Cass. Sez. III n. 16449 del 31 marzo 2017 (Ud 13 dic 2016)
Presidente: Fiale Estensore: Di Nicola Imputato: Manna ed altri
Urbanistica.Disciplina emergenziale ed abuso di ufficio

La normativa ennergenziale non rende legibus solutus chi deve fare fronte ad eventi così devastanti per la collettività e non affranca alcuno dal rispetto del principio di legalità, che anzi deve maggiormente e soprattutto in questi casi, così dirompenti e distruttivi per la vita delle popolazioni colpite, costituire l'essenza dell'attività amministrativa, secondo il paradigma costituzionale declinato dall'articolo 97 della Costituzione, in maniera da evitare che tali disastri si risolvano in favoritismi assicurati a soggetti che alcun danno dal sisma abbiano subito e che, approfittando invece della situazione emergenziale, mirino ad ottenere illeciti benefici a loro preclusi nelle situazioni ordinarie.
in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa



RITENUTO IN FATTO

1. Nicola Menna, Lucio Ciammitti, Ambra De Bernardinis, Patrizio Pendola e Vincenzo Galeota ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la corte di appello dell'Aquila, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale, ha rideterminato la pena, in mesi quattro di reclusione quanto al Menna ed al Ciammitti e di mesi quattro di arresto ed euro 10.000 di ammenda, quanto alla De Bernardinis, al Pendola ed al Galeota, confermando nel resto l'impugnata sentenza.
A Nicola Menna e a Lucio Ciammitti è stato contestato il reato previsto dagli articoli 110 e 323 del codice penale perché, agendo in concorso tra loro, il primo nella qualità di sindaco del Comune di Poggio Picenze ed il secondo nella qualità di tecnico incaricato della istruttoria della pratica e predisposizione degli atti necessari, in violazione degli articoli 11 e 12 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, emettendo in favore di Ambra De Bernardinis e Patrizio Pendola l'ordinanza di autorizzazione n. 10 alla realizzazione di alloggio abitativo antisismico temporaneo, intenzionalmente procuravano agli stessi un ingiusto vantaggio patrimoniale consistito nella possibilità di realizzare l'opera edilizia, di cui alla successiva imputazione, in violazione degli strumenti urbanistici locali. In particolare, la violazione di legge si concretava per effetto dell'avvenuto rilascio del titolo edilizio a soggetti non aventi titolo per richiederlo, in quanto non proprietari del terreno censito al foglio 6, particella 1723 del nuovo catasto dei terreni del Comune di Poggio Picenze, assentendo un intervento edilizio in area avente destinazione urbanistica agricola, ed infine ravvisando l'inesistente ricorrenza di una situazione di emergenza sismica ed abitativa non sussistente nel caso specifico poiché i richiedenti, alla data del terremoto ed a quella del rilascio del titolo edilizio, risiedevano entrambi in abitazioni già dichiarate inagibili e facevano parte del nucleo familiare delle rispettive famiglie di origine.
Ad Ambra De Bernardinis e Patrizio Pendola nonché a Vincenzo Galeota è stato contestato il reato previsto dall'articolo 44, comma 1, lettera b), del d.p.r. 380 del 2001 per aver realizzato, i primi due quali proprietari committenti ed il terzo quale direttore dei lavori, in assenza del permesso di costruire e di qualsiasi titolo edilizio, attesa l'inesistenza dell'ordinanza di autorizzazione n. 10 del 19 maggio 2010, in quanto rilasciata per effetto della condotta di cui alla precedente imputazione ed in ogni caso anche in difformità da quest'ultimo provvedimento, su area censita al foglio 6 della particella 1723 del nuovo catasto dei terreni del Comune di Poggio Picenze, avente destinazione urbanistica agricola, opere edilizie consistenti nella realizzazione di una struttura in cemento armato, realizzato in opera, con fondazioni costituite da graticcio di travi rovesce e struttura in elevazione del tipo intelaiato a travi e pilastri legate strutturalmente alla fondazione in modo stabile e duraturo. La difformità dell'opera realizzata rispetto a quella illegittimamente assentita si ravvisavano nella tipologia delle strutture dei materiali utilizzati, in quanto gli elaborati progettuali depositati presso il Comune prevedevano un manufatto costruito da fondazione in platea di cemento armato con sovrastante struttura portante in muratura tipo poroton, solaio intermedio in travetti in cemento armato prefabbricato e copertura con travi e tavole in legno e non prevedevano la realizzazione di strutture in cemento armato.

2. Per l'annullamento dell'impugnata sentenza i ricorrenti sollevano i seguenti motivi di impugnazione, qui enunciati ai sensi dell'articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
De Bernardinis e Pendola denunciano:
1) inosservanza o l'erronea applicazione la legge penale in relazione all'articolo 44 lettera b) d.p.r. 380 del 2001, sul rilievo che il Comune di Poggio Picenze aveva ritenuto, così come altre amministrazioni, di far fronte ad una situazione emergenziale senza munirsi di specifica regolamentazione ma valutando caso per caso le richieste dei singoli cittadini.
