Cass. Sez. III n. 27918 del 25 giugno 2019 (CC  4 apr 2019)
Pres.Lapalorcia  Est. Di Nicola Ric. Postiglione
Urbanistica. Potere - dovere di ordinare la demolizione dell’opera abusiva

La natura amministrativa dell’ordine di demolizione non consente di ritenere che il relativo potere possa essere considerato quale potestà residuale ovvero sostitutiva rispetto a quella sanzionatoria del sindaco, non ponendo le disposizioni urbanistiche alcuna regola di condizionamento o di residualità del potere attribuito al giudice, né uno stretto coordinamento fra istanza amministrativa ed istanza giurisdizionale sotto il profilo procedimentale, con la conseguenza che il potere - dovere di ordinare la demolizione dell’opera abusiva deve essere ricompreso in quel complessivo meccanismo di deterrenza - ad un tempo amministrativo e penale – che la legge ha predisposto nel caso di realizzazione del reato urbanistico.

RITENUTO IN FATTO

1. Alessandro Postiglione ricorre per cassazione impugnando l’ordinanza con la quale il tribunale di Napoli ha rigettato l’istanza da lui presentata, in qualità di figlio del defunto Giovanni Postiglione, tendente alla revoca o all’annullamento dell’ordine di demolizione delle opere abusivamente realizzate in Napoli alla Via Pia, n. 57, emesso dal PM di Napoli, RESA n. 569/07.

2. Il ricorso è articolato sulla base di due motivi, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale nonché il vizio di motivazione in relazione agli articoli 665 del codice di procedura penale, 31 e 44, comma 1, lettera b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale).
Sostiene di aver eccepito, in sede di incidente di esecuzione, la nullità dell’ingiunzione a demolire per carenza di potere ad opera della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, sulla base della circolare ministeriale del 20 novembre 1997, e di un parere reso dalla Procura Generale presso la Corte di appello di Napoli, dai quali si desumeva che per le procedure cd. RESA, relative alla esecuzione di ordini di demolizione per procedimenti anteriori alla sentenza delle Sezioni Unite del 1996, la competenza alla esecuzione della demolizione era sottratta alla Procura e rimaneva di competenza esclusiva della P.A.
Il Giudice dell’esecuzione ha ritenuto infondata tale doglianza affermando che le disposizioni contenute in una circolare ministeriale rilevino solo ai fini disciplinari per il Pubblico Ministero che se ne discosta, senza considerare che l’incidente di esecuzione è l'unico mezzo di tutela fornito all’indagato per far valere le proprie doglianze avverso l'illegittimità di un atto posto in essere dalla Procura della Repubblica in fase esecutiva.
Del resto, la stessa Procura Generale aveva evidenziato la carenza di potere nel procedere in via autonoma alla demolizione, affermando che, fino alla data del 28 novembre 1997, le procedure esecutive penali dovessero ritenersi esaurite in ossequio alla disciplina vigente.
Osserva il ricorrente che le norme processuali, anche se fonti di secondo grado quali le circolari ministeriali, sono soggette al principio del “tempus regit actum”, e pertanto la Procura non poteva arrogarsi un potere che non aveva in ossequio alla disciplina vigente al momento del fatto, con la conseguenza che il giudice dell’esecuzione deve porre rimedio rispetto alle procedure azionate in violazione di una norma anche se di fonte secondaria, dichiarando la nullità dell’ingiunzione a demolire emessa.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale in relazione agli articoli 31 e 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001 (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale).
Osserva che il potere di emettere l’ingiunzione a demolire da parte della Procura era, in adesione ai principi di prescrizione delle pene accessorie, estinto per intervenuto decorso del tempo necessario a prescrivere.
Sostiene che, in aderenza alle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, l’ordine di demolizione emesso nell’ambito dei giudizi in sede penale deve essere assoggettato alla disciplina penalistica in senso stretto e che pertanto ad esso vada applicato l’articolo 173 del codice penale.
Ciò ancor di più nel caso in esame, nel quale il soggetto autore del reato era deceduto e pertanto la demolizione doveva essere eseguita in danno di soggetti incolpevoli che non avevano riportato alcuna condanna, ma che subivano il danno dell’operato altrui, danno di certo rilavante in considerazione della natura della demolizione.
