Espropriazione indiretta o larvata di beni privati.
(Nota a TAR Umbria, n. 41 del 16/1/2014)

di Massimo GRISANTI

Si segnala la sentenza n. 41/2014 del TAR Umbria (riportata in calce) in ordine alla cd. espropriazione indiretta o larvata dei beni privati mediante l’occupazione ad opera della P.A.

 

I Giudici amministrativi umbri, che avrebbero voluto operare il rinvio pregiudiziale alla CEDU, censurano “la possibilità di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e da quello autoritativo del procedimento espropriativo ed in particolare ogni fenomeno di creazione pretoria di acquisto della proprietà mediante fatto illecito.”.

 

Precisano che “l’apprensione materiale del bene da parte dell’Amministrazione al di fuori di una legittima procedura espropriativa o di un procedimento sanante (art. 42-bis D.p.r. 327/2001) se idonea a costituire possesso utile ai fini dell’acquisto per usucapione, rischia allora di reintrodurre nell’ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata per giunta “a costo zero” per l’Amministrazione, dal momento che la cd. retroattività reale dell’usucapione estingue anche ogni pretesa risarcitoria”.

 

Proseguendo nel dire che sussiste “la problematicità dell’estensione sic et simpliciter dell’istituto civilistico dell’usucapione alle occupazioni materiali da parte della P.A. preordinatre alla realizzazione delle opere pubbliche, potendo esse qualificarsi (specie nel regime antecedente l’entrata in vigore del t.u. espropri) non quali “impedimenti di fatto” ma quali veri e propri “impedimenti legali” all’esercizio del diritto del proprietario di compiere atti interruttivi del possesso utili all’usucapione, e come tale sarebbe giustificata l’applicazione dell’art. 2935 c.c. – secondo cui la prescrizione decorre “dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” – anche all’istituto della usucapione, con conseguente individuazione del dies a quo dall’entrata in vigore del D.p.r. 8 giugno 2001 n. 327, il cui art. 43 ha sancito il superamento normativo dell’istituto del’occupazione acquisitiva (così T.A.R. Lazio – Roma sez. II bis, 2 ottobre 2009, n. 9557). E’ chiaro come seguendo quest’ultima opzione, l’usucapione, pur in linea di principio applicabile, sarebbe allo stato attuale di fatto non invocabile, lungi dall’essere maturato il ventennio di possess ininterrotto richiesto dall’art. 1158 c.c.”.

 

Inoltre, “circostanza dirimente pare al Collegio anche la specialità della disciplina pubblicistica in materia di espropriazione per pubblica utilità e di incisione da parte del potere autoritativo sul diritto di proprietà, con il correlato specifico apparato strumentale di tutela, che mal si concilia rispetto ad un approccio puramente privatistico, presupponente l’intervento dell’Amministrazione sul fondo iure privatorum ovvero come semplice soggetto privato. Emblematico.”.

 

Concludendo che “alla luce delle suesposte considerazioni, si conferma assai opinabile in subiecta materia l’operatività dell’istituto dell’usucapione, poiché in base ad una doverosa interpretazione costituzionalmente orientata (art. 117 c. 1 Cost. e art. 1 Prot. Add. C.E.D.U.) pur essendo esso previsto dalla legge e potendo svolgere una funzione di “chiusura del sistema”, rischia di tradursi in una forma di acquisto a titolo originario da parte dell’Amministrazione responsabile dell’illecito completamente al di fuori dello strumento consensuale o autoritativo, quale situazione di fatto che integra comunque a pieno titolo – secondo la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo – un fatto illecito di tipo permanente, che non può mai assurgere a titolo di acquisto della proprietà.”.

 

 

*

 

Ciò posto e condividendo pressoché in toto la posizione dei Giudici umbri, a mio sommesso avviso è opinabile l’affermazione che la legge prevede la possibilità, per la P.A., di ricorrere all’usucapione.

 

Si rammenta che la legge n. 15/2005 modificò ampiamente l’art. 1 della legge n. 241/1990 in ordine all’azione amministrativa.

 

Tra i “Principi generali dell'attivita' amministrativa”, fu introdotta la disposizione del comma 1-bis, la quale recita: “La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.”.

 

Appare evidente che il ricorso alle norme di diritto privato è stato riconosciuto possibile dal legislatore unicamente per atti di natura non autoritativa. Sono quindi da escludersi quelli che comportano un qualsiasi tipo di espropriazione (come ad esempio la realizzazione di opere stradali ecc.), dal momento che la legge in materia di pubbliche espropriazioni non contempla il ricorso agli accordi.

 

Ecco, quindi, che per la P.A. non esiste alcuno spazio – né, a mio avviso, è mai esistito – per avvalersi dell’istituto dell’usucapione al fine di giustificare la realizzazione di opere pubbliche che confluiscono nel patrimonio indisponibile dell’ente.

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Scritto il 16/03/2014

 

 

N. 00041/2014 REG.PROV.COLL.

N. 00508/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Umbria

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA NON DEFINITIVA

sul ricorso numero di registro generale 508 del 2011, proposto da:

Silvia, Gina e Norberto Mangiabene, tutti rappresentati e difesi dall’ avv. Giorgio Fregni, con domicilio eletto presso l’avv. Francesco Sardegna, in Perugia, corso Cavour, 25;

contro

Comune di Città della Pieve, rappresentato e difeso dagli avv. Roberto Baldoni e Mario Rampini, con domicilio eletto presso Mario Rampini, in Perugia, piazza Piccinino n.9;

ASL n. 2 - Perugia, rappresentata e difesa dagli avv. Giuseppe Marruco e Giulia Silvestri, con domicilio eletto presso Giulia Silvestri, in Perugia, via Guerra, 21;

per la condanna

del Comune di Città della Pieve e dell’ASL n.2 di Perugia, in solido, al risarcimento di tutti i danni patiti dai ricorrenti derivanti dal fatto illecito permanente rappresentato dall’irreversibile trasformazione dell’area di relativa proprietà, unitamente a rivalutazione monetaria ed interessi legali.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Città della Pieve e dell’ ASL n.2 di Perugia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 novembre 2013 il dott. Paolo Amovilli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Visto l'art. 36, co. 2, cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Espongono gli odierni ricorrenti di essere comproprietari pro quota di area sita nel Comune di Città della Pieve, contraddistinta catastalmente al foglio 57 mappali 605, 606 e 119, per un totale di 4.040 mq., interessata da procedura espropriativa posta in essere dall’Amministrazione comunale per la realizzazione di opera pubblica (centrale termica, inceneritore e gruppo elettrogeno) come da progetto approvato con del. C.C. n. 40 del 17 marzo

1982.