Accolta la richiesta in tal senso formulata dai ricorrenti, questi avevano pertanto agito e costruito sulla base di un legittimo ed esistente provvedimento di autorizzazione, conseguendo da ciò l'insussistenza del reato contestato.
Vincenzo Galeotta lamenta:
1) erronea applicazione della legge penale di cui agli articoli 29 e 44, lettera b), d.p.r. 380 del 2001 e violazione dell'articolo 521 del codice di procedura penale, sul rilievo che il ricorrente è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di abuso edilizio a titolo personale e nella sua qualità di direttore dei lavori del reato mentre è stato condannato a titolo di concorso con i coimputati in difetto di qualsiasi contestazione in proposito e quindi in violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza;
2) vizio di motivazione per la manifesta illogicità dell'apparato argomentativo avendo la corte territoriale utilizzato argomenti tra di loro inconciliabili sul rilievo che il ricorrente è stato chiamato in giudizio a rispondere quale direttore dei lavori della conformità delle opere alle previsioni del titolo edificatorio ma è stato condannato per la macroscopica illegittimità del titolo medesimo per essere stato ritenuto necessariamente consapevole della mancanza di presupposti per il rilascio dell'autorizzazione.
Ciammitti si duole:
1) dell'inosservanza e dell'erronea applicazione dell'articolo 192 del codice di procedura penale nonché della manifesta illogicità della motivazione nella valutazione delle prove, avendo i giudici del merito fondato la penale responsabilità del ricorrente su una presunta, anzi inesistente, chiamata in correità operata dal sindaco Menna e sprovvista del supporto richiesto dall'articolo 192 del codice di procedura penale;
2) dell'inosservanza e dell'erronea applicazione dell'articolo 323 del codice penale: se anche fosse ammissibile che l'attività posta in essere dal sindaco avesse i requisiti previsti dalla norma che punisce l'abuso di ufficio, deve ritenersi assolutamente inesistente la prova del coinvolgimento del ricorrente il quale non era inserito nell'organigramma del Comune e dunque ai fini della punibilità del reato contestato doveva essere considerato come extraneus, cosicché egli poteva essere sanzionato solo in costanza di prove, del tutto inesistenti, che avessero consentito di ritenere che egli, estraneo all'amministrazione, fosse tuttavia colluso con il sindaco per fare ottenere un vantaggio patrimoniale agli imputati dell'abuso edilizio, vantaggio consistito nel rilascio di un titolo valido all'edificazione di un immobile abusivo.
Menna deduce:
1) l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale in relazione agli articoli 11-12 d.p.r. 380 del 2001, dell'articolo 1, comma 3, dell'ordinanza del presidente del Consiglio dei Ministri n. 3753 del 6 aprile 2009, dell'articolo 323 del codice penale, sul rilievo che la normativa emergenziale, adottata ai sensi e per gli effetti dell'articolo 3, comma 1, del decreto-legge 4 novembre 2002 n. 245, convertito con modificazioni dall'articolo 1 della legge 27 dicembre 2012 n. 286, mirava all'adozione di provvedimenti di urgenza in deroga alla normativa ordinaria e, quindi, era operante, per quanto attiene all'edificazione di manufatti temporanei, a prescindere dalle previsioni sia del testo unico dell'edilizia e sia delle previsioni urbanistiche esistenti nel territorio terremotato.
Sostiene il ricorrente come tale aspetto della vicenda sia stato evidentemente sottovalutato dalla corte territoriale che avrebbe erroneamente sostenuto che, pur a fronte dello stato di emergenza e dell'apposita normativa emergenziale, per la realizzazione di manufatti temporanei andasse, comunque, rispettata la normativa statale, in ogni caso inderogabile dal regolamento adottato dall'amministrazione comunale. Secondo il ricorrente, tali assunti, oltre ad essere illogici (non essendo pensabile che in un periodo emergenziale potessero essere rispettate le procedure ordinarie per il rilascio dei permessi di costruire o che si potessero limitare gli interventi di assistenza alle zone edificabili, così come previsti negli strumenti urbanistici) cozzerebbe contro il chiaro dettato della normativa speciale sopra richiamata;
2) l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale in relazione all'articolo 323 del codice penale in merito alla totale assenza dell'elemento oggettivo del reato, sul rilievo che il ricorrente emise le ordinanze incriminate solo dopo che il tecnico comunale gli aveva fatto presente che gli interventi richiesti erano subordinati alla detta normativa emergenziale e che la stessa lasciava la massima discrezionalità ai sindaci con un unico limite: assicurare effettivamente alla popolazione colpita dal sisma la necessaria assistenza e venire incontro alle loro necessità, con la conseguenza che, al più, il ricorrente venne tratto in inganno ed errò nell'applicare una norma emergenziale, l'unica da adottare in quei tempi calamitosi per fare fronte alle richieste di costruzione di manufatti temporanei antisismici, ma certamente nessuna violazione di legge ordinaria sarebbe a lui attribuibile;
3) l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale in relazione all'articolo 323 del codice penale in merito alla totale assenza dell'elemento soggettivo del reato, sul rilievo che nel caso in esame nel Comune di Poggio Picenze si pose il problema di consentire a persone rimaste scosse dal sisma e che a causa dell'esito di agibilità favorevole dei propri alloggi non avevano diritto ad assistenza di sorta e, in particolare, ai manufatti antisismici predisposti della Protezione civile, di realizzare o meno, a propria cura e spese, una struttura antisismica temporanea. Tale regola di giudizio era stata applicata anche nel caso di specie, con la conseguenza che, ricevute le assicurazioni tecniche necessarie, le ordinanze erano state emanate senza alcuna intenzionalità di favorire i beneficiari, dovendo pertanto ritenersi insussistente all'elemento soggettivo del reato;
4) l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto dell'applicazione della legge penale in relazione al d.p.r. 380 del 2001, articoli 11-12 e delle ordinanze presidente del Consiglio dei Ministri n. 3753 del 6 aprile 2009, sul rilievo che se anche vi fosse stato un errore nell'interpretazione e nell'applicazione delle previsioni delle ordinanze presidenziali, tale errore aveva senza dubbio il carattere della scusabilità in quanto scaturito dalla confusione e dall'incertezza nell'interpretazione della normativa emergenziale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili per le ragioni di seguito indicate.

