La “finanziarizzazione” nei rifiuti: occorre scavare sotto la forma e al di là delle cose per vedere gli “affari”. Primi spunti (in via di ampliamento)

di Alberto Pierobon

La cosiddetta “finanziarizzazione” sembra aver tragicamente colpito anche il mercato dei rifiuti (nazionale, ma soprattutto internazionale) sia nei suoi elementi (di sfondo) macroeconomici (che vede, tra altro, lo spostamento della fonte di accumulazione del capitale dalla industria al commercio), sia in quella “febbre” del facile profitto che ha colpito molti operatori per i quali un profitto sarebbe (più facilmente  e rapidamente) realizzabile in quella che con un tecnicismo si suole chiamare “rendita finanziaria”, piuttosto che, appunto, nell’impresa industriale (1).
In effetti, l’elemento finanziario risulta essere assai più forte del capitale (fisso), facendogli perdere importanza e ruolo strategico e, correlativamente, spingendo i soggetti e le imprese  a volgersi ad una diversa organizzazione e presenza, orientata sempre più al mercato, piuttosto che alla produzione (2).
Così, gli scambi dei beni (e anche – se si vuole proprio dire: dei “non beni” ovvero -  dei rifiuti) e la loro circolazione, seguono altre traiettorie, sia materiali che virtuali, caratterizzate dall’inseguire, appunto, gli “affari”,ovvero, la facile (flessibile, dinamica, fluttuante) ricchezza.
In questo contesto il decentramento produttivo e l’utilizzo dei meccanismi delle holdings (dove, sia detto, nell’organizzazione interaziendale, e attraverso la circolarizzazione di modelli uniformi contrattuali, passano la stragrande maggioranza degli scambi – intrasociali - di semilavorati e di materie prime (3)) servono proprio a “coprire” i dati, a mascherare statistiche (addirittura adulterando i Pil (4)) e anche i costi, i ricavi, i profitti,e dove la finanza diventa un comodo strumento.
In un mercato globalizzato moltissimi sono infatti i fattori (tra loro coacervati, intersezionati, autoalimentantesi, alchimicamente cangianti tra qualità-quantità e viceversa (5), ecc.) che condizionano questa scelta della finanziarizzazione e degli scambi (e la loro tracciabilità materiale e finanziaria), citasi, senza pretesa di esaustività (6):

  • il costo delle materie prime e dell’energia: loro alternative;
  • la produzione a basso costo dei beni (soprattutto da parte dei paesi cosiddetti emergenti);
  • la sovrapproduzione dei beni, con la rottamazione del surplus di merci invendibili,  oppure con la loro svalorizzazione;
  • i fattori redistributivi e della domanda aggiuntiva di consumo dei beni e servizi (con il massiccio ricorso alla finanza e al debito);
  • le emergenze ambientali e di altro tipo (comunque provocanti: rischio e pericolo), poiché dalle crisi si crea scambio (poiché anche il rischio è, in questa società, una “merce” scambiabile!), dove si gioca sulla penuria/scarsità, dove si formano altri prezzi e mercati;
  • l’elemento tecnologico;
  • gli indebitamenti aziendali con effetto leva (per esempio, riacquisto di imprese, ecc.);
  • la specializzazione del commercio internazionale: qualitativa, come forniture internazionali di servizi, nella normativa antidumpig (GATT e poi OMC),nella normativa tecnica e degli standards per creare difficoltà di importazioni, ecc. (7);
  • le politiche commerciali (dazi, ecc.) e dal protezionismo (talvolta sinonimo di nazionalismo) che è, ad ogni evidenza, una falsa soluzione (come trattenimento di merci, di domanda, di commercio). In pratica con le misure protezionistiche (variamente adottabili e graduabili) verrebbero “trattenute” in Italia quote di merci, di materie, eccetera, ma anche (si badi) quote di “domanda” sulle stesse, in un mercato domestico che si barrica, di fatto così posticipando la “resa dei conti” col mercato globale, ma pure con coloro che pagano (i contribuenti non evasori) i deficit pubblici;
  • la venuta meno del mito della famosa metafora della “mano invisibile” (8) che aggiusterebbe automaticamente (magicamente) il mercato, secondo la “legge della giungla” (rectius, della concorrenza, della competitività) qui assunta come il giusto ordine naturale (9);
  • situazioni di cartelli, collusioni, oligopoli, monopoli, posizioni dominanti, eccetera;
  • situazioni di dumping nella concorrenza e nel mercato (ma prima ancora nei metodi e processi di lavorazione) (10);
  • la liquidità vieppiù affluita dai paesi cosiddetti emergenti al sistema del debito pubblico e/o alla finanza internazionale;
