Cass. Sez. III n. 12387 del 15 marzo 2017 (Ud 21 feb 2017)
Presidente: Fiale Estensore: Ramacci Imputato: Preziosi
Urbanistica. Realizzazione di strutture galleggianti

Per la realizzazione di strutture galleggianti stabilmente ancorate alle sponde di un fiume ed utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro ovvero di ristorazione, ritrovi, depositi, magazzini e simili e, quindi, non destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee, è necessario il permesso di costruire.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 20/1/2015 ha riformato, dichiarando l’estinzione del reato e confermando le statuizioni civili, la sentenza con la quale, in data 22/4/2010, il Tribunale di Roma aveva ritenuto Angelo PREZIOSI responsabile della contravvenzione di cui all’art. 44, lett. c) d.P.R. 380\01, perché, quale rappresentante legale della “GILDA s.r.l.”, realizzava, in assenza di permesso di costruire, sul fiume Tevere, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, un edifico galleggiante su due piani di m. 30, 65 X 8,00 ed alto m. 6,20, composto da otto appartamenti di mq 42 ciascuno, alti m. 2,90, con terrazzi della superficie complessiva di mq 172,43.
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione degli artt. 129 e 578 cod. proc. pen., nonché l’omessa motivazione in ordine alle ragioni giustificatrici della meno favorevole pronuncia dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione.
Osserva, a tale proposito, che, avendo la decisione di primo grado deciso sulle statuizioni civili, il giudice dell’appello avrebbe dovuto valutare la possibilità di una decisione assolutoria nel merito, non limitandosi ad escluderla, come invece ha fatto, facendo riferimento all’art. 129 cod. proc. pen. e limitandosi a verificare se dagli atti emergesse l’evidenza dell’innocenza dell’imputato.
Aggiunge che la Corte territoriale si sarebbe limitata alla conferma delle statuizioni civili senza una loro compiuta valutazione.

3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia la violazione di legge in relazione alla ritenuta necessità del permesso di costruire per la realizzazione delle opere oggetto di imputazione, facendo rilevare come la presenza del manufatto fosse comunque assentita sulla base di preesistenti atti autorizzatori (determinazione della Regione Lazio, provvedimento dell’A.R.D.I.S., parere tecnico sanitario dell’AUSL RM/E) e richiamando i contenuti delle disposizioni che disciplinano le modalità di utilizzo del fiume Tevere, dall’esame dei quali risulterebbe che i galleggianti che stazionano sul detto fiume resterebbero sottratti alla disciplina urbanistica.
Rileva, inoltre, sotto il profilo strettamente urbanistico, che il PRG del 1965 non contemplava il tratto urbano del fiume neanche a livello di pianificazione generale, mentre quello del 2003, che censisce la struttura indicandola come “risorsa esistente”, mancherebbe, allo stato, di qualsiasi strumento attuativo e particolareggiato.

4. Con un terzo motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 3, comma 1, lett. e5 del d.P.R. 380\01,  rilevando come la necessità del titolo abilitativo per le opere in esso descritte e, nel contempo, l’impossibilità di rilasciarlo in assenza di strumenti attuativi o particolareggiati, comporterebbe, quale possibile conseguenza, la legittimità degli interventi realizzati in precedenza in forza del titolo regionale già conseguito, oppure il rilascio di tale ultimo atto autorizzatorio sarebbe incompatibile con l’assetto normativo attualmente vigente, dovendosi peraltro tenere conto che le strutture galleggianti sul Tevere sarebbero comunque soggette ad una disciplina speciale.

5. Con un quarto motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato, non avendo la Corte territoriale considerato la pluralità di elementi positivi provenienti dalla pubblica amministrazione che, unitamente all’oggettiva difficoltà interpretativa della normativa avrebbero dovuto indurre a ritenere la buona fede dell’imputato.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.       




CONSIDERATO IN DIRITTO


1. Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente ricordare, con riferimento al primo motivo di ricorso, quale sia l’ambito di operatività degli artt. 129 e 578 cod. proc. pen. individuato dalla giurisprudenza di questa Corte.
Va a tale proposito richiamata la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 35490 del 28/5/2009, Tettamanti, Rv. 24427401), menzionata anche in ricorso, che, dirimendo un precedente contrasto giurisprudenziale, ha tra l'altro affermato come la pronuncia assolutoria a norma dell'art. 129, comma secondo, cod. proc. pen. sia consentita  al giudice solo quando emergano dagli atti, in modo assolutamente non contestabile, le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale, in modo tale che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo sia incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento ed appartenga, pertanto, più al concetto di «constatazione», ossia di percezione «ictu oculi», che a quello di «apprezzamento».  
Precisano ulteriormente le Sezioni Unite che l' «evidenza» richiesta dal menzionato art. 129, comma 2, cod. proc. pen.  «presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l'assoluzione ampia».
Nella stessa pronuncia si afferma, altresì, che, all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, evidenziando quindi la necessità di un raccordo tra l’art. 129 e l’art. 578 cod. proc. pen.
Tale ultima disposizione, come è noto, prevede che il giudice d'appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto per amnistia o per prescrizione il reato per il quale sia intervenuta condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati, sono tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