2. Occorre precisare che, con accertamento di fatto logicamente ed adeguatamente motivato, insuscettibile pertanto di sindacato in sede di giudizio di legittimità, la corte di appello ha chiarito come la vicenda fosse relativa all'edificazione di un manufatto da parte di Ambra De Bernardinis e Patrizio Pendola, in seguito al rilascio da parte del sindaco del Comune di Poggio Picenze, Nicola Menna, dell'autorizzazione n. 10 del 2010.
L'immobile era destinato ad abitazione della coppia De Bernardinis - Pendola i quali, alla data del terremoto del 6 aprile 2009, vivevano nell'ambito dei rispettivi nuclei familiari.
La predetta autorizzazione era stata chiesta e rilasciata per la realizzazione di un manufatto con platea in cemento armato e struttura portante in poroton, solaio di piano prefabbricato e copertura con travi e tavole in legno a vista. Nei progetti allegati all'istanza, invece, era stata prevista una struttura portante con colonne in cemento armato. Inoltre, nell'istanza, era riportato, contrariamente al vero, che il terreno su cui sarebbe stato edificato l'immobile era di proprietà della coppia.
L'istanza di autorizzazione faceva riferimento alla "necessità di una dimora di emergenza, causa terremoto del 6 aprile 2009": la circostanza, secondo la conforme ricostruzione dei giudici del merito, era falsa in quanto entrambi i richiedenti, al momento del sisma, vivevano nell'ambito delle rispettive famiglie di origine in abitazioni che non avevano riportato danni, con la conseguenza che l'evento sismico non aveva avuto alcuna incidenza sulla necessità di edificare un nuovo immobile.
Inoltre, l'intervento edilizio era stato eseguito in area avente destinazione urbanistica agricola ed era stato realizzato un manufatto in cemento armato, che, dunque, non aveva carattere temporaneo, sicché è stata ritenuta sussistente la violazione urbanistica in ragione delle falsità e delle difformità evidenziate.

3. Sulla base delle accertate circostanze, è allora di tutta evidenza come la doglianza manifestata con il ricorso De Bernardinis - Pendola sia manifestamente infondata.
Essi hanno edificato, come sarà ancora più chiaro in seguito, sulla base di un provvedimento autorizzativo macroscopicamente illegittimo.
Come sottolineato dalla doppia conforme decisione dei giudici del merito, a fronte della normativa di emergenza dettata dalle esigenze poste dal sisma del 6 aprile 2009, il Comune di Poggio Picenze, diversamente da altri Comuni della zona, non aveva, infatti, emanato alcun regolamento che disciplinasse l'edificazione di immobili antisismici a carattere temporaneo necessari a sopperire alle carenze abitative determinatesi a causa del terremoto.