A fondamento della sussistenza della prescrizione, il ricorrente, invocando i criteri enunciati dalla giurisprudenza europea, evidenzia la necessità di una corretta qualificazione giuridica dell’ordine di demolizione emesso dal Giudice in sede penale, quale sanzione accessoria di natura sostanzialmente penale, non amministrativa, e, come tale, soggetto quindi alla disciplina della prescrizione prevista dal codice penale.

3. Il Procuratore generale, che ha accennato a una ipotesi di conversione dell’impugnazione per essere stata la pronuncia emessa de plano dal giudice dell’esecuzione, ha poi concluso per l’inammissibilità del ricorso, sottolineando, in via preliminare, come, nel caso di specie, difetti, in capo al difensore, il potere di proporre impugnazione, in nome e per conto del terzo interessato, in assenza di apposita procura speciale.
Assume che questo principio si fonda sul contenuto essenzialmente patrimoniale e civilistico della pretesa esercitata dal terzo estraneo e tale principio, sebbene elaborato in materia di misure di prevenzione patrimoniali e di confisca c.d. allargata, ben può essere richiamato in sede di esecuzione penale, per identità di ratio.
 Inoltre, il Procuratore generale osserva che il semplice status di “figlio” del condannato - unica qualità che risulta dedotta dal ricorrente a sostegno della domanda rivolta al giudice dell’esecuzione - non è titolo sufficiente per giustificare l’esistenza di un interesse ad opporsi alla disposta demolizione; interesse nemmeno accennato nel provvedimento impugnato nonché nel ricorso, discendendo da ciò l’ulteriore profilo di inammissibilità per carenza (rectius, per mancata allegazione) dell’interesse ad agire.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Esaminando, per prime, le eccezioni sollevate dal Procuratore Generale, in quanto pregiudiziali rispetto all’esame di merito del ricorso, osserva la Corte come le stesse non siano fondate.
2.1. Premesso che la decisione è stata emessa in camera di consiglio previo regolare avviso notificato alle parti, osserva il Collegio che, quanto al difetto di legittimazione all’impugnazione da parte del difensore per mancanza di apposita procura speciale, va innanzitutto segnalato come non sia applicabile al procedimento di esecuzione il principio, affermato in materia di procedimento di misure di prevenzione e di impugnazione delle ordinanze emesse in sede di riesame dei provvedimenti cautelari reali, secondo il quale è inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal difensore del terzo interessato non munito di procura speciale, art. 100, cod. proc. pen. (ex multis, in tema di riesame reale, Sez.  3, n. 29858 del 01/12/2017, dep. 2018, Fazzari, Rv. 273505; ex multis, in tema di misure di prevenzione, Sez.  U, n. 47239 del 30/10/2014, Borrelli, Rv. 260894; Sez.  5, n. 12220 del 12/12/2013, dep. 2014, Siccone, Rv. 259861).
I suddetti principi non sono applicabili nel processo di esecuzione, neppure sulla base dell’eadem ratio, perché il difensore è legittimato, nel procedimento di esecuzione, a proporre il ricorso per cassazione iure proprio, sulla base di una specifica disposizione, posto che l’articolo 666, comma 6, del codice di procedura penale stabilisce che l’ordinanza, con la quale è deciso il procedimento di esecuzione, è notificata alle parti e ai difensori, che possono proporre ricorso per cassazione.
La disposizione, dunque, differisce da quella che regolava il diritto di impugnazione delle misure di prevenzione e differisce da quella che disciplina il diritto di impugnazione nel procedimento di riesame dei provvedimenti cautelari reali.  
Infatti, nelle misure di prevenzione, era stabilito (al terzo comma dell’articolo 10 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159) che il ricorso in cassazione per violazione di legge poteva essere proposto da parte del pubblico ministero e dell’interessato (non anche del difensore), disposizione tuttavia successivamente modificata dall’articolo 3, comma 1, lettera d), L. 17 ottobre 2017, n. 161 che ha novellato il comma 3 dell’articolo 10 stabilendo, per quanto qui interessa, che, avverso il decreto della Corte d’appello, è ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge, da parte del pubblico ministero e dell’interessato e del suo difensore, entro dieci giorni.