2. Ai principi appena ricordati si sono uniformate le sentenze successive (cfr. Sez. 6, n. 44685 del 23/9/2015, N, Rv. 26556101; Sez. 5, n. 3869 del 7/10/2014 (dep. 2015), Lazzari, Rv. 26217501; Sez. 2, n. 38049 del 18/7/2014, De Vuono, Rv. 26058601; Sez. 1, n. 42039 del 14/1/2014, Simigliani, Rv. 26050801; Sez. 6, n. 16155 del 20/3/2013, Galati e altri, Rv. 25566601; Sez. 6, n. 4855 del 7/1/2010, Damiani e altro, Rv. 24613801), ribadendo la necessità, in caso di condanna in primo grado al risarcimento dei danni, di un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato.
La valutazione richiesta al giudice riguarda, dunque, per ciò che concerne le statuizioni civili, l'esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale previa considerazione delle censure dedotte, perché la conferma della condanna al risarcimento del danno, ancorché generica, non può fondarsi sulla mera mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato

3. Nel caso di specie, la Corte di appello non si è affatto sottratta all’obbligo di motivazione impostogli dai summenzionati principi, sebbene sia partita da una premessa non corretta, avendo fatto riferimento, nel definire il perimetro della propria cognizione, esclusivamente all’art. 129, comma 2 cod. proc. pen., poiché, di fatto ha comunque analizzato, in maniera diffusa, come si vedrà anche in seguito, ogni singola doglianza mossa con l’atto di appello, dando conto dei contenuti delle tesi difensive ed analizzando nel dettaglio i contenuti della documentazione acquisita, prendendo in esame la natura degli interventi, le questione concernenti la necessità o meno del titolo abilitativo e, conseguentemente, la sussistenza del reato contestato sotto ogni profilo, soggettivo ed oggettivo.
Ciò che importa, invero, è la valutazione in concreto effettuata dai giudici dell’appello, pienamente soddisfacente ai fini della verifica richiesta dalla richiamata giurisprudenza, a nulla rilevando l’assenza di una piena conformità della premessa ai principi enunciati.

4. Va conseguentemente affermato che il giudice dell’appello, il quale dichiara estinto per prescrizione il reato per cui in primo grado è intervenuta condanna, rispetta comunque l’obbligo di decidere sull'impugnazione agli effetti civili anche quando, pur riferendosi alla mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato ai sensi dell'art. 129, comma secondo, cod. proc. pen., abbia, nella sostanza, esaminato compiutamente i motivi di impugnazione, compiendo un esauriente apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato.

