Cass. Sez. III n. 1719 del 15 gennaio 2021 (UP 19 nov 2020)
Pres. Di Nicola  Est. Reynaud Ric. Cozza
Acque.Scarico non autorizzato e soggetto responsabile

Del reato di esercizio di scarichi non autorizzati, previsto dall’art. 137, comma 1, d.lgs. 152 del 2006, risponde innanzitutto il titolare dell’insediamento produttivo da cui origina lo scarico, ferma restando l’eventuale concorrente responsabilità, se diverso, del soggetto che in concreto gestisca l’impianto, in quanto su quest'ultimo grava l'onere di controllare che l'impianto da lui gestito sia munito dell'autorizzazione, presupposto di legittimità della gestione .


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 2 ottobre 2019, il Tribunale di Como ha ritenuto gli odierni ricorrenti colpevoli del reato di cui all’art. 137, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 per aver mantenuto, quali legali rappresentanti di una società in nome collettivo, uno scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura in assenza di provvedimento autorizzativo, essendo quello precedentemente posseduto scaduto di validità.

2. Avverso la sentenza, ha proposto unico ricorso per cassazione il difensore degli imputati deducendo, con il primo motivo, la violazione della legge penale ed il vizio di motivazione per essere stata affermata la loro responsabilità penale sull’erroneo presupposto che gli stessi, quali soci, rivestissero una posizione di garanzia, pur essendo stato provato che essi non si erano mai occupati della stazione di servizio in relazione alla quale era stato accertato lo scarico non autorizzato, essendosene sempre occupati gli altri due soci della società, i quali avevano avviato tale attività senza il loro consenso e che la gestivano come se fosse un’autonoma impresa di fatto. Avendo la stessa sentenza riconosciuto la mancanza in capo agli imputati di alcun ruolo operativo, utilizzando detto argomento per concedere loro le circostanze attenuanti generiche, la motivazione era altresì affetta da contraddittorietà.

3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la mancanza di motivazione in relazione alle argomentazioni esposte in una memoria difensiva, richiamate anche in sede di discussione, circa la sussistenza della buona fede indotta da comportamenti dell’autorità amministrativa che avevano ingenerato il convincimento di poter lecitamente proseguire nell’esercizio dello scarico in precedenza autorizzato.

4. Con l’ultimo motivo di ricorso ci si duole che, con clausole di stile volte a celare la mancanza di effettiva motivazione, la sentenza non abbia giustificato la quantificazione del trattamento sanzionatorio in misura superiore al minimo edittale.

5. Con memoria difensiva datata 9 novembre 2020 il difensore ha ulteriormente argomentato la fondatezza dei motivi di ricorso proposti.



CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
In diritto, va innanzitutto ribadito il principio secondo cui del reato di esercizio di scarichi non autorizzati, previsto dall’art. 137, comma 1, d.lgs. 152 del 2006, risponde innanzitutto il titolare dell’insediamento produttivo da cui origina lo scarico (cfr. Sez.  3, n. 5533 del 09/04/1997, Toso, Rv. 208389), ferma restando l’eventuale concorrente responsabilità, se diverso, del soggetto che in concreto gestisca l’impianto, in quanto su quest'ultimo grava l'onere di controllare che l'impianto da lui gestito sia munito dell'autorizzazione, presupposto di legittimità della gestione (cfr. Sez.  3, n. 9497 del 29/01/2009, Martinengo, Rv. 243119; Sez.  3, n. 4535 del 26/11/2001, dep. 2002, Spada, Rv. 220845).
Ciò premesso, è noto che negli enti collettivi, ed in particolare nelle società, la responsabilità per inadempimento degli obblighi penalmente sanzionati che gravano sul soggetto giuridico ricade su chi abbia il potere di agire in nome e per conto del medesimo, vale a dire, in prima battuta, sugli amministratori legali rappresentanti (cfr., quanto all’analoga contravvenzione prevista dall'art. 279, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, Sez.  3, n. 35572 del 30/05/2017, Favero, Rv. 271302 e Sez.  3, n. 43246 del 13/07/2016, Contin, Rv. 268084; quanto agli obblighi in materia di sicurezza e igiene gravanti sul datore di lavoro, ex multis, Sez.  3, n. 30927 del 31/05/2019, Cisterninino, Rv. 276551 e Sez.  4, n. 1777 del 06/12/2018, dep. 2019, Perano, Rv. 275077; in tema di bancarotta documentale, Sez.  5, n. 3221 del 19/09/2019, dep. 2020, Cristorfaro, Rv. 278303; in tema di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali e di tributi, rispettivamente, Sez.  3, n. 26712 del 14/04/2015, Vismara, Rv. 264306 e Sez.  3, n. 2741 del 10/10/2017, dep. 2018, Turina Rv. 272027).
Laddove, in una società, il ruolo di amministratore sia contestualmente ricoperto da più persone fisiche – come generalmente avviene nel caso di società di persone, ed in particolare nelle società in nome collettivo, nelle quali, salva diversa pattuizione, tale ruolo spetta disgiuntamente a ciascun socio ex art. 2257, primo comma, cod. civ., applicabile ai sensi dell’art. 2293 cod. civ. e, per quanto qui rileva, non sostanzialmente modificato dall’art. 377, comma 1, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 - ciascuna di queste è personalmente tenuta all’adempimento degli obblighi normativi penalmente sanzionati, salvo che sia intervenuta una valida delega di funzioni (cfr. Sez.  4, n. 32193 del 26/05/2009, Zuccaro, Rv. 245113; Sez.  3, n. 26122 del 12/04/2005, Capone, Rv. 231955). Benché la disciplina normativa in tema di adempimento degli obblighi relativi all’inquinamento ed alla gestione dei rifiuti non codifichi espressamente l’istituto della delega di funzioni, questa Corte, in analogia ai principi affermati con riguardo ai reati commessi con la violazione delle disposizioni in materia di igiene e prevenzione degli infortuni sul lavoro, ne ha da tempo riconosciuto l’efficacia, precisandone anche gli stringenti requisiti di validità (cfr. Sez.  3, n. 6420 del 07/11/2007, dep. 2008, Girolimetto, Rv. 238980). Proprio l’analogia con l’istituto oggi disciplinato nell’art. 16 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 impone poi di estendere anche alla delega circa l’attuazione delle disposizioni previste in materia ambientale l’obbligo di vigilanza del delegante «in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite» (art. 16, comma 3, d.lgs. n. 81 del 2008). Si tratta, invero, di una conseguenza connaturata al sistema di responsabilità delineato dalla legge, in termini non dissimili, in capo a chi professionalmente svolga attività costituenti fonte di rischio per beni primari che formano peraltro oggetto di protezione costituzionale, come l’ambiente in senso lato (art. 9, secondo comma, Cost.), la salute (art. 32 Cost.), l’utilità sociale e la sicurezza (art. 41, secondo comma, Cost.), la tutela del suolo (art. 44  Cost.). La posizione di garanzia attribuita dalla legge ai soggetti titolari d’impresa rispetto alla protezione di tali beni nello svolgimento delle attività economiche, la natura contravvenzionale ed il conseguente titolo d’imputazione, anche soltanto colposo, dei reati posti a presidio di tali beni non consentono di ritenere che l’imprenditore possa chiamarsi fuori dalle responsabilità nei suoi confronti previste (in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, come di adempimento delle prescrizioni in materia ambientale) limitandosi a delegare ad altri l’adempimento degli specifici obblighi di legge, senza vigilare sul corretto espletamento delle funzioni trasferite. Di qui la permanenza della responsabilità penale del delegante che, in caso di commissione di reati colposi da parte del delegato, non abbia ottemperato all’obbligo di vigilanza e controllo (per l’affermazione di tali principi in materia di infortuni sul lavoro, v. Sez.  4, n. 24908 del 29/01/2019, Ferrari, Rv. 276335; Sez.  4, n. 39158 del 18/01/2013, Zugno e aa., Rv. 256878).
L'onere della prova circa l'avvenuto conferimento della delega di funzioni - e del conseguente trasferimento ad altri soggetti degli obblighi previsti dalla legge ed altrimenti incombenti sul formale titolare della qualità – grava peraltro su chi l'allega, trattandosi di una causa di esclusione di responsabilità (Sez.  4, n. 44141 del 19/07/2019, Macaluso, Rv. 277360; Sez.  3, n. 14352 del 10/01/2018, Bulfaro, Rv. 272318).