Precisamente, con ordinanza n.16 del 18 maggio 1982 l’Amministrazione ha disposto l’occupazione dei terreni ed il 16 ottobre 1982 l’immissione in possesso, a cui è seguita la realizzazione dell’ opera peraltro diversa (camera ardente) da quella programmata e senza l’emanazione nemmeno tardiva del decreto di esproprio.

Nel frattempo, ai sensi dell’art. 5 del D.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502, l’intero patrimonio immobiliare comunale con destinazione sanitaria è stato trasferito all’ASL - 2 di Perugia.

Con il ricorso in epigrafe gli odierni istanti demandano l’accertamento del diritto al risarcimento di tutti i danni patiti a causa della predetta occupazione e dell’intervenuta irreversibile trasformazione del proprio fondo, divenuta illecita a decorrere dalla scadenza del termine di cinque anni dall’immissione in possesso, consistenti nel valore venale dell’area illecitamente occupata (da attualizzarsi alla data del formale trasferimento della proprietà in favore dell’ASL secondo perizia di parte depositata in giudizio), nel mancato godimento del bene per il periodo di occupazione sine titulo ovvero dal 16 ottobre 1982 o in subordine dal 16 ottobre 1987 sino ad oggi, nel pregiudizio non patrimoniale sofferto con richiesta di applicazione in via estensiva o analogica dell’art. 42-bis del D.p.r. 327/2001 (dieci per cento del valore venale del bene) o nella diversa misura ritenuta equa.

In via istruttoria chiedono l’espletamento di apposita CTU finalizzata alla stima del valore attuale di mercato dell’area per cui è causa.

Si è costituita l’ASL - 2 di Perugia, rappresentando che in data 18 giugno 1983 è intervenuta dichiarazione di cessione volontaria delle aree oggetto di esproprio da parte dei sig.ri Mangiabene Leonetto e Parrini Cristina, cessione poi effettivamente disposta con deliberazione n. 88 del 8 luglio 1983 e perfezionatosi con scrittura privata quanto alla sola Gina Mangiabene in data 21 settembre 1996. L’Azienda sanitaria pur contestando la quantificazione operata dai ricorrenti, non si oppone alla domanda di condanna avanzata, chiedendo comunque l’accertamento del proprio diritto di rivalsa nei confronti del Comune di Città della Pieve.

Si è costituito il Comune di Città della Pieve, eccependo preliminarmente l’inammissibilità dell’azione risarcitoria, stante l’intervenuto perfezionamento dell’usucapione ventennale del terreno oggetto del decreto di occupazione, dovendosi individuare il dies a quo per la decorrenza del termine del possesso utile, ai sensi dell’art. 1158 c.c., nella stessa immissione in possesso (16 ottobre 1982) o, al più tardi, nella scadenza del quinquennio di efficacia dell’occupazione legittima, vale a dire il 17 ottobre 1987. L’intervenuto acquisto del bene a titolo originario per usucapione, stante la tipica retroattività reale, farebbe venir meno qualunque pretesa anche risarcitoria sul bene da parte degli originari proprietari.

Inoltre, la difesa comunale eccepisce in via subordinata:

- l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno richiesto;

- la riconducibilità del danno, ai sensi dell’art. 1227 c.c., anche al comportamento degli stessi ricorrenti, per non aver colpevolmente voluto concludere l’avviato procedimento per la cessione volontaria;

- l’inammissibilità della richiesta risarcitoria quanto al danno patrimoniale consistente nel valore venale dell’area, risultandone tutt’ora i ricorrenti proprietari, non potendosi riconnettere all’occupazione acquisitiva, per giurisprudenza pacifica, alcun effetto traslativo e potendosi soltanto ammettere una tutela in forma specifica, non chiesta;

- l’erroneità per eccesso della quantificazione del danno operata dal perito nominato dai ricorrenti.

Con successive memorie la difesa dei ricorrenti ha replicato, in particolare:

- il mancato perfezionamento delle avviate trattative per addivenire alla cessione volontaria, per cause ad essi non imputabili, non avrebbe potuto esimere il Comune resistente dall’obbligo di concludere il procedimento espropriativo mediante decreto di esproprio o atto di “acquisizione coattiva sanante” (oggi art. 42-bis t.u. espropriazioni);

- il mancato incameramento di somme di denaro a titolo di acconto dell’indennità dovuta, essendovi prova soltanto dell’emissione di mandati di pagamento;

- l’inammissibilità della domanda riconvenzionale di usucapione, ampliativa del thema decidendum fissato con il ricorso introduttivo, perché contenuta in memoria non notificata,;

- l’infondatezza comunque della domanda riconvenzionale, non essendo invocabile in subiecta materia l’istituto di cui all’art. 1158 c.c.; anche a volerne ammettere l’applicabilità, sarebbe risolutiva l’interruzione del termine utile per usucapire derivante dal ripetuto espresso riconoscimento da parte di entrambe le Amministrazioni convenute del diritto di proprietà da parte degli odierni istanti;

- l’ammissibilità della avanzata richiesta risarcitoria quanto al danno patrimoniale consistente nel valore venale dell’area, potendo il g.a. accoglierla subordinatamente all’ordine di adozione da parte dell’Amministrazione del provvedimento sanante di cui all’art. 42-bis. t.u. espropriazioni, tanto più in considerazione della manifestazione per facta concludentia della volontà di mantenere l’utilizzo dell’area, irreversibilmente trasformata con la realizzazione di opera pubblica utilizzata e rispondente agli interessi della collettività.

Con ulteriore memoria la difesa comunale ha controdedotto sull’eccepita inammissibilità dell’eccezione di intervenuta usucapione, evidenziando di aver sollevato tale questione nell’atto di costituzione in giudizio sia quale

vera e propria domanda riconvenzionale con richiesta di sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. per l’esame della domanda da parte del g.o., sia quale eccezione volta a paralizzare la domanda risarcitoria, su cui sussisterebbe la giurisdizione del g.a. quale questione pregiudiziale su diritti ai sensi dell’art. 8 del cod. proc. amm. al fine di pervenire ad una declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo per difetto di interesse.

Le parti hanno svolto difese in vista della pubblica udienza del 6 novembre 2013, nella quale la causa è passata in decisione.