5. Il secondo e terzo motivo di ricorso, afferenti entrambi alla necessità o meno del permesso di costruire per la realizzazione degli intervento oggetto di contestazione, possono essere trattati congiuntamente.
Occorre osservare, in primo luogo, che il ricorso contiene plurimi riferimenti ad atti e documenti  acquisiti nel corso del procedimento ai quali, come è noto, questa Corte non ha accesso e che, pertanto, non potranno essere oggetto di disamina in questa sede.
Va altresì rilevato come la questione inerente il titolo abilitativo sia stata già affrontata e risolta da questa Corte in una precedente pronuncia (Sez. 3, n. 37718 del 11/10/2006, Preziosi, non massimata) decidendo un ricorso avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale del riesame aveva confermato il decreto di sequestro preventivo dell’edificio realizzato dall’odierno ricorrente.
Si osservava, in quel contesto, che le opere richiedevano, per la loro realizzazione, il permesso di costruire, specificando come la sua rilevanza urbanistica fosse evidenziata dalla sua destinazione durevole a una funzione di insediamento nel territorio con carattere di stabilità, richiamando, a tale proposito, precedenti pronunce aventi ad oggetto situazioni analoghe, concernenti la realizzazione di pontili galleggianti (Sez. 3, n. 354 del 25/1/2000, Carrodano, Rv. 21768601; Sez. 1, n. 8920 del 20/11/2000 (dep.2001), Fusaro e altri, Rv. 21822001), alle quali hanno peraltro fatto seguito altre del medesimo tenore (Sez. 3, n. 21413 del 3/3/2010, Parisi e altri, Rv. 24930401; Sez. 3, n. 7047 del 4/12/2014  (dep.2015), Gaiotto, Rv. 26263101).
Nell’occasione si escludeva, inoltre, ogni rilievo al fatto che dalla competente autorità era stato rilasciato il titolo concessorio di occupazione di specchio acqueo e ciò considerando che il permesso di costruire ha diversa entità, portata e finalità, dando altresì atto del fatto che i giudici del riesame avevano posto in evidenza come in una nota della Direzione Abusivismo Edilizio del comune di Roma, nel descrivere l'opera edilizia, venisse precisato che l'edificazione era avvenuta in assenza del permesso di costruire, nella specie ritenuto necessario, rilevando anche come dovesse, quindi, ritenersi violato l’art. 44, lett. c)  d.P.R. 380\01, trattandosi di intervento realizzato sul fiume Tevere.
Dandosi infine atto del contenuto delle memorie difensive depositate, veniva altresì ritenuto irrilevante, ai fini della configurabilità dell’illecito edilizio, il rilevo secondo il quale "il PRG non prevede alcuna zonizzazione del fiume Tevere e le relative norme tecniche di attuazione non contengono disposizioni edilizie sulle grandezze o sulle destinazioni d'uso ammesse in tale porzione di territorio" e quello secondo cui "il PRG adottato nel 2006 individua il fiume Tevere come Ambito di programmazione strategico e nell'elaborato n. 14, comma 2 è prevista la necessità di predisporre programmi per localizzare e regolamentare nuove attività da svolgere direttamente sul fiume, su strutture galleggianti che potrebbero essere dedicate a svago, ristoro e cultura, come parti di un sistema coerente teso a legare le due differenti quote urbane", rilevandosi, da un lato, il contenuto meramente programmatico della previsione e, dall'altro, l'impossibilità, anche per le norme di pianificazione comunale, di incidere sulla normazione nazionale, ribadendo che l'opera realizzata richiedeva il permesso di costruire, pur tralasciando di esaminare la questione concernente l’elemento soggettivo del reato, in quanto estranea a quel giudizio.

6. Le medesime questioni sono state riproposte, nella sostanza, nei motivi di appello e nuovamente prospettate nei motivi di ricorso in esame.
Ciò posto, ritiene il Collegio che non vi siano ragioni per discostarsi da quanto in precedenza affermato, seppure nel diverso ambito del giudizio cautelare e che le considerazioni svolte sul punto dalla Corte territoriale siano giuridicamente corrette ed assistite da adeguata motivazione.
Il ricorrente analizza, nel dettaglio, tutta una serie di disposizioni e di atti amministrativi che ritiene evidentemente sufficienti per la realizzazione delle opere,ma così non è.
Si tratta, come correttamente ha rilevato la Corte di appello, di atti e provvedimenti aventi finalità diverse.
Segnatamente, come si ricava dalla sentenza impugnata e dal ricorso, la determinazione della Regione Lazio (B1673 del 3/5/2005) riguarda l’occupazione temporanea (fino al 31/12/2007) di specchi acquei del fiume Tevere per mq 284, di cui 262 coperti “allo scopo di mantenervi degli edifici galleggianti adibiti a bar e cure elioterapiche”.
Il provvedimento dell’A.R.D.I.S. (del 13/12/2002) autorizzava “ai soli fini idraulici e senza esonero dal richiedere ogni altra licenza o permesso previsto dalle norme vigenti” la ricostruzione di una struttura galleggiante, simile alla preesistente, consistente in un edifico “ad un unico piano con locale bar, sala fisioterapica ed alloggio custode, nonché solarium sul tetto”
La seconda autorizzazione (dell’ottobre 2003) di variante al progetto per la realizzazione di un secondo piano dell’edificio “destinato ad uso bar e cure elioterapiche”, veniva rilasciata “al fine della salvaguardia delle opere e pertinenze idrauliche”, con specifica indicazione dell’onere di acquisire, prima dell’inizio dei lavori, “anche tutte le altre autorizzazioni, pareri o assensi previsto dalla normativa vigente”.
Il parere tecnico sanitario dell’AUSL RM/E (del 7/12/2005) veniva rilasciato “fatto salvo il rispetto della normativa edilizio urbanistica” .  

