Cass. Sez. III n. 25546 del 10 giugno 2019 (UP  14 mar 2019)
Pres. Ramacci Est. Reynaud Ric. Pinto
Urbanistica.Usufruttario non committente

In tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario – ma lo stesso vale per l’usufruttuario - non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo in loco e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 7 maggio 2018, la Corte d’appello di Lecce ha respinto gli appelli proposti dagli odierni ricorrenti e ha confermato la condanna loro inflitta alla pena di due mesi di arresto e 4.000 Euro di ammenda ciascuno per il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (d’ora in avanti, T.U.E.) per avere realizzato due manufatti in assenza di permesso di costruire.

2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dei suddetti imputati, deducendo i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

3. Con il primo motivo di ricorso, relativo alla posizione di Francesco Pinto, si deduce il vizio di mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine alla conferma della sua penale responsabilità, affermata in base al fatto che egli era usufruttuario del terreno ove furono realizzate le opere abusive benché sia stato accertato che il committente fu il figlio Cosimo Pinto. Secondo il ricorrente, allorquando il committente delle opere abusive sia stato individuato, non rileverebbe che vi sia stata o meno compartecipazione dell’usufruttuario alla luce degli elementi nella specie valorizzati dalla Corte d’appello. I due locali abusivi per cui è intervenuta condanna, poi, non insisterebbero neppure sul terreno di cui Francesco Pinto è usufruttuario.

4. Con il secondo motivo di ricorso, comune ad entrambi i ricorrenti, si lamenta violazione degli artt. 157 e 131-bis cod. pen. sul rilievo, per un verso, che i reati sarebbero prescritti, non essendovi in atti prova della precisa epoca in cui le opere sono state realizzate e, per altro verso, che il fatto era di particolare tenuità in relazione alle modeste dimensioni dei manufatti ed alla loro accessorietà rispetto al capannone abusivo oggetto di declaratoria di prescrizione già pronunciata in primo grado, essendo illogica la motivazione nella parte in cui afferma che sarebbe indimostrata la loro natura accessoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di Francesco Pinto è inammissibile per manifesta infondatezza e genericità, avendo la Corte territoriale richiamato e correttamente applicato la giurisprudenza di legittimità in materia di affermazione della penale responsabilità per reati urbanistici ed edilizi di chi vanti un diritto reale – proprietà, usufrutto e abitazione - sugli immobili abusivi che siano in (com)proprietà dell’autore materiale del reato. Ed invero, la giurisprudenza di questa Corte – che il Collegio condivide e ribadisce – è nel senso che, in tema di reati edilizi, la mera qualifica d'usufruttuario dell'immobile abusivamente realizzato è insufficiente ai fini dell'affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all'art. 44 T.U.E. in quanto è necessario un "quid pluris" che consenta l'attribuzione al medesimo della qualifica di committente ovvero di compartecipe con quest'ultimo nella commissione del reato (Sez.  3, n. 45072 del 24/10/2008, Lavanco e a., Rv. 241789). Ai predetti fini, i criteri che presiedono all’individuazione della corresponsabilità dell’usufruttuario non differiscono da quelli che sono stati enucleati con riguardo al comproprietario  che non sia committente.
1.1. Al proposito, è noto come questa Corte abbia da tempo composto un contrasto di giurisprudenza che aveva al proposito visto contrapporsi due diversi orientamenti. Abbandonata la più risalente tesi che individuava la fonte della responsabilità del contitolare di diritto reale di un terreno, che consapevolmente sia rimasto inerte a fronte dell’esecuzione da parte di altro titolare del diritto di una costruzione abusiva, nel disposto di cui all’art. 40, primo o secondo comma, cod. pen., ricavando anche una posizione di garanzia dall’art. 42, comma 2, Cost. (cfr., con diversi accenti, Sez. 3, 12/07/1999, Cuccì; Sez 3, 14/07/1999 Mareddu e a.; Sez. 3, 14/10/1999, Di Salvo; Sez. 3, 12/02/2000, Isaia; Sez. 3, 12/11/2002, Bombaci), si è successivamente affermato l’orientamento secondo cui il proprietario di un’area su cui viene realizzata una costruzione abusiva (e lo stesso può dirsi per l’usufruttuario), il quale sia rimasto estraneo alla relativa attività edificatoria anche in veste di semplice committente dei lavori, non ha – perché non impostogli da alcuna norma di legge – l’obbligo giuridico di impedire  o di denunciare l’attività illecita di costruzione abusiva da altri su detta area posta in essere (Sez. 3, 16/05/2000, Molinaro e a.). Anzi, si osservava richiamandosi la previsione oggi contenuta nell’art. 29 T.U.E., che la legge, «pur indicando alcuni soggetti (il titolare della concessione edilizia, il committente, il costruttore, il direttore dei lavori) che sono tenuti a garantire la conformità dell’opera alla concessione edilizia e pertanto sono da ritenere responsabili dell’eventuale costruzione in assenza di concessione, tra essi non include il proprietario del terreno. Or se non v’è alcuna norma di legge che impone a carico del proprietario dell’area l’obbligo di impedire la costruzione abusiva, è da escludere che un tale soggetto possa rispondere del reato edilizio sol perché è rimasto inerte dinanzi all’illecito commesso da altri» (Sez. 3, 04/04/1997, Celi; Sez. 3, 09/01/2003, Costa; nello stesso senso, più di recente, Sez. 3, n. 47083 del 22/11/2007, Tartaglia, Rv. 238471; Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013, Menditto, Rv. 257625).  
Quest’impostazione – divenuta largamente maggioritaria nella giurisprudenza di legittimità - è senza dubbio condivisibile, poiché l’inerzia di chi non rivesta una posizione di garanzia ai sensi dell’art. 29 d.P.R. T.U.E. non ha rilievo penale. La vera natura di tale disposizione, di fatti, non è quella – assegnatale dalla giurisprudenza tradizionale – di individuare i soggetti attivi di un presunto reato proprio che, salvo specifiche ipotesi, tale invece non è (v., di recente, Sez. 3, n. 45146 del 08/10/2015, Fiacchino e a., Rv. 265443), bensì quella di estendere la responsabilità penale delle figure indicate nel caso di omesso, costante, controllo, anche sulla condotta altrui, circa la conformità delle opere in corso d’esecuzione ai parametri di legalità sostanziale contenuti nel titolo, negli strumenti urbanistici, nelle disposizioni di legge. Tale forma di responsabilità non può dunque essere ascritta a soggetti diversi da quelli indicati nell’art. 29 T.U.E., e non può riguardare il (com)proprietario dell’immobile sul quale si eseguono i lavori abusivi, ovvero l’usufruttuario, che – non rivestendo alcuna delle altre qualità indicate nella disposizione - resti del tutto inerte rispetto all’altrui condotta illecita.
1.2. La conclusione, evidentemente, non esclude la possibile responsabilità penale del proprietario o dell’usufruttuario che – pur non essendo committente, costruttore o titolare del permesso di costruire (né, ovviamente, direttore dei lavori) – ponga in essere qualche contributo, materiale o anche soltanto morale, all’attività di illecita trasformazione del territorio posta in essere direttamente da terzi. Laddove, come nella specie con riguardo al ricorrente Francesco Pinto, vi sia con il committente un vincolo di parentela – ciò che peraltro spesso accade nella pratica – un consolidato orientamento di questa Corte ammette la possibilità di utilizzare elementi di prova indiziaria desunti dalla fattispecie concreta per dimostrare la sussistenza della responsabilità concorsuale.
Si è dunque affermato che in tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario – ma lo stesso vale per l’usufruttuario - non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo in loco e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a., Rv. 261522; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e a., Rv. 253065). Pena la sostanziale applicazione del ripudiato principio della responsabilità formale per il mero possesso della qualità, si è successivamente chiarito che la prova della responsabilità in tali casi non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto quali quelli più sopra indicati (Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanato, Rv. 268014).
 