2. E’materia del contendere l’azione risarcitoria promossa in solido nei confronti del Comune di Città della Pieve e dell’ASL 2 di Perugia per tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dai ricorrenti in conseguenza dell’occupazione preordinata all’espropriazione effettuata nel 1982 e mai conclusasi con l’emanazione del decreto di esproprio, pur a fronte della completa realizzazione dell’opera pubblica. Trattasi, pertanto, di domanda di risarcimento da occupazione divenuta sine titulo, avendo definitivamente espunto la giurisprudenza gli stessi istituti dell’occupazione acquisitiva ed usurpativa (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 15 febbraio 2013, n.914) pacificamente rientrante nella giurisdizione esclusiva del g.a. di cui alla lett. g) comma 1, dell'art. 133 del Codice del processo amministrativo approvato con D.lgs. 2 luglio 2010 n.104. Infatti, è oramai principio consolidato sia nella giurisprudenza amministrativa che della Cassazione, come siano devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione - naturalmente anche ai fini complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi (ex multis Consiglio Stato Adunanza Plenaria, 30 luglio 2007, n. 9; id. 22 ottobre 2007, n.12; T.A.R. Lombardia Milano 30 marzo 2011, n.854; T.A.R. Sicilia Catania sez. III, 10 febbraio 2011, n.290; Consiglio di Stato sez IV, 28 gennaio 2011, n.676; id. sez V, 2 novembre 2011, n.5844, Cassazione Sezioni Unite, 9 luglio 2009, n.16093).

Tale assunto, maturato a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, n.204 e 11 maggio 2006, n.191 (dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art 53 comma 1 d.p.r. 327/2001) trova oggi riscontro anche sul piano normativo, in ragione della previsione contenuta nella lett. g) comma 1, dell'art. 133 del Codice del processo amministrativo approvato con d.lgs. 2 luglio 2010 n.104, ai sensi del quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità”.

Ragion per cui costituisce ormai ius receptum l’appartenenza alla giurisdizione del g.a. delle domande di risarcimento di tutti i danni patiti in conseguenza dell’illegittima apprensione di terreni privati (T.A.R. Lombardia - Milano sez II, 30 marzo 2011, n.854; Consiglio di Stato sez V, 2 novembre 2011, n.5844; id. 15 febbraio 2013, n.914) ad eccezione delle sole occupazioni riconducibili a “mere vie di fatto”, anche quindi in ipotesi di occupazione originariamente legittima ma divenuta illecita per effetto della perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, circostanza che concreta un illecito di carattere permanente (ex plurimis Consiglio di Stato sez VI, 9 giugno 2010, n.3655, id. sez IV, 21 aprile 2009, n.2420).

2.1. Ciò premesso in punto di giurisdizione quanto alla domanda di condanna formulata con il ricorso introduttivo, deve essere preliminarmente affrontata l’eccepita questione dell’intervenuta usucapione in favore dell’Amministrazione sull’area per cui è causa, idonea a determinare, se fondata, la definizione del giudizio con sentenza in rito di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse (G.G.A.S. 14 gennaio 2013, n.9) a cui è pregiudizialmente sottesa l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dai ricorrenti.

L'art. 133 comma 1, lett. g) c.p.a. devolve, come detto, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi ed i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere della p.a. in materia di espropriazione per pubblica utilità.

Il giudice amministrativo, inoltre, ex art. 8 c.p.a. può conoscere, seppur solo in via incidentale e senza efficacia di giudicato "tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale"; pertanto, ai sensi del citato art. 8, il giudice amministrativo ha il potere di pronunciarsi, incidenter tantum, soltanto su questioni pregiudiziali, ancorché veicolate in via di eccezione, attinenti a diritti (con esclusione, in ogni caso, dell'incidente di falso e delle questioni sullo stato e capacità delle persone), ai circoscritti fini della soluzione della vertenza ad esso demandata in via principale.

2.2. Ciò premesso, deve essere indagata la possibilità per il giudice amministrativo di esaminare la domanda riconvenzionale e/o l’eccezione (di tipo riconvenzionale) nell’ambito del presente giudizio, come detto avente ad oggetto principaliter unicamente la domanda di risarcimento dei danni per equivalente in conseguenza dell’irreversibile trasformazione del fondo in seguito all’occupazione preordinata all’espropriazione effettuata dall’Amministrazione, divenuta illecita a decorrere dalla scadenza della dichiarazione di pubblica utilità, pacificamente rientrante - come anticipato - nella giurisdizione esclusiva del g.a. in quanto comportamento pur sempre riconducibile all’esercizio di un potere autoritativo ovvero alla dichiarazione di pubblica utilità, pur se divenuta inefficace.

Secondo la tesi richiamata dalle stesse parti, ove la questione dell’intervenuta usucapione fosse oggetto di vera e propria domanda riconvenzionale tesa ad accertare con efficacia di giudicato l’intervenuto acquisto a titolo originario della proprietà da parte dell’Amministrazione, incompatibile con l’azione di risarcimento da occupazione sine titulo, difetterebbe la giurisdizione del g.a. (G.G.A.S. 14 gennaio 2013, n.9) in favore del. g.o. Ove invece l’usucapione venga fatta valere in via di “eccezione riconvenzionale”, cioè al solo fine di paralizzare l’azione risarcitoria senza richiesta di accertamento della sussistenza di tale rapporto e connesso ampliamento del thema decidendum, la giurisdizione spetterebbe al g.a. in forza del generale principio di cui all’art. 8 cod. proc. amm.

Corollario non trascurabile di tale cognizione incidenter tantum sarebbe sia nell’ipotesi di rigetto che di accoglimento dell’eccezione, la possibilità per la parte soccombente di adire il giudice ordinario ai fini dell’esercizio di azione di rivendica o di accertamento dell’inesistenza del diritto di proprietà in capo all’Amministrazione, con evidenti problematiche in tema di violazione del principio di concentrazione ed effettività della tutela giurisdizionale, a meno di non voler considerare come questione deducibile e quindi coperta dal giudicato amministrativo la mancata rituale deduzione in tal giudizio del perfezionamento dell’usucapione quale fatto impeditivo rispetto al diritto al risarcimento del danno in forma specifica o per equivalente.

2.3. Ritiene il Collegio che in presenza di controversia - quale quella per cui è causa - rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ed interessata parallelamente da domanda consequenzialmente nascente da pretesa di diritto privato, possa affermarsi, in forza del principio di concentrazione ed effettività della tutela giurisdizionale, la necessità del giudizio unitario da parte del g.a. a prescindere dalla stessa distinzione tra eccezione riconvenzionale e domanda riconvenzionale; a questo proposito va evidenziato come le stesse Sezioni Unite della Cassazione - seppur in modo non univoco e comunque non in riferimento alla materia espropriativa - hanno ritenuto che le norme costituzionali sul giusto processo e sulla sua ragionevole durata (art. 111 Cost.) e sul diritto di

difesa (art. 24 Cost.), coordinate con l'art. 103 Cost., escludono la possibilità di scindere il processo in tronconi affidati a giurisdizioni diverse ed impongono il giudizio unitario, di modo che è stata ritenuta prevalente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e si è rimessa allo stesso anche la decisione sulle domande accessorie su cui avrebbe dovuto pronunziarsi il giudice ordinario (Sez. Un. 28 febbraio 2007, n. 4636; id. e 27 luglio 2005, n. 15660).

