Cass. Sez. III n. 29342 del 19 luglio 2024 (UP 21 mar 2024)
Pres. Ramacci Rel. Andronio Ric. Fraternali
Urbanistica.Reato di cui all'art. 75 TU edilizia

L’art. 75 del d.P.R. n. 380 del 2001 costituisce un reato di natura permanente a condotta mista in quanto comprende, da un lato, un aspetto commissivo costituito dall'utilizzazione dell'edificio e, dall'altro, un aspetto omissivo, costituito dalla mancata richiesta di collaudo all'autorità competente, con la conseguenza che il momento di cessazione della condotta antigiuridica, da cui far decorrere il termine di prescrizione, coincide con il momento di dismissione dell'utilizzo dell'immobile ovvero con il collaudo 

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 12 novembre 2021, il Tribunale di Rimini ha condannato gli imputati alla pena di euro 600,00 di ammenda ciascuno essendo stati gli stessi ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 380 del 2001 perché, nella qualità di proprietari di un immobile, consentivano l’utilizzazione, e comunque utilizzavano, prima del rilascio del certificato di collaudo, due opere abusivamente realizzate, ovvero una veranda di 24 mq situata sul lato destro dell’immobile, e altri tre vani comunicanti tra loro, pari ad una superfice di circa 33 mq, aventi destinazione d’uso a dispensa, spogliatoio e retro di un laboratorio di preparazione alimentare.

2. Avverso la sentenza gli imputati hanno proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione. 
2.1. Con i primi due motivi di doglianza, si censurano l’erronea valutazione circa la sussistenza dell’elemento psicologico richiesto per l’integrazione del reato contestato e l’errore sul fatto in ordine alla condotta incriminata. Il collegio di merito avrebbe valutato le dichiarazioni testimoniali esclusivamente sotto il punto di vista della sussistenza dell’elemento oggettivo del reato senza indagare l’effettiva sussistenza dell’elemento soggettivo consistente nella colpa dei ricorrenti. Sul punto, la difesa rileva l’errore che avrebbe commesso l’organo giudicante nell’affermare che il Fraternali Mauro sarebbe venuto a conoscenza delle problematiche della costruzione nel 2012, durante un sopralluogo della Polizia Locale, mentre il sopralluogo in esame sarebbe avvenuto il 25 giugno del 2017; peraltro, anche il capo di imputazione recherebbe una data erronea, ovvero quella del giugno 2018 in luogo di quella del giugno 2017 o di quella del 25 gennaio 2017. Le dichiarazioni rese dai testi, la cui valutazione sarebbe stata omessa dai giudici di merito, denoterebbero l’assoluta mancanza di consapevolezza in capo agli imputati in relazione alla condotta illecita da loro posta in essere, infatti gli stessi sarebbero stati tratti in errore da una situazione consolidata nel corso del tempo che integrerebbe un errore sul fatto. L’errore nel quale sarebbero caduti gli imputati, nonostante la loro buona fede, deriverebbe dal fatto che le modifiche all’immobile di cui trattasi sarebbero state effettuate nel 1994 dal padre e, tenuto conto che all’epoca loro non erano proprietari dell’immobile, una volta subentrati al padre avrebbero dato per assodato che non vi fossero problematiche di tipo amministrativo sull’immobile oggetto di eredità. La buona fede dei ricorrenti verrebbe altresì confermata dal fatto che gli stessi avrebbero presunto la regolarità del fabbricato ereditato, e che dunque non vi fosse alcuna necessità di collaudo, posta la minima difformità della costruzione con i parametri indicati dalla delibera della giunta regionale n. 2272 del 2016, per soli 3 metri quadri. Infine, si ribadisce l’assoluta estraneità ai fatti di Fraternali Lara, perché la stessa non avrebbe mai gestito l’attività e avrebbe solo sporadicamente frequentato il locale, che non sarebbe mai stato nella sua materiale disponibilità. 
2.2. Con una terza censura, si denunciano l’erroneità della sentenza impugnata, per non aver tenuto conto delle prove documentali prodotte dalla difesa, e la carenza di motivazione in ordine agli elementi difensivi ivi contenuti. Il giudice di primo grado non avrebbe tenuto conto della documentazione prodotta dalla difesa all’udienza del 07/05/2021, ovvero la relazione del geometra Longhi, la dichiarazione di successione, la domanda di accertamento di conformità paesaggistica relativamente alla pregressa domanda di condono e il decreto penale di condanna a carico del padre degli imputati, che si sarebbe assunto la paternità dell’opera. Tali documenti sarebbero stati decisivi al fine di rilevare la buona fede dei ricorrenti, ma il Tribunale non avrebbe in alcun modo motivato in ordine agli stessi.
2.3. Con un quarto motivo di ricorso, si censura la sentenza impugnata per avere erroneamente ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. n. 380 del 2001, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. Sul punto il Tribunale avrebbe omesso di indicare i motivi posti alla base della sua decisione circa la manifesta infondatezza della questione stessa. Secondo la difesa, l’utilizzo del termine “chiunque” nella formulazione della fattispecie incriminatrice contestata contrasta con gli artt. 3 e 27 Cost. poiché chiama a rispondere, indistintamente, sia chi ha realizzato l’opera sia chi si è limitato ad utilizzarla; e ciò confligge con il principio di colpevolezza. 
2.4. Con un’ultima doglianza, si censura il vizio della motivazione in ordine al diniego di proscioglimento degli imputati ai sensi dell’art. 131-bis, cod. pen. Nel caso di specie ci si troverebbe dinanzi ad una contravvenzione punita con una lieve ammenda, contestata a persone incensurate, ove altro soggetto – il padre dei ricorrenti – si sarebbe assunto la responsabilità dell’opera; si tratterebbe, in ogni caso, di una condotta con conseguenze minime.