A sua volta, l’articolo 325, comma 1, del codice di procedura penale legittima alla proposizione del ricorso per cassazione il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione.
Ne consegue che, in tali casi, il difensore, per proporre il ricorso per cassazione, doveva (nel procedimento di prevenzione) o deve (nelle impugnazioni cautelari reali) essere munito di procura speciale sul presupposto che, in linea di principio, il relativo potere era (nel procedimento di prevenzione) o è attribuito (nelle impugnazioni cautelari reali) non al difensore, in quanto tale, ma espressamente ed esclusivamente a determinati soggetti (nel procedimento di prevenzione) o a determinati soggetti ovvero anche al difensore sempreché, in quest’ultimo caso, assista l’indagato o l’imputato (nel procedimento di riesame) e, dunque, non anche al difensore del terzo interessato.
Deve pertanto ritenersi che, siccome, alla luce dell’articolo 666, comma 6, del codice di procedura penale, vi è piena coincidenza tra i destinatari della notificazione dell’ordinanza emessa in sede di procedimento di esecuzione ed i soggetti legittimati a proporre impugnazione contro il provvedimento che definisce l’incidente, il difensore dell’interessato, essendo compreso tra i primi, può proporre ricorso per cassazione avverso detta ordinanza, senza necessità che, a tal fine, sia munito di procura speciale.
2.2. Quanto poi all’eccezione circa il prospettato difetto di interesse, non può dirsi che la condizione dell’azione manchi da parte dell’erede che abbia chiesto al giudice dell’esecuzione la revoca dell’ordine di ingiunzione alla demolizione di un immobile abusivamente realizzato dal de cuius, salvo emergenze contrarie, non sussistenti e neppure nel caso di specie evocate (il decesso di Giovanni Postiglione emerge ex actis), dalle quali risultino che il chiamato non abbia accettato l’eredità o che vi siano altri e diversi aventi causa del condannato, atteso che l’ordine di demolizione del manufatto abusivo conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico dell’avente causa del condannato alla conservazione del manufatto.
Ne consegue che, nel caso di azione proposta da un soggetto che, come nella specie, si qualifichi erede del “de cuius” in virtù di un determinato rapporto parentale o di coniugio, l’allegata relazione familiare e, dunque, la qualità di soggetto che deve ritenersi chiamato all’eredità, non anche la qualità di erede, posto che essa deriva dall’accettazione espressa o tacita, è idonea, soprattutto se, come nel caso in esame, non contestata, a fondare una presunzione relativa dell’intervenuta accettazione tacita dell’eredità, atteso che l’instaurazione di un incidente di esecuzione diretto ad evitare la demolizione e quindi la perdita del bene da parte di un soggetto – che si deve considerare chiamato all’eredità, e che si proclami erede – va considerato come atto espressivo di siffatta accettazione e, quindi, idoneo a considerare dimostrata “iuris tantum” la qualità di erede, con conseguente interesse ad agire per la conservazione di un bene della vita ritenuto pregiudicato da un ordine di demolizione considerato illegittimo.

3. Ciò posto, i motivi di ricorso sono infondati sulla base delle seguenti ragioni.
3.1. Quanto al primo motivo, con il quale, in sostanza, si eccepisce una carenza di potere del giudice penale (difetto di giurisdizione) sulla base di una circolare che, per gli abusi edilizi commessi prima del 28 novembre 1997, attribuirebbe il potere di demolire all’autorità amministrativa e non a quella giudiziaria, con conseguente impossibilità per il pubblico ministero di porre in esecuzione il relativo provvedimento per mancato compimento dello speciale procedimento amministrativo di spettanza del Comune,  osserva la Corte come le Sezioni Unite penali, senza distinzioni o vincoli temporali, abbiano affermato che l’ordine di demolizione adottato dal giudice ai sensi dell’articolo 7 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, al pari delle altre statuizioni contenute nella sentenza definitiva, è soggetto all’esecuzione nelle forme previste da codice di procedura penale, avendo natura di provvedimento giurisdizionale, ancorché applicativo di sanzione amministrativa, precisando che, ai sensi dell’articolo 655 del codice di procedura penale l’organo promotore dell’esecuzione è il pubblico ministero il quale, ove il condannato non ottemperi all’ingiunzione a demolire, è tenuto ad investire, per la fissazione delle modalità di esecuzione, il giudice dell’esecuzione, la cui cancelleria è preposta, inoltre, al recupero delle spese del procedimento esecutivo ai sensi dell’articolo 181 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale (Sez.  U, n. 15 del 19/06/1996, Monterisi, Rv. 205336).