Questa circostanza non ha tuttavia reso legittima qualunque edificazione realizzata nella zona colpita: andava, dunque, rispettata la normativa statale, se ed in quanto non derogabile, posto che, per la realizzazione degli interventi d'emergenza di cui all'O.P.C.M. 6 aprile 2009, n. 3753 ("Primi interventi urgenti conseguenti agli eventi sismici che hanno colpito la provincia di l'Aquila ed altri comuni della regione Abruzzo il giorno 6 aprile 2009"), l'articolo 3 non conteneva alcuna deroga al testo unico dell'edilizia, deroga invece espressamente prevista per altre disposizioni normative (= "regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, articoli 216 e 217; regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, articoli 3, 5, 6, secondo comma, 7, 8, 9, 11, 13, 14, 15, 19, 20; regio decreto 23 maggio 1924, n. 827, articoli 37, 38, 39, 40, 41, 42 e 119; decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, art. 56; legge 18 dicembre 1973, n. 836, art. 8, comma 1, secondo periodo; decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, articoli 6, 7, 9, 10, 11,12, 15, 18, 19, 22-bis, 23 e 49; legge 7 agosto 1990, n. 241, articoli 7, 8, 9, 10, 10- bis, 11, 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, 16 e successive modifiche ed integrazioni; decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, articoli 6, 7, 9, 11, 53, 54, 55, 56, 57, 62, 63, 67, 68, 70, 71, 72, 75, 76, 77, 80, 81, 82, 83, 84, 88, 90, 91, 92, 93, 95, 96, 97, 98, 111, 112, 118, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 132,133, 141, 144, 145, 241 e 243; decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554 per le parti necessarie all'applicazione del decreto legislativo n. 163/2006; decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni ed integrazioni, articoli 7, 35, 36 e 53; leggi ed altre disposizioni regionali strettamente connesse agli interventi previsti dalla presente ordinanza").
Pertanto, i ricorrenti avrebbero potuto, e dovuto, chiedere, nel rispetto degli articoli 11 e 12 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, di edificare su un'area di loro proprietà o della quale avessero dimostrato di avere giuridicamente la disponibilità.
Invece, al momento della richiesta e del rilascio dell'autorizzazione n. 10 del 2010, l'area sulla quale è stato realizzato il manufatto non era intestata ai richiedenti, né essi avevano alcun titolo, che è intervenuto solo in seguito (in data 11 ottobre 2010).
Inoltre, la normativa adottata in via di urgenza (Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3753 del 6.9.2009) indicava quali finalità da perseguire quelle di "assicurare le necessarie ed urgenti iniziative volte a rimuovere le situazioni di pericolo e ad assicurare la indispensabile assistenza alle popolazioni colpite dagli eventi": presupposti degli interventi erano, dunque, l'esistenza di situazioni di pericolo e la necessità di assistenza alla popolazione colpita dal sisma.
Perciò, come ha correttamente ritenuto la corte del merito, l'edificazione indiscriminata di nuovi immobili da parte di chi abitava in edifici qualificati agibili e, soprattutto, con modifica delle situazioni familiari preesistenti non rientrava in tali deroghe.
Nel caso in esame, l'istanza era stata formulata nell'interesse non di uno dei nuclei familiari di Ambra De Bernardinis e Patrizio Pendola, ma della coppia di fidanzati che, approfittando delle deroghe previste, intendeva edificare ex novo un immobile ove stabilire la residenza del proprio nucleo familiare, ancora da creare. Infatti, non risultava che i componenti le rispettive famiglie di origine dei prevenuti avessero presentato istanze analoghe, cosi confermando che la richiesta non era dettata dalle conseguenze del terremoto, ma da un'esigenza del tutto personale e autonoma (quella di qualunque coppia di fidanzati che intende costituire un nuovo nucleo familiare): gli altri componenti i nuclei familiari De Bernardinis e Pendola avevano invece ritenuto di continuare ad occupare le rispettive abitazioni, senza avvertire situazioni di pericolo per la loro incolumità.
Come ha sottolineato la corte territoriale, i Comuni della zona che, diversamente dal Comune di Poggio Picenze, avevano inteso regolamentare l'attività edilizia, seppure connotata da criteri di eccezionalità, correttamente interpretando lo spirito della normativa, avevano imposto dei requisiti: la precedente stabile dimora in uno dei Comuni del "cratere" (evidentemente senza modifiche dello stato di famiglia), in un edificio dichiarato inagibile e la richiesta di realizzare un manufatto temporaneo.
Questa normativa non ha introdotto elementi di novità rispetto a quanto previsto dall'OPCM n. 3753 del 2009, né avrebbe potuto farlo, ma ha correttamente interpretato la ratio di tale normativa.
I ricorrenti quindi non avevano alcuno di tali requisiti: al momento del sisma non avevano stabile dimora, in qualità di conviventi, in uno dei Comuni colpiti dal sisma; non occupavano un immobile dichiarato inagibile; il progetto presentato prevedeva la realizzazione di un manufatto non temporaneo, in quanto costruito in cemento armato (secondo quanto riferito dal coimputato Nicola Menna, tutti gli immobili di cui alle altre autorizzazione rilasciate dal sindaco di Poggio Picenze si riferivano a casette in legno).
Da tutto ciò la corte distrettuale ha tratto il corretto convincimento che i ricorrenti avevano conseguito l'ingiusto profitto patrimoniale costituito dall'edificazione in zona agricola, su un'area della quale non avevano la formale disponibilità, di un immobile non provvisorio in cemento armato, in violazione della normativa vigente, quantomeno con riferimento alla mancanza del permesso di costruire (che avrebbe richiesto verifiche e oneri decisamente maggiori rispetto a quelli imposti con l'ordinanza n. 10 del 2010).