  • le strategie delle riserve (per esempio dei paesi asiatici) e dei fondi sovrani variamente utilizzati/utilizzabili, per esempio: per controbilanciare la volatilità di certi prezzi (vedi l’energia da parte della Russia e dell’Iran), per acquistare tecnologie avanzate che altrimenti certi paesi non riuscirebbero a produrre da soli (vedi Cina e SudCorea),  per investire il prevalente risparmio in forma di rendita (finanziando, per esempio con il risparmio cinese, una domanda aggiuntiva di consumo che sostiene anche la crescita del debito pubblico americano (11), ecc.);
  • gli investimenti esteri operati dalle multinazionali (per esempio quelle americane in Cina);
  • il sistema della globalità e del mercato “apolide” (con sottrazione di sovranità agli Stati, donde un mercato, appunto, “astatuale”, ecc.);
  • la politica delle scorte da parte degli intermediari (facendo polmone speculativo) e delle imprese (nel just in time e nel timing produttivo);
  • l’organizzazione aziendale e la sua crescente terziarizzazione;
  • i trasporti e ai noli (dove esistono anche i futures) e dalla logistica (12);
  • i costi salariali (vedasi, ora, il differenziale tra i paesi cosiddetti avanzati con i paesi emergenti) e dal raddoppio della massa lavorativa mondiale;
  • la tassazione e la fiscalità in generale;
  • i finanziamenti/indebitamenti;
  • la presenza di eventuali contributi, incentivi, provvidenze, eccetera;
  • le “tattiche” degli operatori (dei mercanti), ovvero di quella sorta di “psicologicizzazione” del mercato ove la fiducia e l’azzardo - nella complessità del rapporto commerciale - assumono un ampio e fondamentale rilievo;
  • le valute e dai sistemi di pagamento internazionali, dove (come ben sappiamo) il riciclaggio del denaro alligna;
  • l’economia illegale (della criminalità organizzata, della corruzione, dello scambio facilitato, del recupero fasullo, della fabbricazione di documenti, del riciclaggio, dello spostamento di risorse e di affari (13));
  • l’importante elemento delle informazioni (14) che si acquisiscono non solo sul mercato (per come comunemente inteso), ma, soprattutto aliunde (con incroci di dati per esempio relativi al traffico marittimo, alle commesse, alle commodities, eccetera) con asimmetrie informative ben note a chiunque;
  • i “condizionamenti” nei pregressi rapporti (per esempio, nella situazione di insoluti, successivamente compensati, oppure per effetto di – formali o non - transazioni, accordi, lamentazioni, contestazioni, brevetti, know how, eccetera, che vengono parimenti – perlopiù implicitamente - soddisfatti,tacitati, organizzati, nel corso di negoziazioni);
  • le scelte contrattuali dei soggetti che organizzano lo “affare”, dove emergono non solamente elementi di autonomia contrattuale, in una sorta di caleidoscopio giuridico (si vedano: opting out, depechage, repéchage, choice of law, ecc.) (15) ma puranche l’intangibilità/imperatività delle norme europee (16), oltre a problematiche connesse alla traduzione dei contratti, sicché emergono diversi concetti, diversi ordinamenti, diversi tecnicismi collaterali, diversi contesti d’uso, dove – nella lettura e nell’interpretazione - rilevano gli approcci funzionalistici piuttosto che quelli denotativi o concettuali, ecc. (17);
  • Dalle “promesse”, dagli “affari”, dall’immaterialità rispetto alla realtà della merce (quindi una dematerializzazione del mercato) (18);
  • Dall’autonomia della finanza rispetto al mercato reale e dalla liberalizzazione dei movimenti finanziari e dei capitali.

Ne emerge una indubbia complessità, oltre che difficoltà nello abbracciare in uno sguardo di insieme questo guazzabuglio - davvero sfuggente - di dati, di informazioni, di soggetti, di procedure ( e loro elusioni, sviamenti, piroette), di prospettive, financo di “giochi”, risultando altresì confermata l’esistenza di uno scarto tra l’economia reale e quella commerciale (o, in termini più concreti: tra la produzione e lo scambio), puranche tra il diritto e l’economia.
Ne discente, a nostro modesto avviso, la necessità, al fine di meglio “interpretare” questo novello scenario, entro il quale va collocato l’accennato, inedito, mercato e/o traffico e/o movimentazione e/o tracciabilità dei rifiuti (i quali rifiuti, si badi, vengono ad essere considerati quali “affari”, piuttosto che quale risorsa ambientale da idoneamente e correttamente trattare) di compiere un vero e proprio salto epistemologico (19).