Con tale arresto le Sezioni Unite hanno risolto la questione, all’epoca controversa, se all’ordine di demolizione di un manufatto costruito in assenza di concessione edilizia - ordine emesso con la sentenza di condanna divenuta esecutiva - fosse applicabile la normativa del codice di rito in materia di esecuzione di provvedimenti giurisdizionali, e quindi se la relativa esecuzione dovesse essere curata dagli organi da tale normativa indicati.
Le Sezioni Unite ritennero aderente al vigente sistema normativo l’orientamento giurisprudenziale che riconosceva la natura di provvedimento giurisdizionale all’ordine di demolizione, con la conseguenza che la relativa esecuzione doveva ritenersi demandata al pubblico ministero ed al giudice dell’esecuzione, secondo i rispettivi ruoli (artt. 655 ss. e 666 ss. del codice di procedura penale).
 Nel pervenire alla suddetta conclusione, le sezioni Unite operarono un sintetico richiamo al quadro normativo introdotto in materia sanzionatoria dalla legge n. 47 del 1985, le cui disposizioni, nella parte che qui rileva, sono successivamente confluite nel testo unico n. 380 del 2001, legge del 1985 che, per la prima volta, in materia urbanistica, aveva conferito al giudice penale il potere di adottare provvedimenti di reintegrazione specifica dell’interesse tutelato.
 Si osservò come il suddetto potere, conferito al giudice, non fosse omologabile ai poteri di governo del territorio e di controllo delle trasformazioni urbanistiche di spettanza delle Regioni, delle province e dei comuni (art. 117 Cost., artt. 79 ss. D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, artt. 14 e 15 L. 8 giugno 1990 n. 142), derivando da ciò che il giudice penale aveva solo il potere di ordinare misure a tutela di un interesse correlato a quello di giustizia, a ristoro cioè dell’offesa al territorio, e quindi di impartire un ordine accessivo alla condanna principale.
 In tale ottica, la sentenza Monterisi, allineandosi ad un precedente arresto delle stesse Sezioni Unite, osservarono, quanto alla natura dell’interesse sotteso alla normativa penale urbanistica, che “ (...)  se l’urbanistica disciplina l’attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, lo stesso territorio costituisce il bene oggetto della relativa tutela (penale), bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività, ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente” (Sez.  U, n. 11635 del 12/11/1993, Borgia, Rv. 195359).
Da ciò il convincimento, palesemente espresso nella sentenza Monterisi, che l’urbanistica non esprime più nell’ordinamento un interesse di buona amministrazione e di disciplina, tanto è vero che il territorio non solo non viene più considerato come supporto inerte del processo edificatorio, ma risorsa economica inserita a pieno titolo nella programmazione finanziaria sia pure per il suo recupero e valorizzazione rispetto a fenomeni di illegalità, giungendosi, per questa via, al definitivo superamento della visione di un giudice supplente dell’amministrazione pubblica e quindi di garante del rispetto delle regole edilizie da parte dei privati: ruolo che costituiva la premessa necessaria al temuto rischio di interferenze nella sfera amministrativa.
 Secondo le Sezioni Unite, la suddetta concezione sostanzialistica, specifica del bene tutelato, costituiva, dunque, il presupposto stesso dell’attribuzione al giudice penale del potere di disporre provvedimenti ripristinatori, cioè di tutela specifica, che trovavano il parametro di applicabilità proprio nel perdurare della situazione valutata come offensiva dell’interesse tutelato dalla norma penale.