2. La sentenza impugnata ha fatto buon governo di tutti i principi di diritto esposti, attestando, senza che sul punto siano state mosse specifiche contestazioni, che: gli odierni imputati erano, unitamente ad altre due persone, soci amministratori della società in nome collettivo che gestiva la stazione carburanti di Como da cui originava lo scarico non autorizzato; essi erano pertanto destinatari degli obblighi stabiliti dalla normativa in materia; il fatto che la stazione di servizio in questione fosse di fatto materialmente gestita dagli altri due soci non esimeva gli odierni ricorrenti dal vigilare sull’effettivo rispetto delle prescrizioni stabilite; per il ruolo gestorio di fatto da loro svolto in altra, analoga, unità operativa della società, ubicata in Olgiate Comasco, essi erano certamente in condizione di poter conoscere ed osservare le prescrizioni oggetto di contestazione; essendosi negligentemente disinteressati della gestione dell’unità locale di Como, dove lo scarico di acque industriali in fognatura pacificamente proseguì per circa un anno e mezzo senza autorizzazione, essendo scaduta quella precedentemente rilasciata, i ricorrenti avevano colposamente violato i doveri connessi alla posizione di garanzia ricoperta e dovevano dunque rispondere, al pari degli altri due soci, del reato ascritto. Con riguardo a quest’ultimo aspetto, osserva il Collegio che la conclusione, per quanto detto valida anche nel caso in cui fosse stata conferita agli altri due soci una valida delega di funzioni, è nella specie a fortiori corretta per non essere ciò neppure accaduto, essendosi trattato, per quanto si ricava dalla sentenza e dal ricorso, di una semplice suddivisione in fatto delle incombenze conseguenti alla gestione delle due unità operative.
Manifestamente infondata, poi, è la doglianza circa la pretesa contraddittorietà della motivazione per aver la sentenza valorizzato, ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, la mancanza di un ruolo operativo con riguardo all’effettiva gestione della stazione di servizio di Como: se la qualità di soci amministratori dei ricorrenti non li esonerava da responsabilità, quantomeno sotto il profilo della vigilanza, il giudice di merito ha del tutto logicamente considerato, sul piano del trattamento sanzionatorio, in un’ottica di favor rei della quale gli imputati non hanno interesse a dolersi, il loro minor coinvolgimento fattuale ed un minor grado di colpevolezza rispetto agli altri soci.

    3. Il secondo motivo di ricorso è infondato
Premesso che, secondo l’oramai consolidato orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, l'omessa valutazione di una memoria difensiva non determina alcuna nullità , ma può influire sulla congruità e sulla correttezza logico-giuridica della motivazione del provvedimento che definisce la fase o il grado nel cui ambito sono state espresse le ragioni difensive (Sez.  1, n. 26536 del 24/06/2020, Cilio, Rv. 279578; Sez.  3, n. 23097 del 08/05/2019, Capezzuto, Rv. 276199-03; Sez.  5, n. 24437 del 17/01/2019, Armeli, Rv. 276511; Sez.  2, n. 14975 del 16/03/2018, Tropea e aa., Rv. 272542), nel caso di specie non sussiste alcun vizio di motivazione rilevabile ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
Ed invero, in tema di ricorso per cassazione, l'emersione di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nella sentenza impugnata, laddove le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non può comportare l'annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all'esito di una verifica sulla completezza e sulla globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l'impianto della decisione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M. e aa., Rv. 271227). Il vizio di motivazione che denunci la carenza argomentativa della sentenza rispetto ad un tema sottoposto al giudice di merito può essere utilmente dedotto in Cassazione soltanto quando gli elementi trascurati o disattesi abbiano carattere di decisività (Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, Perna e aa., Rv. 267723), nel senso che una loro adeguata valutazione avrebbe dovuto necessariamente portare, salvo intervento di ulteriori e diversi elementi di giudizio, ad una decisione più favorevole di quella adottata (Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, Giarri, Rv. 253445). L'obbligo di motivazione del giudice – tanto di quello dell’impugnazione, quanto di quello di primo grado - non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi effettuati dalla difesa, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno della tesi difensiva, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera e aa., Rv. 260841).
Nel caso di specie, i quattro rilievi indicati in ricorso ai quali la sentenza impugnata non darebbe risposta sono all’evidenza inconsistenti, posto che:
    1) contrariamente a quanto opinano i ricorrenti, la voltura dell’autorizzazione allo scarico in caso di trasferimento dell’insediamento produttivo che lo origina non è illegittima e, qualora lo fosse, potrebbe semmai aver indotto in errore la società degli imputati circa la sussistenza di un valido titolo abilitativo soltanto nel periodo anteriore alla scadenza del provvedimento volturato, indicata con chiarezza al 25 settembre 2014, come gli stessi ricorrenti espressamente riconoscono (e per tale periodo non è stata mossa alcuna contestazione);
    2) nessun rilievo ha l’impossibilità di richiedere il rinnovo dell’autorizzazione  almeno un anno prima della scadenza, ai sensi dell’art. 124, comma 8, d.lgs. 152 del 2006, per essere la voltura intervenuta a meno di un anno dalla scadenza di validità del titolo, non avendo ciò potuto in alcun modo indurre in errore i titolari del provvedimento, i quali erano peraltro ben consapevoli di dover richiedere il rilascio di nuova autorizzazione, posto che – attesta la sentenza impugnata e ammettono i ricorrenti – ebbero a richiedere l’Autorizzazione Unica Ambientale sin dal 4 novembre 2013 (autorizzazione tuttavia negata per mancata integrazione di documenti);
    3) all’evidenza del tutto irrilevante, ai fini del preteso riconoscimento della buona fede, è il fatto che, nel provvedimento di diniego dell’A.U.A. – che i ricorrenti ammettono essere stato notificato in data 6 maggio 2015 – non vi fosse un espresso divieto di svolgere l’attività, trattandosi di prescrizione assolutamente non necessaria in quanto chiaramente già posta dalla legge;
    4) del pari inconferente è il rilievo che il procedimento sulla richiesta dell’A.U.A. non si concluse nel termine di novanta giorni previsto dall’art. 124, comma 7, d.lgs. 152 del 2006, essendo chiaro che dal 25 settembre 2014 lo scarico non era più autorizzato ed essendo del tutto irrilevante che un espresso provvedimento di interdizione alla prosecuzione dell’attività sia intervenuto soltanto il 16 aprile 2016, trattandosi di evidente conseguenza dell’accertamento del reato (in epoca anteriore e prossima al 15 marzo 2016, recita il capo d’imputazione).

