lgs 22/1997 riproduce fedelmente la disciplina comunitaria, il Giudice nazionale è vincolato all'intepretazione offerta dalla Corte di Giustizia e, ad essa deve uniformarsi, fatta salva la possibilità, riconosciuta dalla giurisprudenza comunitaria, di un ulteriore rinvio pregiudiziale " vuoi per sollecitare un ripensamento della Corte sulla base di nuovi elementi o di una nuova prospettazione, vuoi semplicemente per avere dei chiarimenti sulla pronuncia già resa[21]".

Un problema altrettanto delicato si pone infine nell'ipotesi inversa rispetto a quella finora esaminata e cioè nel caso in cui un soggetto intenda dimostrare che il rifiuto, nonostante l'inclusione nell'allegato D), non presenta caratteristiche di pericolosità[22].

La stessa sentenza Aprà, richiama le decisioni Corte di Giustizia in cui si afferma che la possibilità di far valere dinanzi a un giudice nazionale la disposizione incondizionata e sufficientemente precisa di una direttiva esiste solo a favore dei singoli e nei confronti dello Stato membro cui è rivolta. Queste affermazioni, se da una parte comportano che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e che una sua disposizione non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso [23], vanno però viste anche nell'ottica contraria, dovendosi verificare se sia invece consentita un'applicazione in bonam partem che permette di escludere un rifiuto dall'allegato D)[24].

Applicando i principi accolti dalla Corte di Giustizia dovrebbe accogliersi la tesi affermativa e ritenere che, come agli Stati membri è consentito di qualificare quali pericolosi rifiuti diversi da quelli figuranti nell'elenco dei rifiuti pericolosi fissato dalla decisione del Consiglio 22 dicembre 1994, 94/904/CE, allo stesso modo al singolo dovrebbe essere concessa la possibilità di dimostrare che il rifiuto, nonostante l'inclusione nell'elenco, non presenta caratteristiche di pericolosità.

Tale soluzione sembra trovare conferma nell'evoluzione della stessa normativa comunitaria.

La possibilità che il detentore dei rifiuti potesse fornire sufficienti prove documentali che un dato rifiuto dell'elenco non presenta alcuna delle caratteristiche indicate nell'allegato III della direttiva 91/689/CEE, era prevista soltanto da un " considerando" della Dec. 94/904/CE del 22 dicembre 1994, senza alcun seguito nel testo[25]. Al contrario la Decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 disciplina esplicitamente, all'art. 3, la fattispecie in esame: " In casi eccezionali gli Stati membri possono decidere, sulla base di riscontri documentati presentati dal detentore nella maniera più opportuna, che un determinato tipo di rifiuto classificato nell'elenco come pericoloso non presenta alcuna delle caratteri­stiche di cui all'allegato III della direttiva 91 /689/CEE. Fatto salvo il disposto dell'articolo 1, paragrafo 4 secondo trattino, della direttiva 91/689/CEE, gli Stati membri possono decidere in casi eccezionali che un tipo di rifiuto classificato nell'elenco come non pericoloso presenta almeno una delle caratteristiche di cui all'allegato III della direttiva 91/689/CEE. Le decisioni adottate dagli Stati membri sono comunicate alla Commissione ad intervalli annuali. La Commissione esamina e confronta tutte queste decisioni e valuta se occorra provvedere ad una modifica dell'elenco dei rifiuti e dei rifiuti pericolosi alla luce delle decisioni degli Stati membri".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Pasquale Fimiani

Magistrato . Cattedra di  Diritto ambientale II (Corso di Economia ambientale - Facoltà di Economia e Commercio - Pescara)

 

 



