Cass. Sez. III n. 39317 del 25 dettembre 2019 (UP 24 mag 2019)
Pres. Andreazza Est. Cerroni Ric. De Leo
Urbanistica.Responsabilità del progettista

E’ configurabile la responsabilità del progettista in caso di realizzazione di interventi edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da dettagliata relazione a firma del predetto professionista, in quanto l’attestazione del progettista di “conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti” comporta l’esistenza in capo al medesimo di un obbligo di vigilanza sulla conforme esecuzione dei lavori


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 17 ottobre 2018 la Corte di Appello di Messina ha confermato la sentenza del 16 giugno 2016 del Tribunale di Messina, in forza della quale, tra l’altro, Giuseppe De Leo – in qualità di progettista e direttore dei lavori - era stato condannato alla pena, sospesa, di mesi uno di arresto ed euro 12000 di ammenda per i reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 44 lett. b) d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380; 110 cod. pen., 93, 94 e 95 d.P.R. 380 del 2001 cit..   
2. Avverso la predetta decisione è stato proposto ricorso per cassazione articolato su quattro motivi di impugnazione.
2.1. Col primo motivo il ricorrente, allegando violazione di legge e vizio motivazionale, ha dedotto che l’istruttoria dibattimentale aveva consentito di accertare che lo stesso professionista aveva solamente redatto gli elaborati tecnici necessari e propedeutici alla denuncia dell’avvio dei lavori di realizzazione del deposito occasionale di proprietà dei soggetti privati, mentre alcuno specifico dovere di vigilanza incombeva sullo stesso, tanto più che i lavori contestati (balcone al primo piano e sopraelevazione di muro di confine) avevano avuto ad oggetto parti diverse dell’immobile rispetto a quanto costituiva oggetto dell’incarico affidato al professionista.
2.2. Col secondo motivo è stata eccepita la prescrizione, già maturata al momento della pronuncia impugnata, atteso che al di là della data dell’accertamento del 27 marzo 2014, era certo che le opere erano già da tempo realizzate e rifinite in ogni loro parte. In proposito gli elementi sicuri erano rappresentati dalla data di presentazione della comunicazione d’inizio attività, il 25 luglio 2013, e dalla modesta entità delle opere da realizzare, sì che poteva agevolmente ritenersi che nei primi giorni di agosto 2013 i lavori fossero stati terminati.
2.3. Col terzo motivo, sotto il profilo della violazione di legge, il ricorrente ha lamentato il rigetto della richiesta di non punibilità per particolare tenuità del fatto. In specie non era stata fatta compiuta valutazione a norma dell’art. 133 cod. pen., benché prescritta ex lege e nonostante la concessione della sospensione condizionale della pena.
2.4. Col quarto motivo, quanto al mancato riconoscimento della non menzione, il ricorrente ha osservato che era stata concessa la sospensione condizionale, ancorché fondata sui medesimi presupposti e sulla stessa prognosi favorevole, per cui non poteva non sussistere la contraddittorietà della motivazione.  
3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’annullamento senza rinvio per la mancata applicazione della non menzione, e per l’inammissibilità nel resto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è inammissibile.
4.1. In relazione al primo motivo, è stato già osservato che è configurabile la responsabilità del progettista in caso di realizzazione di interventi edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da dettagliata relazione a firma del predetto professionista, in quanto l’attestazione del progettista di “conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti” comporta l’esistenza in capo al medesimo di un obbligo di vigilanza sulla conforme esecuzione dei lavori (era stata così ritenuta immune da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del progettista e direttore dei lavori, in concorso col proprietario e l’esecutore materiale, per avere realizzato, sulla base della attestazione di conformità agli strumenti urbanistici di un’opera precaria, oggetto di D.I.A., una struttura di rilevanti dimensioni, chiusa con finestre, destinata ad ospitare i clienti di un adiacente esercizio commerciale)(Sez. 3, n. 9058 del 04/10/2017, dep. 2018, Colucci e altri, Rv. 272506; Sez. 3, n. 28267 del 09/05/2008, Pacecca e altri, Rv. 240821).