3. Il ricorrente ha depositato successiva memoria, con la quale insiste per l’accoglimento del ricorso.

 CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Le censure – con cui si lamentano l’erronea valutazione circa la sussistenza dell’elemento psicologico richiesto per l’integrazione del reato contestato e l’errore sul fatto degli imputati circa la condotta incriminata – sono inammissibili. Risulta pacifica la responsabilità dei ricorrenti con riguardo alla fattispecie contravvenzionale ascritta agli stessi, accertata fino al giugno 2018. Si deve osservare, infatti, che – per consolidato orientamento di questa Corte – l’art. 75 del d.P.R. n. 380 del 2001 costituisce un reato di natura permanente a condotta mista in quanto comprende, da un lato, un aspetto commissivo costituito dall'utilizzazione dell'edificio e, dall'altro, un aspetto omissivo, costituito dalla mancata richiesta di collaudo all'autorità competente, con la conseguenza che il momento di cessazione della condotta antigiuridica, da cui far decorrere il termine di prescrizione, coincide con il momento di dismissione dell'utilizzo dell'immobile ovvero con il collaudo (Sez. 3, n. 36095 del 30/06/2016, Rv. 267917). Dalle dichiarazioni del teste Coppola Dario, in servizio presso la Polizia Locale di Rimini, emerge che, oltre al fabbricato legittimamente accatastato, erano presenti volumi di ampliamento – in particolare una veranda in alluminio posta sul lato destro dell’edificio e altri manufatti sul retro della struttura, che dai riscontri fotografici sussistevano da maggio 2009 – e che tali strutture non erano dotate del necessario collaudo tecnico. Le censure relative alla presunta erroneità delle date in cui è avvenuto il sopralluogo da parte della Polizia Locale, che secondo la prospettazione difensiva sarebbe avvenuto nel giugno 2018 e non in data 25/01/2017 come riferito dal teste Coppola, risultano non supportate da alcun elemento e, in ogni caso, irrilevanti, tenuto conto che risulta pacifico che le opere fossero presenti sin dal 2009 e che le stesse fossero prive del necessario collaudo, intervenuto solo in data 28/08/2019. Quanto alla presunta carenza dell’elemento psicologico in capo agli imputati e alla circostanza che gli stessi sarebbero incorsi in un errore sul fatto determinato dal consolidamento nel tempo della vicenda, deve rilevarsi che dal complesso degli atti valutati dal Tribunale e, in particolare, proprio dalla deposizione del teste Coppola, risulta che gli ampliamenti dei quali si contesta la carenza di collaudo sono essere presenti dal 2009, e dunque in epoca successiva all’acquisto della proprietà da parte dei ricorrenti. Anche con riferimento alla presunta estraneità ai fatti di Fraternali Lara non può essere accolta la prospettazione difensiva, alla luce del rilievo che risulta pacifico che la stessa è proprietaria dell’immobile insieme al fratello e che la norma incriminatrice punisce altresì chi consente l’utilizzazione di strutture carenti di collaudo; dunque, la circostanza che la stessa non gestisse l’attività che si svolgeva nella struttura e che si recasse in loco sporadicamente risulta – oltre che meramente asserita – del tutto ininfluente, perché l’ampliamento non collaudato emerge alla semplice vista.