Tali provvedimenti perciò <<rispondono, nell’applicazione, ad un criterio di “effettualità” di ristoro, sotto un duplice profilo: poiché il ristoro “comunque” avvenuto dell’interesse offeso fa venir meno la ragione dell’applicazione dei provvedimenti medesimi (ripristino anche volontario da parte dell’interessato); in quanto la funzione, le modalità di applicazione e di esecuzione del provvedimento ripristinatorio devono trovare esatta corrispondenza nella situazione lesiva da rimuovere>> (Sez.  U, n. 15 del 19/06/1996, cit., in motivazione).
Condivisa la definizione di sanzione amministrativa dell’ordine di demolizione disposto dal giudice penale (Sez. U, n. 1 del 10/10/1987, Bruni, Rv. 177318) e chiarito che trattasi di potere che non è affidato al giudice penale per il soddisfacimento di fini della pubblica amministrazione, le Sezioni Unite  precisarono come la sanzione amministrativa applicata dal giudice ordinario non fosse, di regola, catalogabile per effetti e risultati fra i poteri della pubblica amministrazione, trattandosi di affidamento al giudice di poteri che esulano dalle categorie ordinarie e che restano caratterizzati dalla natura giurisdizionale dell’organo istituzionale al quale il relativo esercizio è attribuito.
Ne deriva che la natura amministrativa dell’ordine di demolizione non consente di ritenere che il relativo potere possa essere considerato quale potestà residuale ovvero sostitutiva rispetto a quella sanzionatoria del sindaco, non ponendo le disposizioni urbanistiche alcuna regola di condizionamento o di residualità del potere attribuito al giudice, né uno stretto coordinamento fra istanza amministrativa ed istanza giurisdizionale sotto il profilo procedimentale, con la conseguenza che il potere - dovere di ordinare la demolizione dell’opera abusiva deve essere ricompreso in quel complessivo meccanismo di deterrenza - ad un tempo amministrativo e penale – che la legge ha predisposto nel caso di realizzazione del reato urbanistico.
 Logico corollario di tali affermazioni è che, <<se il potere di ordinare la demolizione attribuito al giudice penale pur di natura amministrativa è volto al ripristino del bene tutelato in virtù di un interesse (anche di prevenzione) correlato all’esercizio della potestà di giustizia, il provvedimento conseguente compreso nella sentenza passata in giudicato, al pari delle altre statuizioni della sentenza stessa, è assoggettato all’esecuzione nelle forme previste dagli articoli 655 ss. del codice di procedura penale>>, derivando da ciò che <<la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria riguardo all’esecuzione dell’ordine di demolizione è conseguente alla caratterizzazione che tale provvedimento riceve dalla sede in cui viene adottato, non essendo neppure ipotizzabile che l’esecuzione di un provvedimento adottato dal giudice venga affidata alla pubblica amministrazione, salvo che la legge non disponga diversamente …>> (Sez.  U, n. 15 del 19/06/1996, cit., in motivazione).
Da tutto ciò si ricava come non vi sia alcuno spazio per predicare la tesi di una competenza riservata dalla legge, tantomeno ratione temporis, alla pubblica amministrazione nella materia delle demolizioni di costruzioni abusive disposte dal giudice penale con la sentenza di condanna.
Ed una tale competenza non può certo essere attribuita da una circolare ministeriale che, in quanto norma interna, cioè espressione della supremazia gerarchica di un ufficio rispetto a quelli subordinati, spiega effetto soltanto nell’ambito dell’amministrazione, senza incidere nella sfera giuridica di soggetti estranei (Sez.  3, n. 2757 del 06/12/2017, dep. 2018, D’Antuono, Rv. 272029).
Peraltro l’osservanza di una circolare ministeriale non può essere controllata in sede di giudizio di legittimità, non trattandosi di manifestazioni dell’attività normativa cui si riferisce l’articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale (nella parte in cui la disposizione de qua opera il riferimento alle altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale)  e fermo restando che colui il quale richiami una circolare ministeriale ha l’onere, nel caso in esame osservato, di esibirla, proprio perché quest’ultima non costituisce fonte di diritto e non deve pertanto essere necessariamente conosciuta dal giudice in base al principio “iura novit curia” (Sez.  3, n. 3317 del 14/03/1986, Nardi, Rv. 172569).