4.1.1. Ciò posto, il ricorrente, progettista e direttore dei lavori, si è difeso in appello sostenendo che progettazione e comunicazione di inizio lavori avevano riguardato solamente la realizzazione di un locale deposito occasionale, lamentando invece che le altre opere – effettuate dopo quelle denunciate ed assentite - non coincidevano con la s.c.i.a. presentata dal tecnico, altresì affermando di non essere stato messo a parte da alcuno circa l’inizio dei lavori, e non spettando al tecnico verificarne l’inizio medesimo.
In proposito, peraltro, e contrariamente ai rilievi del ricorrente, l’assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l’onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all’incarico (ad es. Sez. 3, n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi, Rv. 262423).
4.1.2. In definitiva, se in atto di appello è stato sostenuto che il professionista non era mai stato messo a parte dell’inizio dei lavori, invero in ricorso è stato dato atto che progettazione e comunicazione dell’inizio dei lavori riguardavano appunto solamente una parte delle attività, secondo l’incarico ricevuto. Mentre era del tutto mancata la prova che l’imputato, quantunque formalmente direttore dei lavori, avesse taciuto in maniera compiacente circa l’esistenza di ulteriori lavori e difformità realizzate dopo l’esecuzione delle opere denunciate ed assentite.
In tal modo, ed alla stregua di quanto questa Corte ha già avuto modo di osservare, la stessa difesa ha ammesso l’avvenuta comunicazione d’inizio dei lavori, cui peraltro ha fatto seguito quantomeno un palese difetto di vigilanza, se non un vero e proprio disinteresse, nonostante l’assunto incarico, non onorifico e certamente ben conosciuto, di direttore dei lavori.
Non è quindi emersa, anche a norma dell’art. 29 d.P.R. 380 del 2001, alcuna dissociazione del professionista, invero istituzionalmente ben consapevole - alla stregua anche dei richiamati principi - delle conseguenze del proprio atteggiamento anche omissivo in relazione all’andamento dell’esecuzione delle opere (sulla cui contestuale realizzazione concorda anche lo stesso ricorrente, che ne ha tratto ragione per formulare l’eccezione di prescrizione di cui infra), nemmeno sotto il profilo di una qualsivoglia contestazione alla committenza, ovvero all’impresa esecutrice, di avere dato corso ad un’attività che veniva a sovrapporsi e ad unirsi rispetto a quella in tesi assentita. Tant’è che la sentenza impugnata (la quale ha comunque inteso osservare che le opere siccome accertate integravano il reato edilizio in quanto eseguite in assenza del dovuto permesso di costruire) ha in realtà ascritto all’odierno ricorrente un comportamento del tutto inerte e - quantomeno - colpevolmente passivo, benché in definitiva il direttore dei lavori assuma anche la funzione di garante nei confronti del Comune dell’osservanza e del rispetto dei contenuti dei titoli abilitativi all’esecuzione dei lavori (cfr. Sez. 3, n. 34602 del 17/06/2010, Ponzio, Rv. 248328).
Il motivo di impugnazione si presenta quindi manifestamente infondato.
4.2. In ordine al secondo profilo di censura, solamente in questa sede è stata allegata la pretesa intervenuta maturazione della prescrizione anteriormente alla sentenza impugnata, invero risalente al 17 ottobre 2018.
Al riguardo, il ricorrente che invochi nel giudizio di cassazione la prescrizione del reato, assumendo per la prima volta in questa sede che la data di consumazione del reato è antecedente rispetto a quella contestata, ha l’onere di indicare gli elementi di riscontro alle sue affermazioni, indicando gli atti ai quali occorre fare riferimento, essendo precluso in sede di legittimità qualsiasi accertamento di merito (Sez. 5, n. 46481 del 20/06/2014, Martinelli e altri, Rv. 261525). In particolare, ha l’onere di riscontrare le sue affermazioni fornendo elementi incontrovertibili, idonei da soli a confermare che il reato è stato consumato in data anteriore a quella contestata, e non smentiti né smentibili da altri elementi di prova acquisiti al processo (Sez. 4, n. 47744 del 10/09/2015, Scarpetti, Rv. 265330).
Del tutto insufficienti – all’evidenza agli stessi occhi della difesa che pure li ha evidenziati - sono invece in proposito gli elementi addotti.