Infine, la difformità tra l'autorizzato e il realizzato e il mendacio sui presupposti escludevano, secondo la corte distrettuale, ogni dubbio in merito alla consapevolezza da parte degli imputati di realizzare un immobile non conforme alla normativa vigente. Anzi, proprio il riferimento, falso, alle necessità abitative, tanto avvertite nella zona nella fase immediatamente successiva al terremoto, e la falsità in merito alla proprietà del terreno dimostrano la consapevolezza della mancanza dei presupposti per poter realizzare l'immobile stesso.
Da ciò il logico argomento secondo il quale se i prevenuti avessero ritenuto di avere titolo, a fronte della situazione reale, ad edificare il manufatto su quel terreno, avrebbero riferito circostanze vere non incorrendo nelle falsità evidenziate.

4. E' inammissibile anche il ricorso proposto da Vincenzo Galeotta.
I motivi del ricorso, essendo tra loro strettamente connessi, possono essere congiuntamente esaminati.
Essi sono manifestamente infondati perché il ricorrente parte dall'erroneo presupposto dell'esistenza di un legittimo titolo autorizzativo, invece macroscopicamente illegittimo e quindi tamquam non esset in quanto palesemente contra ius, e perché omette di considerare che è stata realizzata, con il suo contributo, un'opera difforme da quella per la quale era stato chiesto ed ottenuto (illegittimamente) l'assenso.
Su entrambi i profili della ritenuta incriminazione, compiutamente espressi dal capo di imputazione, il ricorrente ha apprestato la propria difesa, sicché appare totalmente infondata la doglianza circa il difetto di correlazione tra accusa e sentenza.
I giudici del merito hanno poi sostanziato, in diritto, il rimprovero sulla violazione dell'art. 29 d.P.R. n. 380 del 2001 secondo il quale il direttore dei lavori risponde, unitamente al titolare del permesso di costruire, al committente e al costruttore, della conformità delle opere "alle previsioni (...) del permesso di costruire e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo".
Nel caso in esame, la corte di appello ha correttamente ritenuto che, in considerazione dell'eccezionalità della situazione creata dal sisma del 6 aprile 2009, l'atto autorizzatorio era costituito, non dal permesso di costruire, ma dall'autorizzazione n. 10 del 2010, con la conseguenza che a tale atto occorreva riferirsi per valutare la conformità delle opere che dovevano essere realizzate.
Siccome oggetto di autorizzazione, quantunque illegittima per le ragioni in precedenza evidenziate, era la "posa in opera a carattere temporaneo di un alloggio antisismico, da posizionare su piattaforma in c.a. per un periodo di 24 mesi prorogabile in ordine all'esigenza sismica in atto", l'opera era stata realizzata in maniera difforme dalle previste modalità costruttive (perché, a fronte della realizzazione di un "manufatto con platea in cemento armato e struttura portante in poroton, solaio di piano prefabbricato e copertura con travi e tavole in legno a vista", era stata realizzata una struttura portante con colonne in cemento armato), circostanza che, per l'effetto, rendeva il manufatto anche privo del requisito essenziale della temporaneità.
La difformità esisteva, come è stato accertato, rispetto a quanto riportato nella relazione tecnica allegata all'istanza presentata da Ambra De Bernardinis e Patrizio Pendola, relazione redatta dallo stesso tecnico Vincenzo Galeota, il quale, in considerazione della sua competenza professionale, era necessariamente consapevole della mancanza di presupposti (non fosse altro per essere gli istanti privi del titolo di proprietà e per avere l'area una vocazione agricola) per il rilascio dell'autorizzazione, macroscopicamente illegittima.
Peraltro, questa Corte ha affermato che, in tema di costruzioni edilizie abusive, il direttore dei lavori ha una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione dei lavori, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente soltanto ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in via obiettiva (nel caso in esame, ab initio), ovvero non appena avuta conoscenza che le direttive impartite erano state disattese o violate (Sez. 3, n. 34376 del 10/05/2005, Scimone, Rv. 232475) ma non risulta che il ricorrente abbia assunto una qualsiasi iniziativa in proposito.

5. Alla declaratoria di inammissibilità non si sottrae il ricorso del Ciamnnitti.
Entrambi i motivi di ricorso, essendo tra loro connessi, possono essere congiuntamente esaminati.
Essi sono manifestamente infondati in quanto le doglianze non tengono conto degli accertamenti di fatto compiuti dai giudici del merito e corredati da congrua motivazione priva di vizi di manifesta illogicità.
E' stato, infatti, accertato che il ricorrente era un ingegnere che aveva stipulato con il Comune di Poggio Picenze un contratto di consulenza, dovendosi sopperire alla scopertura del posto di tecnico comunale.