Ad ogni modo, il Comune resistente ha indubbiamente introdotto in giudizio il fatto della intervenuta usucapione nella forma della c.d. eccezione di tipo riconvenzionale, al solo fine di paralizzare la domanda risarcitoria ex adverso proposta, nel dichiarato presupposto della estraneità della domanda riconvenzionale alla giurisdizione pur esclusiva del g.a., senza chiedere alcun accertamento pieno dell’acquisto a titolo originario dell’area in questione ai sensi dell’art. 1158 c.c.

2.4. Va sul punto evidenziato che la giurisprudenza civile ha da tempo elaborato accanto alla domanda riconvenzionale e all’eccezione, la nozione della c.d. eccezione riconvenzionale, laddove il convenuto pur chiedendo

l’accertamento eventualmente anche costitutivo di un rapporto diverso e più ampio, si prefigge esclusivamente di paralizzare l’azione, con ciò differenziandosi dalla domanda riconvenzionale vera e propria, laddove l’accertamento del rapporto diverso mira ad ottenere qualcosa di più o di diverso (ex multis Cassazione 13 novembre 1997, n.11232; id. 17 marzo 1990, n.2235; id. 20 gennaio 1997, n.538) e applicando senza esitazioni alle eccezioni riconvenzionali la disciplina processuale propria delle eccezioni (Cassazione civ. sez. III 13 giugno 2013, n. 14852).

2.5. Ne consegue de plano la giurisdizione dell’adito T.A.R. ai sensi dell’art. 8 cod. proc. amm. sull’”eccezione riconvenzionale” di usucapione formulata dal Comune resistente e la sua ammissibilità con memoria non notificata.

2.6. Non merita condivisione, infine, l’eccezione dei ricorrenti di difetto di legittimazione del Comune, argomentata dal rilievo per cui sarebbe diretta al riconoscimento dell’acquisto della proprietà dei beni per cui è causa da parte di un ente terzo (appunto l’ASL resistente) per altro disinteressatasi dal rilevarla; ritiene il Collegio assorbente il rilievo per cui l’eccezione di intervenuta usucapione, se accolta, varrebbe a paralizzare la pretesa risarcitoria dei ricorrenti diretta anche nei confronti dell’Amministrazione comunale, il che comporta la piena legittimazione attiva anche sotto questo profilo.

3. Deve dunque essere esaminata la circostanza asseritamente affermata dal Comune in merito all’intervenuto acquisto a titolo originario ex art. 1158 c.c. a decorrere dal 16 ottobre 2012 o dal 17 ottobre 1987 del terreno originariamente appartenuto agli odierni ricorrenti.

3.1. La questione dei rapporti tra l’istituto civilistico dell’usucapione e quello dell’occupazione sine titulo e conseguente trasformazione da parte della P.A. di un bene privato e connessi aspetti in tema di tutela restitutoria e risarcitoria, risulta quanto mai delicata, non solo sotto il profilo strettamente civilistico, quanto e soprattutto in riferimento alla compatibilità con l’art. 1 del Protocollo Addizionale della C.E.D.U..

Secondo la prevalente tesi oggi invalsa sia presso la giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Lazio Roma sez II bis, 2 ottobre 2009, n.9557; T.A.R. Abruzzo, 26 giugno 2008, n.860; T.A.R. Basilicata 2 gennaio 2008, n.4; T.A.R. Sicilia Palermo sez III, 5 luglio 2012, n. 1402; C.G.A.S. 14 gennaio 2013, n. 9; T.A.R. Puglia Lecce sez III, 15 novembre 2013, n.2310) che ordinaria (Cassazione civ. sez I, 4 luglio 2012, n. 11147; id. sez. III, 8 settembre 2008, n.17570) l’usucapione sarebbe pienamente applicabile in favore della PA anche alle occupazioni preordinate alla realizzazione di opere pubbliche laddove vi sia possesso protrattosi ininterrottamente per venti anni, quale “valvola di chiusura del sistema” (T.A.R. Lazio - Roma sez II bis, 2 ottobre 2009, n. 9557) altrimenti dovendosi riconoscere la perpetuità di azione di restitutio in integrum o risarcitoria da parte del soggetto privato vittima dell’occupazione, fermo restando la problematica della corretta individuazione del momento della “interversio possessionis”.

Così opinando, il possesso da parte dell’Amministrazione non sarebbe né violento né clandestino (1163 c.c.) e sarebbe pertanto utile ai fini del perfezionamento dell’usucapione, fermo solo restando appunto la necessità di individuare l’interversio possessionis che la giurisprudenza identifica, non senza incertezze, nell’immissione in possesso (T.A.R. Abruzzo, 26 giugno 2008, n.860; T.A.R. Basilicata 2 gennaio 2008, n.4) o - più correttamente - nella intervenuta scadenza del periodo di occupazione legittima (T.A.R. Sicilia Palermo sez III, 5 luglio 2012, n. 1402; C.G.A.S. 14 gennaio 2013, n. 9; T.A.R. Puglia Lecce sez III, 15 novembre 2013, n.2310) oppure ancora alla data di entrata in vigore del D.p.r. 8 giugno 2001 n. 327 (vedi l’isolata ma ampiamente motivata T.A.R. Lazio - Roma sez II bis, 2 ottobre 2009, n. 9557).

Secondo invece altra tesi minoritaria, ai fini di una valida "interversio possessionis" devono ritenersi insufficienti i meri atti di esercizio del possesso, quali, nel caso dell'apprensione materiale di un terreno edificabile, l'inizio e finanche il compimento di una attività edificatoria (nella specie la realizzazione di una strada pubblica): e ciò, in quanto tali atti non sono specificamente rivolti " contro il possessore " (art. 1141 comma 2 c.c.), giacché, secondo i principi generali, tutto ciò che viene edificato sul suolo accede di diritto alla proprietà di esso (omne quod inaedificatur solo cedit - art. 934 c.c.); tali attività non concretano dunque una valida interversione del possesso, ma soltanto una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla mera detenzione materiale del bene in forza del decreto di occupazione di urgenza (così T.A.R. Liguria sez. I, 23 novembre 2011, n. 1635; vedi anche T.A.R. Toscana sez I, 22 gennaio 2013, n.84 che nega radicalmente che il possesso sine titulo da parte dell’Amministrazione, integrando un illecito permanente, possa dirsi utile ai fini dell’usucapione).