Se la data di presentazione della comunicazione di inizio attività è stata fatta risalire al 25 luglio 2013, la modesta entità delle opere ha indotto a sostenere che i lavori, di cui era “lecito ritenere” l’inizio nell’immediatezza, fossero stati ultimati nel breve volgere di qualche giorno, sì da ritenere, “con sufficiente grado di certezza”, che le opere fossero state realizzate e rifinite nei primi giorni del mese di agosto 2013 (con ogni conseguenza circa la decorrenza della prescrizione quinquennale, trattandosi di contravvenzioni).
Va da sé che il ricorrente ha introdotto congetture, non elementi incontrovertibili, in ogni caso evitando di sollevare la questione avanti alla Corte di Appello, quantunque il dibattimento si sia svolto colà a prescrizione – in tesi – ormai maturata. Laddove, nella pienezza del contraddittorio, avrebbero potuto essere compiuti i relativi accertamenti di merito, ormai invece del tutto preclusi.
La censura, siccome proposta, è pertanto inammissibile.
4.3. Per quanto concerne il terzo motivo di ricorso, la Corte territoriale ha in effetti opportunamente ricordato quanto ripetutamente osservato – anche in fattispecie del tutto sovrapponibile alla presente vicenda - da questa Corte, nel senso che, ai fini della applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell’intervento abusivo - data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive - costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l’impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l’eventuale collegamento dell’opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall’amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell’intervento (in specie era stata appunto così esclusa la ricorrenza della speciale causa di non punibilità nel caso di concorrente violazione di legge urbanistica, antisismica e in materia di conglomerato in cemento armato) (Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso, Rv. 266586; Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, Rv. 265450; così anche Sez. 3, n. 51489 del 18/09/2018, B., Rv. 274108).
Né, al riguardo, sussiste illogicità alcuna della motivazione.
Ai fini invero dell’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cit., onde pervenire alla individuazione dell’offesa come di particolare tenuità, il giudice deve riferirsi ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., ma non è necessario che esamini tutti gli elementi addotti essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento, e che ha ritenuto rilevante e decisivo ai fini della sua scelta. Altra cosa infatti, rispetto ad es. al comportamento processuale valorizzabile ai fini del trattamento sanzionatorio ovvero della prognosi sulla futura condotta, è la valutazione congiunta delle concrete modalità della condotta e del danno che essa ha comportato e che, per essere meritevole della esclusione della pena, deve connotarsi come di particolare tenuità ossia di un danno minimale rispetto al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice ed al pericolo cagionato (cfr. altresì, Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone, Rv. 274647).
Del tutto correttamente, quindi, è stata valutata l’esclusione della non punibilità trattandosi della violazione invero di più norme, con la realizzazione di più opere abusive ancorché non particolarmente consistenti, con la creazione infine di nuova cubatura.
4.4. In relazione infine all’ultimo motivo di ricorso, in effetti l’atto di appello, contrariamente ai rilievi del ricorrente, non spende parola in ordine alla richiesta della non menzione. Ed invero anche la sentenza impugnata, ancorché abbia affermato che non si ravvisavano i presupposti di cui agli artt. 62-bis e 175 cod. pen., non ebbe ad evidenziare l’eventuale formulazione di espressa censura sul punto da parte dell’appellante (sulla necessità di specifico motivo di gravame, cfr. Sez. 3, n. 56100 del 09/11/2018, M., Rv. 274676).
In ogni caso, per completezza, va ricordato che il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale persegue finalità diverse rispetto a quello della sospensione condizionale della pena perché, mentre quest’ultima ha l’obiettivo di sottrarre alla punizione il colpevole che presenti possibilità di ravvedimento e di costituire, attraverso la possibilità di revoca, un’efficace remora ad ulteriori violazioni della legge penale, il primo ha lo scopo di favorire il ravvedimento del condannato mediante l’eliminazione della pubblicità quale particolare conseguenza negativa del reato, sicché non è contraddittoria la decisione che neghi uno dei due benefici e conceda l’altro (Sez.  3, n. 51580 del 18/09/2018, M., Rv. 274106).
4.4.1. Anche detto motivo di censura è manifestamente infondato, e quindi inammissibile.
5. Ne consegue pertanto, alla stregua delle considerazioni svolte, la complessiva  inammissibilità del ricorso, attesa la manifesta infondatezza di tutte le ragioni di censura.
Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 24/05/2019