    4. Manifestamente infondato è l’ultimo motivo di ricorso.
Richiamando i criteri di cui all’art. 133 cod. pen. ed ulteriormente argomentando l’uso del potere discrezionale con riferimento a due parametri (la gravità del fatto per il lungo periodo in cui lo scarico illecito fu mantenuto e, quale criterio mitigatore di responsabilità, la mancata gestione operativa dell’impianto da parte dei due imputati), la pena è stata determinata in termini leggermente superiori alla media edittale della pena pecuniaria, alternativa a quella detentiva. La doglianza al proposito mossa è dunque inammissibile, tenuto anche conto del fatto che la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197), sicché può essere censurata in sede di legittimità soltanto sul piano del soddisfacimento dell’obbligo di motivazione, qui indubbiamente adempiuto con argomentazioni che non possono definirsi “di stile”.
In ogni caso, nella specie non sarebbe neppure stata necessaria una particolare motivazione posto che, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, la pena loro irrogata è decisamente più prossima al minimo che al massimo edittale, essendo stata comminata, come detto, nella sola specie pecuniaria piuttosto che nella ben più gravosa pena detentiva alternativa, non potendosi sostenere il contrario in considerazione dei soli limiti edittali previsti per la sanzione pecuniaria. Secondo il consolidato orientamento interpretativo di questa Corte, infatti, allorquando la pena edittale detentiva sia alternativa a quella pecuniaria, l’onere motivazionale è particolarmente stringente laddove il giudice ritenga di fare applicazione della prima, obiettivamente più gravosa (cfr. Sez.  6, n. 10772 del 20/02/2018, F., Rv. 272762; Sez.  4, n. 4361 del 21/10/2014, dep. 2015, Ottino, Rv. 263201). Per contro, il giudice non è tenuto ad esporre diffusamente le ragioni in base alle quali ha applicato la misura massima della sanzione pecuniaria, perché, avendo l'imputato beneficiato di un trattamento obiettivamente più favorevole rispetto all'altra più rigorosa indicazione della norma, è sufficiente che dalla motivazione sul punto risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la decisione, ben potendo esaurirsi tale motivazione nell'accenno alla equità quale criterio di sintesi adeguato e sufficiente (Sez.  3, n. 37867 del 18/06/2015, Di Santi, Rv. 264726; Sez.  1, n. 40176 del 01/10/2009, Russo, Rv. 245353).

5. I ricorsi, nel complesso in fondati in relazione al secondo motivo, debbono pertanto essere rigettati con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 19 novembre 2020.