3.2. Il secondo motivo è inammissibile.
Il Collegio non ritiene che vi siano valide ragioni per porre in discussione il principio, niente affatto incrinato dalle considerazioni svolte con il motivo di ricorso e reiteratamente affermato da questa Sezione Terza, in forza del quale, in materia di reati concernenti violazioni edilizie, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l’autore dell’abuso, atteso che tali caratteristiche dell’ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di “pena” elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU (Sez.  3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu, Rv. 267977; Sez.  3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, Rv. 265540; Sez.  3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez.  3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio, Rv. 2503361;  Sez.  3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez.  3, n. 39705 del 30/04/2003, Pasquale, Rv. 226573).
In particolare, è stato già affermato che, in tema di reati edilizi, non sussiste alcun diritto “assoluto” alla inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tale da precludere l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l’ordine giuridico violato, atteso che dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al contrario, l’opposto principio dell’interesse dell’ordinamento all’abbattimento - in luogo della confisca - delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche (Sez.  3, n. 18949 del 10/03/2016, Contadini, Rv. 267024).
Secondo la giurisprudenza della Corte E.D.U. (Corte E.D.U. Sud Fondi Srl e altri c. Italia [GC], 20 gennaio 2009; Corte E.D.U. Vitiello c. Italia, 17 luglio 2007; Corte E.D.U. Paudicio c. Italia, 24 maggio 2007; Corte E.D.U. De Filippo c. Italia, 27 marzo 2007;Corte E.D.U. Hamer c. Belgio, 27 novembre 2007) l’ordine giudiziario di demolire non contrasta pertanto con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di cui all’articolo 8 CEDU, posto che, non essendo desumibile da tale norma la sussistenza di alcun diritto “assoluto” ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare, il predetto ordine non viola in astratto il diritto individuale a vivere nel proprio legittimo domicilio, ma afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato ed a ripristinare l’equilibrio urbanistico-edilizio violato (Sez.  3, n. 24882 del 26/04/2018, Ferrante, Rv. 273368).
Anche recentemente la Corte di Strasburgo ha considerato che l’ordine disposto dall’autorità giudiziaria di demolire le costruzioni abusive fosse giustificato dalla necessità di controllare l’uso della proprietà privata conformemente all’interesse generale, poiché lo scopo era quello di garantirne la conformità con le norme che regolano l’edificazione e la programmazione dell’uso del territorio urbano, in particolare assicurando che l’area fosse utilizzata in maniera conforme alla destinazione identificata nel piano regolatore generale (Corte EDU, Sez. 3, n. 6390 del 18 ottobre 2018, Kvyatkovskiy vs. Russia).
La stessa Corte EDU, nel ribadire la legittimità “convenzionale” della demolizione, ha infatti affermato che la ratio essendi della misura risiede nella necessità di garantire l’effettiva attuazione delle disposizioni normative in forza delle quali gli edifici non possono essere costruiti senza autorizzazione, cosicché detta misura può essere considerata come diretta a ristabilire lo stato di diritto e, salvo il rispetto della proporzionalità della misura stessa con la situazione personale dell’interessato, la Corte EDU, richiamando quanto previsto dall’articolo 8, § 2, della Convenzione E.D.U., ha ritenuto che la demolizione può essere considerata come rientrante nella “prevenzione dei disordini”, e finalizzata a promuovere il “benessere economico del paese” (Corte EDU, Sez. V, 21/04/2016, Ivanova e Cherkezov vs. Bulgaria).
Conclusivamente, anche la giurisprudenza europea ritiene che la demolizione persegua l’obiettivo di garantire il ripristino dello “status quo ante”, in quanto diretta a ristabilire l’ordine giuridico violato dal comportamento dell’autore dell’abuso edilizio con lo scopo anche di scoraggiare altri potenziali trasgressori (§ 75).
Ne consegue che la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell’articolo 31, comma 9, d.P.R. 380 del 2001, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso cosicché, per tali sue caratteristiche, la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall’articolo 173 del codice penale.
Il motivo di ricorso non ha pertanto alcun giuridico fondamento.

4. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’articolo 616 del codice di procedura penale, di sostenere le spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 04/04/2019