La corte di appello ha più volte ribadito, come si evince dal testo della sentenza impugnata, che, pur in assenza di un regolamento adottato in seguito all'emergenza dettata dai danni provocati dal sisma del 6 aprile 2009, l'edificazione non era svincolata da qualunque normativa, con la conseguenza che l'amministrazione comunale, attraverso i suoi organi interni o esterni ad essa ma comunque deputati a manifestare la volontà della pubblica amministrazione attraverso lo svolgimento del procedimento amministrativo, non potevano, con tutta evidenza, consentire il rilascio dell'autorizzazione a chiunque ne facesse richiesta, indipendentemente dalla residenza nel comune terremotato, dall'agibilità dell'immobile nel quale l'interessato abitasse prima del sisma, dall'esistenza di un proprio nucleo familiare da trasferire nel costruendo immobile e dalla proprietà e destinazione d'uso del terreno oggetto di edificazione.
Non era cioè assolutamente consentito a chiunque, anche persona residente in altro Comune o altra Regione, di edificare sul terreno altrui un immobile con qualunque caratteristica costruttiva (dimensioni e materiali).
La ratio di tali previsioni è stata correttamente desunta proprio sulla base dell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3753 del 6 aprile 2009, cosicché proprio la mancanza di un regolamento adottato nel rispetto di tale normativa di urgenza rendeva applicabile la normativa nazionale, salvo le deroghe esplicitamente previste, come già in precedenza evidenziato, nella predetta ordinanza.
Da ciò il logico convincimento espresso dalla corte distrettuale secondo il quale era, dunque, necessario verificare, quantomeno, che i richiedenti, in quanto conviventi, fossero già residenti nel Comune, avessero una reale esigenza abitativa, conseguente ai danni riportati dalla loro abitazione in seguito al terremoto, avessero la proprietà, o quantomeno la disponibilità formale, del terreno sul quale intendevano edificare e che il manufatto realizzando avesse, per tipologia costruttiva, il carattere della temporaneità.
L'istruttoria era, dunque, necessaria non conseguendo automaticamente al deposito dell'istanza il rilascio dell'autorizzazione: diversamente argomentando, non sarebbe stata necessaria alcuna autorizzazione e, in realtà, neanche un'istanza, visto che doveva ritenersi un'assoluta libertà di edificazione, anche in spregio della normativa vigente.
Queste considerazioni, già ovvie, sono state confermate, come si evince dal testo della sentenza impugnata, dalle dichiarazioni rese dal coimputato Nicola Menna e dal teste Luciano Masci, all'epoca dei fatti, vigile urbano presso il Comune di Poggio Picenze.
Quest'ultimo ha riferito che le istanze venivano trasmesse dall'ufficio protocollo all'ufficio tecnico, con il quale lui collaborava. Egli spesso inseriva in un fac-simile di autorizzazione i dati anagrafici dei richiedenti e restituiva quindi la pratica all'ufficio tecnico, in persona del ricorrente.
Il deposito dell'istanza attivava, quindi, l'avvio di una pratica che veniva istruita dall'ufficio tecnico, in quel momento costituito dal solo ricorrente, in considerazione della dimensione del Comune e della scopertura del posto in organico.
Nicola Menna ha poi riferito di aver ricevuto proprio dal Ciammitti la pratica relativa all'istanza presentata da Ambra De Bernardinis e Patrizio Pendola, sostenendo di aver firmato la relativa ordinanza così come predisposta proprio per la fiducia riposta nel ricorrente.
Ne consegue che la corte di appello non è incorsa in alcuna violazione di legge nella valutazione della prova, posto che non ha equiparato, in sostanza, la dichiarazione del coimputato in una formale chiamata in correità ma ha desunto la prova del coinvolgimento e del concorso di persone nel reato di abuso d'ufficio dall'evidente macroscopicità dell'illegittimità tanto del provvedimento autorizzativo, rilasciato dal sindaco, quanto della precedente attività istruttoria, affidata alla competenza del ricorrente, il quale avrebbe dovuto, con tutta evidenza, segnalare fermamente l'inesistenza del diritto fatto valere con l'istanza dagli interessati invece di realizzare una condotta ausiliatrice e prodromica all'emanazione dell'atto amministrativo finale contra ius, sfociato in una autorizzazione macroscopicamente illegittima.
Nel pervenire a tali conclusioni, la corte del merito si è attenuta al principio di diritto secondo il quale anche gli estranei al pubblico ufficio o al pubblico servizio possono concorrere nel reato di abuso d'ufficio, quando vi sia compartecipazione di questi all'attività criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio (Sez. 6, n. 2140 del 25/05/1995, Tontoli, Rv. 201841), in quanto per la configurabilità della responsabilità dell'extraneus per concorso nel reato proprio, è sufficiente, da un lato, la cooperazione materiale ovvero, come nel caso in esame, la determinazione o l'istigazione a commettere il reato, ed è indispensabile, dall'altro, che l'intraneo, esecutore materiale del delitto di abuso d'ufficio, sia riconosciuto responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto per la eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità (Sez. 6, n. 40303 del 08/07/2014, Zappia, Rv. 260465), condizioni entrambe nel caso di specie ampiamente sussistenti.