Ciò evidenziato, deve riconoscersi come la Cassazione ritenga l’usucapione di contro invocabile anche in favore del privato, pur essendo pendente innanzi alle Sezioni Unite (Cassazione sez II, ordinanza 28 novembre 2012, n. 21121) la questione concernente l’individuazione, anche in tal caso, del momento della interversione del possesso in ipotesi di possesso continuativo da parte del privato sia in epoca anteriore che posteriore all’emanazione del decreto di esproprio, essendo in particolare dubbia l’idoneità o meno del decreto a determinare la perdita dell’” animus possidendi”; va inoltre rilevato come l’usucapione sia istituto previsto anche in altri ordinamenti giuridici, seppur con significativi tratti distintivi (vedi art. 900 B.G.B.) e risponda all’interesse generale alla certezza dei rapporti giuridici

3.2. Ritiene il Collegio in linea di principio assai discutibile la teorizzata usucapibilità di beni illecitamente occupati dall’Amministrazione, non tanto alla luce dell’ampia nozione di violenza del possesso elaborata dalla giurisprudenza (ex multis Cassazione civ. sez. II, 7 dicembre 2012, n. 22174) laddove pur si afferma la presunzione di volontà contraria del possessore ove manchi la prova di una manifestazione univoca di consenso, quanto ai fini della assai dubbia compatibilità con l’art. 1 del Protocollo Addizionale della CEDU - la quale risulta non ancora compiutamente affrontata in giurisprudenza - secondo cui ” Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.”

La costante giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (seconda sezione, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, n. 31524/96; terza Sezione, 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia, n. 14793/02), ha come noto più volte affermato la non conformità alla Convenzione (in particolare, al citato Protocollo addizionale n. 1) dell'istituto della cosiddetta "espropriazione indiretta o larvata", censurando la possibilità di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e da quello autoritativo del procedimento espropriativo ed in particolare ogni fenomeno di creazione pretoria di acquisto della proprietà mediante fatto illecito.

La disciplina sovranazionale contenuta nella C.E.D.U., anche a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1 dicembre 2009), diversamente dalla Carta di Nizza, pur non avendo assunto forza di diritto comunitario (secondo tesi pur sostenuta, vedi Consiglio di Stato sez IV, 2 marzo 2010, n.1220; T.A.R. Lazio Roma sez II-bis, 18 maggio 2010, n. 11984 che opinano in termini di disapplicazione) bensì di “norma costituzionale interposta” ex art 117 c. 1 Cost. (Corte Costituzionale 11 marzo 2011, n.80, id. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349) impone al giudice l’interpretazione delle norme interne primarie conformemente, ove possibile, alla C.E.D.U. quale parametro di legittimità costituzionale interposto (art. 117 c. 1 Cost.) ed in caso di insanabile contrasto, di sollevare la questione di legittimità costituzionale.

L’apprensione materiale del bene da parte dell’Amministrazione al di fuori di una legittima procedura espropriativa o di un procedimento sanante (art. 42-bis D.p.r. 327/2001) se idonea a costituire possesso utile ai fini dell’acquisto per usucapione, rischia allora di reintrodurre nell’ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata per giunta “a costo zero” per l’Amministrazione, dal momento che la c.d. retroattività reale dell’usucapione estingue anche ogni pretesa risarcitoria (ex multis Cassazione civ. sez III, 8 settembre 2006, n.19294; id. sez. II 24 febbraio 2009, n.4434;T.A.R. Basilicata 2 gennaio 2008, n.4; T.A.R. Puglia – Lecce sez I, 8 luglio 2004, n.4916).

Preme evidenziare come per giurisprudenza consolidata, l’interruzione dell’usucapione può avvenire oltre che con la perdita materiale del possesso soltanto con la proposizione di apposita domanda giudiziale, non essendo all’uopo sufficienti atti di contestazione, diffida o messa in mora (ex multis Cassazione civ, 11 giugno 2009, n.13625; id. sez. II, 11 luglio 2011, n.15199); per giurisprudenza altrettanto pacifica quantomeno sino all’entrata in vigore del D.p.r. 327/2001, inoltre, risultava radicalmente preclusa, da parte della vittima dell’occupazione preordinata all’esproprio, l’azione di restitutio in integrum, qualificando l’occupazione acquisitiva più che un mero fatto illecito, una vera e propria “fattispecie ablatoria seppur atipica” (Corte Costituzionale 23 maggio 1995, n.188, Corte Costituzionale 30 aprile 1999, n.148, Cassazione civile sez I, 6 giugno 2000, n.7583).

3.3. Tali preclusioni rendono evidente la problematicità dell’estensione sic et simpliciter dell’istituto civilistico dell’usucapione alle occupazioni materiali da parte della PA preordinate alla realizzazione di opere pubbliche, potendo esse qualificarsi (specie nel regime antecedente l’entrata in vigore del t.u. espropri) non quali “impedimenti di fatto” ma quali veri e propri “impedimenti legali” all’esercizio del diritto del proprietario di compiere atti interruttivi del possesso utili all’usucapione, e come tale sarebbe giustificata l’applicazione dell’art 2935 c.c. - secondo cui la prescrizione decorre “dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” - anche all’istituto della usucapione, con conseguente individuazione del dies a quo dall’entrata in vigore del D.p.r. 8 giugno 2001 n. 327, il cui art. 43 ha sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva (così T.A.R. Lazio - Roma sez II bis, 2 ottobre 2009, n.9557). E’ chiaro come seguendo quest’ultima opzione, l’usucapione, pur in linea di principio applicabile, sarebbe allo stato attuale di fatto non invocabile, lungi dall’essere maturato il ventennio di possesso ininterrotto richiesto dall’art. 1158 c.c..

3.4. Circostanza dirimente pare al Collegio anche la specialità della disciplina pubblicistica in materia di espropriazione per pubblica utilità e di incisione da parte da parte del potere autoritativo sul diritto di proprietà, con il correlato specifico apparato strumentale di tutela, che mal si concilia rispetto ad un approccio puramente privatistico, presupponente l’intervento dell’Amministrazione sul fondo iure privatorum ovvero come semplice soggetto privato. Emblematico è il decisivo superamento da parte del Consiglio di Stato (sez. IV, 3 ottobre 2012, n. 5189) e della stessa Cassazione (sez. I, 23 agosto 2012, n. 14609) dei numerosi tentativi da parte della giurisprudenza amministrativa di prime cure volta a negare o a limitare fortemente la tutela restitutoria (comunemente riconosciuta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo quale tutela primaria) in ipotesi di occupazione sine titulo mediante la pretesa trasposizione degli istituti civilistici di cui agli artt. 940 c.c. (T.A.R. Puglia - Lecce sez I, 24 novembre 2010, n. 2613) 936 c.c. (T.A.R. Campania Napoli sez V, 18 gennaio 2011, n.262) 2058 e 2933 c.c. (T.A.R. Emilia Romagna - Parma 12 luglio 2011, n.245).