[1] L'articolo 57, comma 1, D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 prevede che " Le norme regolamentari e tecniche che disciplinano la raccolta, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti restano in vigore sino all'adozione delle specifiche norme adottate in attuazione del presente decreto" e che " a tal fine ogni riferimento ai rifiuti tossici e nocivi si deve intendere riferito ai rifiuti pericolosi". Per quanto riguarda l'esatta portata di tale disposizione transitoria va precisato che, in base a Cass. pen., Sez. III, sent. n. 9617 del 28/10/97 (ud. 26/06/97), Apra', (rv 208776), non è consentito desumere dall'attuale pericolosità del rifiuti la sua qualifica di rifiuto tossico e nocivo secondo la precedente normativa ( in tal senso E. ALIOTTA, Sequestro di impianto contenente rifiuti speciali, oggi pericolosi, in Ambiente, n. 7/1998, pag. 610). L'art. 57, comma 1, D.Lgs. 5 febbraio 1997, in realtà, " intende salvare le vecchie norme regolamentari e tecniche di salvaguardia per raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti, in attesa delle nuove. E, solo a tal fine, considerato che l'ambito dei vecchi rifiuti tossici e nocivi non coincide con quello degli attuali rifiuti pericolosi, equipara i secondi ai primi, stabilendo che le norme tecniche e regolamentari già emanate per i rifiuti tossici e nocivi, si applichino ancora transitoriamente, ai rifiuti che sono oggi pericolosi" ( così testualmente G. AMENDOLA, Acque di scarico e rifiuti liquidi: i nuovi confini, nota a Cass. pen. Sez. III, sent. n. 2358 del 03/08/99, Belcari, cit., a proposito dell'affermazione contenuta in tale decisione per cui " anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, per effetto della norma transitoria di cui all'art. 57, comma 1 - che equipara i rifiuti tossici e nocivi della normativa precedente (D. P. R. 915 del 1982) ai rifiuti pericolosi della normativa vigente - restano esclusi dalla disciplina sulla tutela delle acque i rifiuti pericolosi". In effetti, secondo l'art. 2, comma 6, D. P. R. 915 del 1982, " Resta salva la normativa dettata dalla legge 10 maggio 1976, n. 319, e successive modificazioni e relative prescrizioni tecniche, per quanto concerne la disciplina dello smaltimento nelle acque, sul suolo e nel sottosuolo dei liquami e dei fanghi, di cui all'art. 2, lettera e), punti 2 e 3, della citata legge, purché non tossici e nocivi ai sensi del presente decreto". La sentenza Belcari ritiene ancora applicabile tale disposizione e, quindi, in forza dell'equiparazione contenuta nell'art. 57, comma 1, del Decreto Ronchi, arriva alla conclusione sopra enunciata. In realtà, a prescindere dall'intervenuta abrogazione dell'intero D. P. R. 915, l'art. 2 cit., non costituisce comunque norma regolamentare o tecnica, poiché non afferisce alle modalità di gestione dei rifiuti e/o degli impianti di smaltimento o di recupero, ma riguarda esclusivamente profili di carattere sistematico.

[2] Recante Disposizioni per la prima applicazione dell'art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915, concernente lo smaltimento dei rifiuti, ( pubblicata nella G. U. 13 settembre 1984, n. 253, S. O. ).

[3] In materia di analisi di rifiuti, considerata la vigenza, nella fase transitoria, della Delib. C. I. 27 luglio 1984, va richiamata Cass. pen., Sez. III, sent. n. 1017 del 31-01-1995 (cc. del 16-11-1994), Liuni (rv 201410/20141), che afferma:

-          " in materia di rifiuti, le procedure di prelievo e le analisi dei campioni sono disciplinate nel punto 6.4 della delibera del Comitato Interministeriale 27 luglio 1984 (G. U. n. 253 del 13 settembre 1984, Supplemento). Per il prelievo occorre redigere apposito verbale con lo specifico contenuto indicato nella predetta delibera. Per le analisi di campioni dei rifiuti, a differenza di quanto avviene in materia di acque con la legge 10 maggio 1976, n. 319 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 248 del 1983, ove è obbligatorio il solo preventivo avviso, essendo i campioni sempre deteriorabili, occorre distinguere l'ipotesi ordinaria (in cui vi è possibilità di revisione) da quella di "campioni rapidamente deteriorabili", per cessioni chimiche alle acque od alla atmosfera (ipotesi nella quale il preavviso è obbligatorio per rendere valide le analisi);

-          a parte l'ipotesi di rapida deteriorabilità , per i rifiuti è sufficiente consegnare alle persone trovate sul posto al momento del prelievo sia copia del verbale medesimo, sia una aliquota dei campioni prelevati. Non è previsto e non è dovuto il preavviso della data o del luogo di inizio delle analisi in quanto il servizio Presidi Multizonali ed i Laboratori di igiene e profilassi possono procedere autonomamente alla analisi di prima istanza, informando dell'esito l'interessato, per l'ipotesi che egli voglia avvalersi della facoltà di revisione sull'aliquota di campione conservata a tale scopo dagli operatori pubblici".

[4] Pubblicata nella G. U. C. E. 31 dicembre 1994, n. L 356.

[5] La Decisione del Consiglio 94/904/CE è stata poi, a far data dal 1 gennaio 2002,abrogata e sostituita dalla Decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000, Decisione che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all'art. 1, lettera a) della direttiva 75/442/CEE del C