Tutto ciò a prescindere dalla considerazione, consentita al giudice di legittimità ai fini dell'affermazione del principio di diritto applicabile, che anche il ricorrente possedeva, limitatamente agli atti del procedimento dallo stesso compiuti, la qualifica giuridica soggettiva richiesta per la realizzazione del reato di abuso d'ufficio, posto che la fattispecie incriminatrice ex art. 323 cod. pen. può essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (Sez. 3, n. 43669 del 12/10/2011, Morrone, Rv. 251332), posto che per "atto di ufficio" si intende una vasta gamma di comportamenti umani, effettivamente o potenzialmente riconducibili all'incarico del pubblico ufficiale, e quindi non solo il compimento di atti di amministrazione attiva, la formulazione di richieste o di proposte, l'emissione di pareri, ma anche la tenuta di una condotta meramente materiale o il compimento di atti di diritto privato (sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006, Moschetti, RV 234991) e fermo restando che non si pone, sotto tale profilo, questione di correlazione tra l'imputazione e la sentenza, perché si ha mutamento del fatto quando la fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge subisca una radicale trasformazione nei suoi tratti essenziali, tanto da realizzare un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisce un reale pregiudizio dei diritti della difesa, con la conseguenza che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto letterale fra contestazione e sentenza, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione non sussiste se l'imputato, attraverso l'iter del processo, come si evince dal testo del provvedimento impugnato e dai motivi di impugnazione, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'accusa (Sez. 6, n. 36003 del 14/06/2004, Di Bartolo, Rv. 229756), visto che l'imputazione contiene sia il riferimento alla qualità personale (di tecnico incaricato), sia il riferimento alle funzioni svolte nella fase istruttoria della pratica e alla predisposizione degli atti necessari, sia l'indicazione delle norme di legge violate, violazione praticata tanto nella fase istruttoria quanto nell'emanazione dell'atto finale, e sia l'ulteriore requisito, richiesto dall'art. 323 cod. pen., dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale procurato ai terzi.

6. Anche i motivi di impugnazione sollevati da Nicola Menna sono inammissibili per manifesta infondatezza e, in larga parte, perché non consentiti.

6.1. Il primo motivo non ha alcun giuridico fondamento.
A sostegno di esso, il ricorrente denuncia la violazione dell'articolo 1, comma 3, dell'OPCM del 6 aprile 2009 secondo il quale: "Il Presidente della regione Abruzzo ed i sindaci dei comuni colpiti provvedono ad assicurare le necessarie ed urgenti iniziative volte a rimuovere le situazioni di pericolo e ad assicurare la indispensabile assistenza alle popolazioni colpite dagli eventi, altresì provvedendo, ove necessario, alla realizzazione di interventi urgenti ed indifferibili su beni pubblici al fine di assicurarne la funzionalità".
E' noto che la natura giuridica delle ordinanze emesse, come nella specie, ai sensi dell'art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 costituiscono fonte normativa primaria e possono essere emesse, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, in deroga alla normativa vigente, trattandosi di ordinanze "extra ordinem" che presuppongono necessariamente una situazione emergenziale e si riferiscono ad evenienze di carattere eccezionale, determinate da un fatto imprevisto, per fronteggiare il quale sarebbe impossibile utilizzare i normali mezzi predisposti dall'ordinamento.
La loro adozione, quindi, è giustificata e legittimata dal verificarsi di una situazione sopravvenuta che presenti inoltre il carattere dell'eccezionalità (per quanto riguarda il settore che qui interessa, a norma dell'art. 2, comma 1, lettera c), legge n. 225 del 1992, deve trattarsi di "calamità naturali o connesse con l'attività dell'uomo che in ragione della loro intensità ed estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo"), per cui si impone di provvedere con "urgenza", incompatibile con i tempi previsti per l'osservanza della normativa ordinaria in materia, e tuttavia proprio perché conseguono ad una situazione eccezionale, siffatte ordinanze devono essere temporanee, devono "contenere l'indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere motivate" (art. 5, comma 5, legge n. 225 del 1992).
Perciò la normativa ennergenziale non rende legibus solutus chi deve fare fronte ad eventi così devastanti per la collettività e non affranca alcuno dal rispetto del principio di legalità, che anzi deve maggiormente e soprattutto in questi casi, così dirompenti e distruttivi per la vita delle popolazioni colpite, costituire l'essenza dell'attività amministrativa, secondo il paradigma costituzionale declinato dall'articolo 97 della Costituzione, in maniera da evitare che tali disastri si risolvano in favoritismi assicurati a soggetti che alcun danno dal sisma abbiano subito e che, approfittando invece della situazione emergenziale, mirino ad ottenere illeciti benefici a loro preclusi nelle situazioni ordinarie.
Ne consegue che l'articolo 1, comma 3, dell'OPCM 9 aprile 2009 va letto in combinato disposto con l'articolo 3, comma 1, della stessa ordinanza in forza del quale sono tassativamente indicate le disposizioni normative derogate "per la realizzazione degli interventi d'emergenza di cui alla presente ordinanza (...)".