7. A fronte di ciò, si rileva, nella sentenza impugnata, che il sopralluogo effettuato dalla polizia giudiziaria evidenziava la presenza di otto appartamenti e la modifica dell'originaria destinazione d’uso, da ricreativa ad abitativa.
Quanto alla normativa citata in ricorso, si rileva che la legge 6 maggio 1906, n. 200 disciplina la navigazione del Tevere fra Roma ed il mare, così come il regolamento per l’esecuzione, contenuto  nel R.D. 10 agosto 1934, n. 1452 e che, pur considerando anche l’esecuzione di opere, prendono entrambi in considerazione gli aspetti prettamente concernenti la navigazione ed il regime del fiume e delle sue sponde.
Tutti gli atti autorizzativi in precedenza menzionati, per ciò che si ricava dai loro contenuti, richiamati nella sentenza impugnata, attengono ad aspetti prettamente idraulici e fanno comunque salve le altre disposizioni vigenti.
Esse, inoltre, riguardano una struttura del tutto diversa da quella effettivamente realizzata, che consta, come si è detto, anche di appartamenti ed ha, dunque, destinazione residenziale.
È  pertanto del tutto destituita di fondamento l’affermazione del ricorrente, secondo il quale le opere realizzate sarebbero autonomamente disciplinate per ciò che concerne il profilo urbanistico.

8. Quanto alla necessità del permesso di costruire, va ribadito quanto evidenziato nella sentenza emessa da questa Sezione nell’ambito del giudizio cautelare, rilevando come, in ogni caso, le caratteristiche del manufatto lo qualificano come intervento di nuova costruzione ai sensi del d.P.R. 380\01, in quanto comportante una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio e rientrante tra le opere definite, a titolo esemplificativo, dall’art. 3, comma 1, lett. e5 e, segnatamente, tra le strutture o imbarcazioni utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, non dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Va altresì osservato come la necessità del permesso di costruire per le strutture galleggianti insistenti sul fiume Tevere sia stata più volte riconosciuta, dalla giurisprudenza amministrativa, con riferimento a casi analoghi, come peraltro ricordato nella sentenza impugnata, stabilendo che la collocazione in uno spazio fluviale di una imbarcazione va qualificata come realizzazione di una nuova costruzione, per la cui legittimità è necessario il previo rilascio del permesso di costruire, rilevando che anche i fondali subacquei costituiscono suolo, in questo caso demaniale e che pertanto le strutture su di esso stabilmente installate sono per ciò stesso "strutturalmente" assoggettabili al regime di cui agli artt. 3, 10 e 35 del testo unico sull'edilizia, ciò in quanto il verbo installare significa, "sistemare stabilmente in un luogo" e, quindi, si riferisce anche ad impianti fissi collocati in uno spazio acquatico e non solo terrestre, tanto che anche nel linguaggio comune e tecnico si parla di installazione di piattaforme, banchine, pontili, cioè classiche strutture in ambiente marino, lacuale o fluviale (cfr. Cons. Stato, sez. IV n. 4673 del 23/7/2009 e Sez. IV n. 2636 del 6/5/2010).

9. Va conseguentemente affermato che per la realizzazione di strutture galleggianti stabilmente ancorate alle sponde di un fiume ed utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro ovvero di ristorazione, ritrovi, depositi, magazzini e simili e, quindi, non destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee, è necessario il permesso di costruire.
A tali conclusioni è motivatamente pervenuta anche la Corte territoriale, sicché la sentenza impugnata risulta, sul punto, del tutto immune da censure.

11. Per ciò che riguarda, infine, il quarto motivo di ricorso, va richiamato quanto già evidenziato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di ignoranza o erronea interpretazione della legge urbanistica.
Si è rilevato (Sez. 3, n. 11045 del 18/02/2015, De Santis e altro, Rv. 26328801) come questa Corte abbia specificato (Sez. 3, n. 23998 del 12/5/2011, P.M. in proc. Bisco, Rv. 250608) che la condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati e che non rientra nell’ipotesi di ignoranza inevitabile l’erronea convinzione che un determinato intervento non necessiti di specifico titolo abilitativo (Sez. 3, n. 6968 del 2/5/1988, Rurali, Rv. 178593).
Più in generale, si è precisato che l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale non si configura quando l'agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente (Sez. 5, n. 22205 del 26/2/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez. 3, n. 1797 del 16/1/1996, Lombardi, Rv. 205384).

12. Nel caso in esame incombeva, pertanto, in capo all’imputato, uno specifico onere di informazione, non superabile per il fatto del rilascio di altri atti autorizzatori, i quali, come si è visto, avevano finalità diverse e facevano comunque salva la necessità di altri titoli abilitativi, senza contare che gli stessi riguardavano opere del tutto diverse da quelle poi effettivamente realizzate, aventi anche diversa destinazione d’uso come accertato dai giudici del merito.
Anche in questo caso la Corte territoriale ha fornito adeguata motivazione, conforme ai principi ricordati, richiamando il contenuto degli atti amministrativi e ponendo in evidenza come l’imputato, architetto ed imprenditore, non poteva equivocarne il significato ed osservando, altresì, che questi non risultava aver comunque interloquito con i competenti ufficio comunali al fine di assolvere all’onere di informazione su di lui incombente.

13. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in data 21.2.2017