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(1) Una prima analisi è stata svolta nello scritto “Per una analisi, non solo giuridica, delle spedizioni transfrontaliere (rectius, commercializzazione) dei rifiuti: prime considerazioni (anche ad uso dei controllori e degli autorizzatori)”, costituente un estratto dell’intervento svolto dallo scrivente nella seconda edizione del Forum Internazionale “Economia dei rifiuti” svoltosi in Ischia in data 24 e 25 settembre 2010, e che verrà ripreso in un apposito – più ampio e sistematico - scritto (in corso di redazione) sulle spedizioni transfrontaliere di rifiuti. Il primo scritto è pubblicato sul numero di dicembre della “Rivista di diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente”, Roma, 2010.
(2) Si ha conferma di tanto, ancora a fine del 2009,  quando il Presidente dell’Unire-Fise affermava “ormai ci salviamo esportando in Cina e negli altri paesi che continuano a chiedere materiali rigenerati” così J. Gilberto, In crisi anche l’industria del riciclo, in “Il Sole 24 Ore” del 30.10.2009.
(3) Per Strange più di un quarto di tutto il commercio mondiale è oggi commercio intra-aziendale, per Streeten almeno un terzo del commercio globale dei prodotti industriali è oggi costituito da scambi intrasociali (il che falsa i dati della bilancia dei pagamenti degli stati, lo segnala F. Galgano, in La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2005, a p. 25 e in nota 38 di p. 26.
(4) Quindi anche la correlazione tra produzione dei rifiuti e Pil già opinabile diventa ancora più fragile.
(5) In proposito si veda la nota affermazione di G. W. F. Hegel.
(6) Riportiamo qui gli argomenti in forma sintetica, quale indice problematico, rinviando l’approfondimento al nostro imminente scritto.
Sul WTO (World Trade Organization) in senso  aspramente critico si veda l. Wallach-m. Sforza, WTO. Tutto quello che non vi hanno mai detto sul commercio globale, Milano, 2003.
(8) Dove il prezzo è un parametro esogeno che non può essere modificato direttamente dai produttori (che si presuppongono  essere illimitatamente grandi e piccoli come dimensioni) come quantità offerte. Qui si realizzerebbe una efficienza produttiva e allocativa, in  una concorrenza che pare riduttiva in quanto “industriale”. Se poi la concorrenza va intesa come “gara”, allora occorre stabilire le regole del gioco (ma, appunto, in questa teoria non si vuole l’intervento dello Stato).
(9) Peraltro un ordine fasullo, perché come è stato evidenziato “nella storia del capitalismo la libera concorrenza è stata garantita non dal libero mercato, ma dalle leggi antitrust” G. Rossi, Il mercato d’azzardo, Milano, 2008,p. 14. L’antitrust tende a garantire che non vi siano monopoli e altre pratiche (fusioni, integrazioni, accordi, cartelli, ecc.) che riducano le imprese attive sul mercato. Ma occorre anche una politica di regolazione per far si che le economie di scala non siano reiette e per la tutela dell’equità distributiva (per esempio per l’accesso al consumo di beni scarsi,ecc.).
(10) “È noto che alcuni Paesi esportano beni prodotti con metodi e processi poco rispettosi degli standards disposti a protezione dei lavoratori, riconosciuti internazionalmente […]. Questi Stati non solo fanno concorrenza sleale ai produttori di altri Paesi, ma mettono anche in pericolo gli standards di protezione dei lavoratori dei Paesi importatori e possono innescare una corsa verso il basso. Per contrastare questo fenomeno, chiamato social dumping, può essere utilizzata una norma dei trattati sul commercio internazionale, in base alla quale i beni importati devono essere regolati in maniera non meno favorevole rispetto a quanto avviene per altri prodotti importati «simili»” così S. Cassese, Universalità del diritto, Napoli, 2005, pp. 22-23. La medesima argomentazione della similarità di tecniche, di metodi, eccetera, è applicabile anche al trattamento dei rifiuti importati e al loro, indiretto, riflesso nel mercato mondiale, del resto il medesimo Autore osserva che “L’elenco dei settori e dei campi nei quali si è andato formando un complesso di norme relativamente uniformi, di applicazione universale (tra i quali ambiente, lavoro, diritti umani, tutela della salute, sicurezza, ecc. n.d.r.), potrebbe continuare. La crescita del commercio mondiale, infatti, impone “standards” comuni a tutti in materia di conformazione dei prodotti, protezione dei consumatori, responsabilità dei produttori; e l’impossibilità di porre sotto controllo, nell’ambito di ciascuna Nazione, fenomeni come le crisi finanziarie, il riscald amento dell’atmosfere, l’uso degli oceani e dei fondali marini, le specie ittiche migratorie, richiede che questi beni pubblici universali vengano tutelati in sede globale”, ibidem, pp. 28-29.