Né le successive ordinanze consentivano di derogare alle disposizioni di cui al d.P.R. n. 380 del 2001 (articoli 11 e 12), essendo evidente che l'attribuzione di benefici anche in materia edilizia ed urbanistica competevano a coloro che, risiedendo in un comune terremotato, avessero subito un danno dal sisma e non a coloro che tale danno non avevano in alcun modo sopportato.

6.2. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso Menna, che possono essere congiuntamente trattati in quanto tra loro strettamente collegati, sono manifestamente infondati e, in larga misura, non consentiti perché con essi il ricorrente svolge censure di merito precluse nel giudizio di legittimità al cospetto di un apparato argomentativo che ha pienamente rispettato i principi di adeguatezza e logicità della motivazione.
La corte di appello ha spiegato come la tesi difensiva (essersi cioè il sindaco fidato di quanto aveva predisposto l'ufficio tecnico, ossia il coimputato Ciamnnitti, firmando l'autorizzazione da questi predisposta) fosse del tutto improponibile atteso che il sindaco non poteva limitarsi a sottoscrivere atti formati da terzi, senza assicurarsi della loro legittimità e anzi in presenza di macroscopiche illegittimità, come già in precedenza evidenziate.
Inoltre, la stessa Ambra De Bernardinis aveva riferito di aver parlato della vicenda con il sindaco, esponendogli la situazione e chiedendogli se fosse possibile realizzare l'immobile, ricevendo risposta affermativa; aveva anche esposto che i richiedenti all'epoca non convivevano, abitando ciascuno presso il proprio nucleo familiare e la circostanza non è risultata smentita neanche in seguito al confronto disposto sul punto tra i due imputati.
Tant'è che il ricorrente, dimostrando di conoscere la problematica, le aveva riferito che, non avendo adottato il Comune alcun regolamento e, quindi, previsto alcuna limitazione, fosse possibile realizzare l'abitazione. Inoltre, il Menna, come riferito nell'interrogatorio dallo stesso reso, era consapevole che l'autorizzazione veniva rilasciata in favore di due persone, situazione eccezionale, in quanto le altre pratiche analoghe riguardavano un solo richiedente.
Pertanto, egli era perfettamente consapevole di firmare un'autorizzazione che non rispettava alcuna normativa, in carenza dei presupposti previsti dalla legge ordinaria nazionale e non derogata da alcuna norma speciale.
Alla stregua di ciò, emerge la manifesta sussistenza tanto dell'elemento oggettivo del reato di abuso d'ufficio, quanto dell'elemento soggettivo di esso e deve, con tutta evidenza, escludersi l'ipotesi di un errore nell'interpretazione e nell'applicazione delle previsioni delle ordinanze o la scusabilità del comportamento del ricorrente, in considerazione della confusione e dell'incertezza nell'interpretazione della normativa emergenziale.
In presenza perciò di una conclamata illegittimità oggettiva, più volte rimarcata, deve piuttosto essere ribadito il principio secondo il quale, in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233).
Il fatto che il ricorrente emise le ordinanze incriminate solo dopo che il tecnico comunale gli aveva fatto presente che gli interventi richiesti erano subordinati alla detta normativa emergenziale e che la stessa lasciava la massima discrezionalità ai sindaci con l'unico limite di assicurare la necessaria assistenza alle popolazione colpite, il fatto che, nel caso in esame, si pose il problema di consentire a persone (non danneggiate ma) rimaste scosse dal sisma e che non avevano diritto ad assistenza di sorta di realizzare, a propria cura e spese, una struttura antisismica temporanea (nel caso in esame, si ricorda che invece la soluzione abitativa procurata non era affatto temporanea, anche se tale rilievo va mosso esclusivamente nei confronti degli istanti e del direttore dei lavori) ed il fatto il ricorrente sia incorso in errore nell'interpretazione e nell'applicazione delle previsioni delle ordinanze si risolvono solo apparentemente in rilievi giuridici (comunque, come si è detto, manifestamente infondati) ma in veri e propri rilievi fattuali che propongono una diversa lettura del materiale probatorio, opzione non consentita nel giudizio di legittimità in quanto il vizio di motivazione, che risulti dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati, in tanto sussiste se ed in quanto si dimostri che il testo del provvedimento sia manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non invece quando si opponga alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621).
Infatti, come più volte affermato dalla Corte, l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato al giudice di legittimità essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, esulando dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone ed altri, Rv. 207944), con la specificazione che l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché le ragioni del convincimento siano spiegate in modo logico e adeguato (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
Ne consegue la manifesta infondatezza dei motivi e la loro portata tipicamente fattuale che, involgendo questioni di merito adeguatamente e logicamente trattate dalla sentenza impugnata, si sottraggono al sindacato di legittimità.

7. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i  ricorsi siano stati presentati senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso il 13/12/2016