3.5. Alla luce delle suesposte considerazioni, si conferma assai opinabile in subiectamateria l’operatività dell’istituto dell’usucapione, poiché in base ad una doverosa interpretazione costituzionalmente orientata (art. 117 c. 1 Cost. e art. 1 Prot. Add. C.E.D.U.) pur essendo esso previsto dalla legge e potendo svolgere una funzione di “chiusura del sistema”, rischia di tradursi in una forma di acquisto a titolo originario da parte dell’Amministrazione responsabile dell’illecito completamente al di fuori dello strumento consensuale o autoritativo, quale situazione di fatto che integra comunque a pieno titolo - secondo la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo - un fatto illecito di tipo permanente, che non può mai assurgere a titolo di acquisto della proprietà.

Del resto, va non da ultimo evidenziato come secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (17 maggio 2005, Scordino c. Italia) risultava di dubbia compatibilità con il citato art.1 del Protocollo Addizionale lo stesso istituto di “acquisizione sanante” di cui all’art. 43 del t.u. espropriazioni, in quanto sorgente “dalle ceneri di un illecito”, di per sé molto più garantista per la tutela del diritto di proprietà, essendo ivi previsto il pieno ristoro del danno patrimoniale per la perdita del bene pari al valore di mercato.

3.6. Per tutte le suesposte considerazioni sarebbe pertanto rilevante e opportuno ai fini della decisione, il “rinvio pregiudiziale” alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, recentemente introdotto dall’art. 1 del Protocollo n. 16 alla Convenzione E.D.U., approvato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2013 ma non ancora entrato in vigore, pur trattandosi - a differenza del rinvio alla Corte di Giustizia di cui all’art. 267 Trattato UE - di parere consultivo non vincolante (art. 5 Protocollo n. 16 alla Convenzione E.D.U.).

3.7. Ad ogni modo, ai fini del presente giudizio può allo stato prescindersi dal dirimere compiutamente la questione della compatibilità dell’art. 1158 c.c. con l’art. 1 del Protocollo Addizionale della C.E.D.U., dal momento che l’invocato acquisto a titolo originario dell’area di che trattasi mediante usucapione, eccepito dal Comune, non si è perfezionato.

3.8. Dalla documentazione depositata in giudizio emerge una prolungata trattativa dei ricorrenti da prima con il Comune di Città della Pieve e poi con la subentrata ASL n.2, tesa a definire bonariamente la cessione dell’area oggetto del procedimento espropriativo. Vedasi al riguardo in particolare la nota del 10 settembre 1996 di invito a definire bonariamente la cessione, nonché l’atto del Direttore Generale dell’ASL n.42 del 23 gennaio 2003 avente ad oggetto la proposta di cessione volontaria, atti che tuttavia non hanno prodotto alcun concreto esito, non essendosi mai concretamente perfezionato il contratto ad oggetto pubblico (ex plurimis Cassazione sez II, 22 maggio 2009, n.11955; id. sez un., 24 aprile 2007, n.9845) di cessione volontaria. Sul punto, le dichiarazioni di cessione del 18 giugno 1993 e 21 settembre 1996, depositate in giudizio, rimandando l’effetto traslativo a successivi atti, vanno qualificate come negozi preliminari.

Tale espresso ed inequivoco riconoscimento da parte delle Amministrazioni convenute del riconoscimento del diritto di proprietà dei ricorrenti vale ad escludere l'animus possidendi da parte del presunto possessore. Infatti, in tema di usucapione - per pacifica giurisprudenza civile da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi - ai sensi dell'art. 1165 c.c. in relazione all'art. 2944 c.c., il riconoscimento del diritto altrui da parte del possessore, quale atto incompatibile con la volontà di godere il bene uti "dominus", interrompe il termine utile per l'usucapione (ex multis Cassazione civ. sez. II, 29 novembre 2006, n. 25250; id. sez. III, 25 giugno 2013, n.15877; id. sez. II, 10 settembre 2004, n.18207).

3.9. Pertanto, l’eccepita usucapione non può dirsi perfezionata, nemmeno a voler considerare quale dies a quo per la decorrenza del possesso utile il giorno di immissione in possesso (16 ottobre 1982), risultando il termine ventennale evidentemente interrotto prima del decorso del ventennio utile.

3.10. Alla stregua delle suesposte considerazioni l’eccezione di usucapione sollevata dal Comune resistente deve essere respinta.

4. Va pertanto affrontata la domanda risarcitoria formulata con il ricorso introduttivo.

4.1. Deve anzitutto respingersi l’eccezione di prescrizione sollevata dal Comune resistente, dal momento che per giurisprudenza del tutto quieta, l’occupazione sine titulo da parte dell’Amministrazione di un bene privato, anche in ipotesi di irreversibile trasformazione ovvero di realizzazione dell’opera pubblica, genera un illecito permanente della stessa Amministrazione, non cominciando pertanto a decorrere alcun termine di prescrizione né per l’azione di tutela in forma specifica nè per il risarcimento del danno (ex plurimis Consiglio di Stato sez. IV, 26 marzo 2013, n.1713; T.A.R. Lazio - Roma sez. II, 2 ottobre 2009, n. 9557).

4.2. Non merita condivisione neppure l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Comune quanto alla richiesta risarcitoria del danno patrimoniale consistente nel valore venale dell’area irreversibilmente trasformata.

Secondo la difesa comunale tale voce di danno sarebbe radicalmente insussistente, risultando tutt’ora i ricorrenti proprietari dell’area in questione, non potendosi riconnettere all’occupazione acquisitiva, per giurisprudenza pacifica, alcun effetto traslativo e potendosi semmai invocare una tutela in forma specifica, tuttavia non richiesta.

Costituisce oramai ius receptum come l’occupazione sine titulo, anche se accompagnata dalla irreversibile trasformazione del fondo, sia fatto materiale non idoneo a determinare l’effetto traslativo della proprietà del bene occupato, esito non consentito dall’art 1 del Protocollo Addizionale CEDU, come costantemente interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (ex multis seconda sezione, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, n. 31524/96; terza Sezione, 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia, n. 14793/02) dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di

Stato (29 aprile 2005, n.2) e da ultimo dalla stessa Cassazione (sez. II 14 gennaio 2013, n.705); è pacifico pertanto come anche nel caso di specie gli odierni istanti abbiano sempre sino ad oggi mantenuto la proprietà dell’area oggetto del procedimento espropriativo, pur avendone perduto la concreta disponibilità ed ogni utilizzo e sfruttamento economico.