2. Nel caso di specie, per Francesco Pinto la Corte territoriale ha valorizzato plurimi e concordanti elementi, vale a dire che: egli era usufruttuario del terreno sul quale gli edifici abusivi furono realizzati ed è dunque l’utilizzatore finale delle opere secondo le norme civilistiche (la contestazione dell’assunto che si legge al terzo foglio del ricorso, peraltro contraddittoria con quanto in altra parte affermato, è del tutto generica e inidonea a dimostrare il travisamento della prova); è il padre del committente; viveva nella stesso comune e si recava sul posto durante l’esecuzione delle opere abusive; era stato lui a realizzare abusivamente il corpo di fabbrica principale che è stato dichiarato prescritto in primo grado e di cui, secondo l’assunto dei ricorrenti, i due più piccoli manufatti costituivano locali accessori.
Diversamente da quanto si deduce in ricorso, dunque, tali plurimi e convergenti elementi indiziari supportano non illogicamente l’affermazione della corresponsabilità quantomeno a livello di concorso morale.

3. Del pari inammissibile per genericità e manifesta infondatezza è il secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse di entrambi gli imputati.
3.1. Quanto alla prescrizione, la sentenza impugnata attesta che alla data del 12 febbraio 2014 le opere abusive erano ancora in fase di realizzazione e i ricorrenti non contestano tale accertamento, sicché il reato non era certo prescritto alla data della pronuncia della sentenza di secondo grado.
3.2. Quanto all’esclusione della particolare tenuità del fatto, la stessa poggia sul rilievo che erano state realizzate più opere abusive di dimensioni non trascurabili e la pena – non fatta neppure oggetto di contestazione in questa sede – non è stata neppure applicata nel minimo edittale, ad ulteriore conferma che il disvalore penale del fatto non può dirsi tenue. Si tratta di una valutazione di merito non manifestamente illogica e quindi non sindacabile in questa sede, essendo peraltro del tutto irrilevante accertare se i due manufatti abusivi oggetto della condanna fossero o meno legati da accessorietà rispetto al più ampio capannone parimenti abusivo per cui, già in primo grado, è stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per prescrizione, non potendo certo questo essere indice di minor gravità, deponendo, semmai, per il carattere non occasionale della condotta.

4. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità,  consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00 ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di €. 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 14 marzo 2019.