(11) “Per più di un decennio, gli americani e gli occidentali hanno consumato beni e servizi prodotti all’estero indebitandosi e così facendo hanno messo a repentaglio il loro lavoro, il reddito e l’abilità di ripagare i debiti. Il rapporto tra debito e reddito, debito e ricchezza, è ormai ingestibile e questo vale per le banche e per la popolazione in generale” L. Napoleoni, La morsa, Milano, 2009, p. 168.
(12) La movimentazione dei container si desume anche dai costi di noleggio delle navi dei principali porti, distinguendo tra gli scali di stazionamento e quelli di transhipment (es. Gioia Tauro, Cagliari e Taranto), anche se sui prezzi la concorrenza dei porti mediterranei ha il suo peso. Anche il dato dei teu (unità di misura pari ad un container di 20 piedi) segnala la movimentazione e la tendenza di periodo, cosiccome i futures sui noli. Il porto di transhipment è il punto in cui le navi oceaniche (cc.dd. “navi madre”) trasferiscono i contenitori su navi più piccole (cc.dd. feeder) per servire altri porti (chiamati anche “hub”) che non generano “traffici” (ossia punti di O/D delle merci trasportate), ma che costituiscono una mo dalità organizzativa delle società di navigazione finalizzata all’ottimizzazione degli itinerari.
(13) Sulle recentissime misure cosiddette “antimafia” (legge 13 agosto 2010, n.136) si rinvia allo scritto di A. Pierobon, in corso di rimaneggiamento, La Legge 13 agosto 2010, n. 136 “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al governo in materia di normativa antimafia”. Prime notazioni generali di insieme (sulla contrattualistica pubblica) e, in particolare, l’inserimento del reato di traffico illecito di rifiuti (dell’art. 260 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 ss.mm.). Rinvio.
(14) Sono state le informazioni che, storicamente, hanno consentito la crescita produttiva e tecnologica dei paesi emergenti: da prima il commercio (intraindustriale) internazionale si muoveva dal Nord al Sud, successivamente si è assistito ad un processo di convergenza (per esempio dalla Cina) verso il Nord, in particolare verso i Paesi “occidentali” e gli USA.
(15) Ossia quella diversificazione, anche tra gli Stati, della disciplina dell’autonomia contrattuale, al fine di consentire la partecipazione dei singoli al traffico giuridico internazionale, si veda F. Marella, in F. Galgano-F. Marella, Diritto e prassi del commercio internazionale, Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, volume 54, Padova, 2010, p. 332.
(16) In ogni caso devesi valutare gli indizi in concreto, complessivamente e bilanciando tutti gli indici di collegamento, si tratta cioè di constatare indizi chiari, precisi e concordanti delle clausole contrattuali, financo  di quelle non scritte: cfr. F. Marella, op. cit., p. 360.
(17) In effetti, la traduzione “è un percorso culturale, una aspirazione”. Il contract inglese non è il contratto del diritto italiano, il concetto di property non coincide col nostro diritto di proprietà (ricoprendo una più vasta area, corrispondendo piuttosto al concetto di patrimonio). Anche lo stile delle leggi è diverso tra i diversi ordinamenti, perfino nei tecnicismi. Insomma, ed in buona sintesi: cade la (ingenua) nozione della letteralità, mentre la vaghezza, l’indeterminatezza (o indefinitezza) non equivalgono alla polisemia, ma vengono recuperate, nel loro significato, dal contesto d’uso, nei loro diversi confini, donde una vera e propria “apertura” della struttura della norma, nonché  (almeno allo attuale) l’importanza dell’approccio funzionale. Cfr. Aa.Vv., Tradurre il diritto. Nozioni di diritto e di linguistica giuridica, Padova, 2009 (in particolare le pap. 63, 141, 155, 172, 174); F. De Franchis, Dizionario giuridico, vol. 1 inglese-italiano, Milano, 1984 e vol. 2.italiano-inglese, Milano, 1996; C. Luzzati, L’interprete e il legislatore. Saggio sulla certezza del diritto, Milano,1999; a cura di E. Ioratti Ferrari, Interpretazione e traduzione del diritto. Atti del convegno tenuto a Trento il 30.11.2007, Padova, 2008.
(18) In proposito, ex multis, si veda F. Galgano, La globalizzazione cit., e, dello stesso Autore, il fondamentale testo, Lex mercatoria, Bologna, 2001.
(19) Sincretico, cioè oltre queste settorialità.