4.3. Anche in merito alla questione circa la possibilità di giungere ad una condanna puramente risarcitoria nei confronti dell’Amministrazione, indipendentemente dall’avvenuto trasferimento della proprietà in suo favore, si registrano orientamenti giurisprudenziali non univoci.

Infatti secondo una prima tesi, in sintesi, la domanda di risarcimento in forma generica implicherebbe una forma di rinuncia abdicativa del diritto di proprietà, con effetto altresì traslativo in favore dell’ente pubblico che ha illecitamente occupato l’area (Consiglio di Stato sez IV, 30 novembre 2010, n.8363, id. sez IV, 27 novembre 2008 n.5854, C. G.A.S. 25 maggio 2009, n.486; Cassazione Sez.Un., 19 dicembre 2007, n.26732).

Secondo altra tesi, l’opzione del proprietario per la tutela risarcitoria pari al valore del bene occupato in luogo di quella restitutoria sarebbe qualificabile come disponibilità alla cessione del bene, che incontrerebbe la volontà della stessa Amministrazione per facta concludentia mediante l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica, potendo il g.a. condannare l’Amministrazione che occupa il bene ad adottare il provvedimento pur discrezionale di acquisizione di cui all’art. 42 bis del t.u. espropriazioni, facendo leva sul potere conferitogli dall’art. 34 c. 1 lett. c) cod. proc. amm. (così T.A.R. Puglia - Bari sez II, 3 agosto 2012, n.1575).

Altra tesi ancora, invece, muovendo dall’esigenza di conformità alla disciplina CEDU, incompatibile con qualsivoglia forma di espropriazione indiretta (situazione che si verificherebbe oltre che nell’ipotesi di occupazione acquisitiva, anche nel caso di mera rinuncia) non ha condiviso il suesposto opinamento, ritenendo indispensabile al fine del prodursi dell’effetto traslativo, il ricorso da parte della PA all’apposito rimedio eccezionale di cui all’art. 43 del t. u. in materia espropriativa (ex multis T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 4 giugno 2009, n. 3074, Consiglio di Stato sez IV, 28 gennaio 2011, n.676, T.A.R. Emilia-Romagna Parma 12 luglio 2011, n.245).

Va infine rammentato, per completezza, che ulteriore opzione intepretativa, muovendo dal mantenimento in capo al soggetto danneggiato dall’occupazione sine titulo del diritto di proprietà sino all’emanazione del provvedimento di cui all’art 43 t.u., ha ritenuto non ammissibile l’azione risarcitoria con riferimento al valore venale del bene appreso dall’Amministrazione, potendo il danneggiato comunque agire per la restituzione (T.A.R. Puglia Bari, sez. III, 22 settembre 2008, n.2176, id. sez I 9 settembre 2009, n.2065; id. sez. II, 9 aprile 2013, n.522; T.A.R. Liguria sez. I, 5 novembre 2012, n.1373). La difesa comunale prospetta chiaramente l’adesione a tale ultima tesi.

In seguito alla dichiarazione di incostituzionalità dell’art 43 d.p.r. n. 327 del 2001 (Corte Cost. sent. 8 ottobre 2010, n.293) la necessità del preventivo trasferimento della proprietà in favore dell’Amministrazione è stata invero intesa come manifestazione di volontà inequivoca del proprietario interessato, da effettuarsi esclusivamente negli ordinari strumenti civilistici della compravendita immobiliare ovvero dell’accordo ex art 11 l.241/90 e s.m. o ancora nella cessione volontaria di cui all’art 45 del d.p.r. 327/2001 (T.A.R. Lazio Roma sez II quater, 14 aprile 2011, n.3260; Consiglio di Stato sez IV, 28 gennaio 2011, n.676) quale vera e propria condizione legale della domanda risarcitoria per equivalente.

La tesi della rinuncia abdicativa, presta il fianco a diverse obiezioni, che il Collegio reputa non superabili, anche sotto il profilo strettamente civilistico, in disparte i descritti decisivi punti di contrasto con la disciplina CEDU.

In primo luogo, ai sensi dell’art 1350 c.c. gli atti negoziali ad effetti reali su beni immobili debbono avere, a pena di nullità, forma scritta; il comma 1, 5) vi ricomprende gli atti unilaterali di rinunzia, il che esclude tout court la configurabilità di una rinuncia abdicativa per fatti concludenti (Cassazione civ. sez II 10 giugno 2003, n.9262) in linea di principio possibile, per i negozi a forma libera, purché sussistano comportamenti univoci (ex multis Cassazione civ. sez I 4 maggio 2009, n.10218).

In secondo luogo, la rinuncia abdicativa, oltre all’effetto liberatorio dell’originario proprietario, non ha di norma effetto traslativo salvo i casi in cui tale effetto sia espressamente previsto (art 1070 c.c. in tema di abbandono c.d. liberatorio del fondo servente, art 1104 c.c. sulla rinuncia della quota di comproprietà nella comunione dei beni); ma anche volendosi ammettere la produzione di effetto traslativo, in ipotesi applicando l’art 827 c.c. in tema di proprietà statale dei beni immobili vacanti, non è dato comprendere come l’asserito trasferimento possa avvenire in favore dell’Amministrazione che illecitamente occupa il bene, in luogo dello Stato.

Infine, la tesi della rinuncia abdicativa tacita pare porsi ancor più in contrasto con lo stesso principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’art 112 c.p.c. (T.A.R. Lazio - Roma sez II quater, 14 aprile 2011, n., 3260) limitandosi l’attore ad avanzare una domanda di risarcimento del danno per equivalente. Senza poi dimenticare le conseguenti questioni in tema di trascrizione di tale asserita vicenda traslativa, in relazione al noto principio di tipicità della trascrizione che ex art 2643 c.c. caratterizza il nostro ordinamento (Cassazione civile, sez. I, 12 novembre 1997, n. 11180; id III 12 dicembre 2003, n.19058).

Quanto invece alla descritta tesi che condiziona l’ammissibilità della domanda (alla stregua di vera e propria atipica condicio iuris o presupposto processuale) al preventivo formale negozio traslativo (o all’adozione di provvedimento di acquisizione coattiva di cui all’art. 42- bis del D.p.r. 327/2001) anche in questo caso, invero, sono emerse alcune criticità, trattandosi di una limitazione al diritto di risarcimento del danno da fatto illecito non prevista dalla legge, senza contare che (anche in questo caso) non pare scorgersi una sicura coincidenza con il contenuto della domanda attorea, limitato al risarcimento del danno per equivalente, e non già anche alla conclusione di un accordo ad effetti reali.