Manifestamente infondata è la censura volta a sottolineare la marginale difformità delle strutture prive di collaudo rispetto alla disciplina prevista dalla delibera della Giunta regionale n. 2272 del 2016. Infatti, relativamente alla veranda posta sul lato destro della struttura, pur essendo la stessa volumetricamente inferiore ai limiti indicati dalla delibera della Giunta regionale – ovvero 24 metri quadrati in luogo dei 30 metri quadrati limite – va osservato che la stessa delibera richiede un duplice requisito, ovvero che la struttura non ecceda i 30 metri quadri e che la stessa sia adibita a ripostiglio; requisito, quest’ultimo, che nel caso di specie risulta carente sia con riferimento alla veranda, sia con riferimento alla struttura situata sul retro dell’edificio, eccedente i 30 metri quadri, essendo pari a 33 metri quadri, ed adibita a laboratorio, alla manipolazione degli alimenti, a spogliatoio e a dispensa. 
1.2. Il terzo motivo di ricorso – con il quale si denunciano l’erroneità della sentenza impugnata per non aver tenuto conto delle prove documentali prodotte dalla difesa – è inammissibile. La doglianza risulta genericamente proposta ed in ogni caso inammissibile, in quanto verte su elementi che non attengono alla questione oggetto di esame – ovvero sulla paternità dell’opera in capo al padre dei ricorrenti e sulla relazione del geometra Longhi avente ad oggetto la richiesta di condono e la dichiarazione di successione per attestare la mancanza di possesso in capo agli imputati all’epoca in cui furono eseguiti i lavori – quando invece il tema oggetto di esame attiene alla carenza del necessario collaudo e all’utilizzazione delle strutture di ampliamento. Del resto, in tema di impugnazione, il requisito della specificità dei motivi implica, a carico della parte impugnante, non soltanto l’onere di dedurre le censure che intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi fondanti le censure medesime, al fine di consentire al giudice di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (ex plurimis, Sez. 6, n. 17372 del 08/04/2021, Rv. 281112). 
1.3. La quarta doglianza – con la quale si censura la sentenza impugnata per aver erroneamente ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. n. 380 del 2001 per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. – è inammissibile. La questione di legittimità sollevata dai ricorrenti è manifestamente infondata oltre che irrilevante perché non vi sono dubbi sul fatto che gli imputati sono i proprietari dell’immobile carente di collaudo e dunque non è manifestamente irragionevole, sul piano costituzionale, punire il soggetto proprietario che utilizza o consente l’utilizzazione a terzi della costruzione non collaudata, trattandosi del soggetto che si avvantaggia di tale utilizzazione e, allo stesso tempo, è tenuto per legge a conseguire il certificato di collaudo. 
1.4. L’ultimo motivo di ricorso – con il quale si lamenta il vizio della motivazione in ordine al diniego di proscioglimento degli imputati ai sensi dell’art. 131-bis, cod. pen. – è inammissibile. La motivazione resa dal Tribunale sul punto risulta ragionevole e, in ogni caso, la valutazione dell’ampiezza delle strutture prive di collaudo e della loro incidenza negativa costituisce una questione di merito, non sindacabile in questa sede. Del resto, la disciplina di cui all’art. 131-bis, cod. pen., sarebbe stata applicabile solo a fronte di una lieve difformità dal quadro normativo di riferimento, che nel caso di specie non sussiste, risultando invece consumato un illecito di consistenza non trascurabile, sia quanto alle dimensioni sia quanto all’uso dei manufatti edilizi. 

2. I ricorsi, per tali motivi, devono essere dichiarati inammissibili. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.


Così deciso il 21/03/2024.