Quanto infine alla tesi che nega radicalmente il rimedio risarcitorio per equivalente per il danno consistente nella perdita del valore del bene illecitamente occupato - pur condivisibile nelle premesse e nella centralità della tutela restitutoria - pecca, a giudizio del Collegio, nella radicale negazione del fondamentale diritto di scelta ex art 2058 c.c. spettante al danneggiato, tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente (Consiglio di Stato sez V, 7 aprile 2009 n.2144, id. sez IV, 13 gennaio 2010, n.92, T.A.R. Puglia Bari sez III, 2 dicembre 2010, n.4057) sempre che la restitutio in integrum possa qualificarsi come rimedio risarcitorio (in senso contrario, condivisibilmente, T.A.R. Lombardia - Milano 5 aprile 2011, n.880; Cassazione sez I, 23 agosto 2012, n.14609).

Conseguenza del tutto illogica di questa impostazione è inoltre l’evidente pregiudizio per l’interesse pubblico al mantenimento dell’opera pubblica realizzata, dovendosi procedere alla restituzione previa riduzione in pristino anche laddove il proprietario opti per la sola tutela risarcitoria per equivalente, salva naturalmente la possibilità per l’Amministrazione di giungere al medesimo risultato ovvero all’acquisto oneroso consensuale od autoritativo nell’ambito dell’ ulteriore giudizio restitutorio. Ulteriore aspetto problematico, infine, è dato dall’ipotizzabile conflitto con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale pur individuando nella restituzione la forma migliore di riparazione, ammette il risarcimento per equivalente non solo in ipotesi di impossibilità della restitutio in integrum ma anche, più semplicemente, ove il privato non l’abbia richiesta (Corte EDU Grande Chambre, 22 dicembre 2009. Guiso Gallisay c. Italia; id. 23 ottobre 2012; id. 4 agosto 1996 Zubani c.Italia).

4.4. Alla luce delle suesposte considerazioni, ritiene il Collegio preferibile la tesi (rectius le tesi) che subordinano la soddisfazione del risarcimento per equivalente alla necessità di un “preventivo passaggio intermedio” (accordo o provvedimento sanante traslativo), in quanto soddisfa la necessità di formazione di un titolo idoneo al trasferimento della proprietà, e ciò anche alla luce dello ius superveniens costituito dal recente art 34 del D.L. 6 luglio 2011 convertito in L.15 luglio 2011 n.181.

La nuova norma, che novella il vigente t.u. espropriazioni mediante l’inserimento dell’art 42-bis, e che è dichiarata espressamente applicabile ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore (comma 8), contempla, come condizione legittimante, la corresponsione di “indennizzo” sotto il duplice profilo: a) del pregiudizio patrimoniale da determinarsi in misura corrispondente al valore venale; b) di quello non patrimoniale, forfettariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale, con disposizione del tutto innovativa rispetto al pregresso art 43 t.u. ma che affonda le sue radici nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (22 dicembre 2009 Guiso-Gallisay/Italia). Ai sensi del c. 4, il provvedimento notificato al proprietario comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle predette somme a titolo di indennizzo.

4.5. Rimane pertanto anche nell’attuale mutato contesto - per altro in gran parte riproduttivo della sanatoria seppur atipica contenuta nel precedente art 43 t.u. - la necessità di un passaggio intermedio, necessario e logicamente precedente il momento risarcitorio, consistente nell'assegnazione di un termine all'Amministrazione perché definisca (in via negoziale o autoritativa ex art. 42-bis citato) la sorte della titolarità del bene illecitamente appreso, cui segue, ma in posizione inevitabilmente subordinata e condizionata, la condanna risarcitoria, secondo il criterio esaustivo previsto dallo stesso art. 42-bis (o dalla transazione e dal prezzo della compravendita, in caso di esito negoziale paritetico), che sia ammissibile a risarcimento (secondo i noti canoni di causalità immediata e diretta rispetto all'illecita apprensione), ivi inclusa la parte concernente i danni riflessi ed indiretti alla parte reliquata della proprietà privata.

5. Sulla base di tali premesse - impregiudicata l’esigenza di detrarre dal risarcimento spettante le somme eventualmente ricevute in pagamento dai ricorrenti a titolo di indennità provvisoria di esproprio - al fine di poter vagliare compiutamente la domanda risarcitoria in riferimento a tutte le voci di danno richieste, occorre stabilire allo stato attuale il corrente valore venale dell’area di proprietà dei ricorrenti, non essendovi all’uopo accordo tra le parti, stimando la perizia di parte ricorrente un valore complessivo di 96.960,00 euro a fronte della stima dell’Agenzia del Territorio depositata dall’ASL di 72.720,00 euro (euro 18,00/mq.)

Il Collegio ritiene indispensabile al fine del decidere, disporre verificazione e, per l'effetto, ai sensi dell'art. 66 c. p. a. stabilire quanto segue:

a) alla verificazione provvederà il Direttore del Dipartimento di Scienze Economico-Estimative e degli Alimenti della Facoltà di Agraria dell’Università di Perugia, con facoltà di delega a professore del medesimo Dipartimento, nel rispetto del contraddittorio tra le parti;

b) i quesiti a cui il verificatore dovrà rispondere, letti gli atti di causa, sono i seguenti:

b.1) l’esatta consistenza, estensione e valore di mercato attuale delle aree occupate e trasformate, come descritte negli atti di causa, se del caso previa consultazione dei pubblici registri immobiliari;

c) la verificazione avrà luogo entro il termine di 60 giorni, decorrente dalla comunicazione e/o notificazione della presente ordinanza;

d) la relazione conclusiva sarà depositata entro medesimo il termine presso la Segreteria di questo Tribunale;

e) fissa un anticipo sul compenso spettante all’organismo verificatore, nella misura di 1.000,00 euro, provvisoriamente a carico dei ricorrenti ;

f) autorizza il verificatore a ricercare la documentazione necessaria all’adempimento dell’incarico presso le Amministrazioni competenti, le quali saranno obbligate a fornirne gratuitamente copia ove richiesto;

6. Per i suesposti motivi, riservandosi ogni valutazione in rito ed in merito all’esito della disposta verificazione, deve essere respinta l’eccezione di usucapione e disposta verificazione con le suesposte modalità e termini.

Rinvia la trattazione della presente causa alla pubblica udienza del 30 aprile 2014.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria (Sezione Prima) non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, respinge l’eccezione di usucapione indicata in parte motiva e, riservata ogni ulteriore decisione in rito, nel merito e sulle spese, ordina che sia eseguita verificazione nei modi e nei termini di cui in motivazione.

Fissa per il prosieguo l'udienza di discussione del merito alla data del 30 aprile 2014.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Perugia nella camera di consiglio del giorno 6 novembre 2013 con l'intervento dei magistrati:

Cesare Lamberti, Presidente

Stefano Fantini, Consigliere

Paolo Amovilli, Primo Referendario, Estensore

 

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 16/01/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)