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Sez. 3, Sentenza n. 43955 del 28/09/2004 Ud. (dep. 11/11/2004 ) Rv. 230479
Presidente: Postiglione A. Estensore: Mancini F. Relatore: Mancini F. Imputato: Polidori ed altri. P.M. Consolo S. (Conf.)
(Rigetta, App. Milano, 21 Novembre 2003)
BELLEZZE NATURALI (PROTEZIONE DELLE) - IN GENERE - Deposito incontrollato di rifiuti - In zona sottoposta a vincolo - Reato di cui all'art. 163 del D.Lgs. n. 490 del 1999 - Configurabilità.

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MASSIMA (Fonte CED Cassazione)
Il deposito incontrollato di rifiuti in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico integra sia il reato di cui all'art. 51 del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 che quello di cui all'art. 163 del D.Lgs. 29 ottobre 1999 n. 490 (ora sostituito dall'art. 181 del D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 41), esecuzione di lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. POSTIGLIONE Amedeo - Presidente - del 28/09/2004
Dott. DE MAIO Guido - Consigliere - SENTENZA
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - N. 01808
Dott. MANCINI Franco - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. PETTI Ciro - Consigliere - N. 016850/2004
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
1) POLIDORI GIOVANNI N. IL 01/01/1942;
2) FARAGLIA ANTONIO N. IL 22/07/1965;
avverso SENTENZA del 21/11/2003 CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. MANCINI FRANCO;
Udito il Pubblico Ministero nella persona del Dr. Consolo Santi che ha concluso: rigetto di ricorso;
udito il difensore avv. Giuseppe Innamorati (Perugia);
Udito il difensore di PC avv. Bruno Stefano (Varese);
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 21 novembre 2003 la Corte d'appello di Milano confermava nei confronti degli appellanti Polidori Giovanni e Faraglia Antonio la sentenza 7/4/2003 del tribunale monocratico di Varese, che li aveva condannati, ciascuno, alla pena di mesi due, giorni 15 di arresto ed euro 4500 di ammenda, con i doppi benefici nonché al risarcimento del danno a favore della costituita parte civile Comune di Varese, con provvisionale immediatamente esecutiva e rifusione delle spese da quest'ultima sostenute, per i reati di illecito deposito incontrollato di rifiuti non pericolosi in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico ed esecuzione senza la prescritta autorizzazione, nella stessa area, di interventi di movimentazione, scavo di terreno e riversamento dei rifiuti medesimi; ritenuto il concorso formale fra i due reati. La Corte territoriale aveva deciso sulla base delle seguenti censure rivolte dagli imputati appellanti alla sentenza del primo giudice; 1) questi avrebbe errato nell'applicare l'art. 163 del D.L.vo 29 ottobre 1999 n. 90 ed inoltre sul punto si doveva registrare un difetto di motivazione. Il tribunale invero non aveva indicato quali lavori od opere erano stati eseguiti senza autorizzazione su beni ambientali, dimenticando che il taglio del bosco era stato autorizzato e che il reato in questione non può essere integrato dall'abbandono di rifiuti; non aveva inoltre specificato l'apporto causale dei singoli imputati alla produzione degli illeciti ed aveva omesso di considerare che il riversamento dei rifiuti era stata la semplice e naturale conseguenza dei lavori di scavo; infine che il materiale bituminoso riscontrato era soltanto la risultante del lavaggio della betoniera utilizzata per la esecuzione dei lavori. 2) il primo giudice era incorso in violazione ed erronea applicazione dell'art. 51 comma 2^ del D.L.vo 5 febbraio 1997 n. 22 perché fino a quando l'impresa era rimasta titolare del cantiere i rifiuti non erano stati abbandonati ne' erano rimasti senza controllo, tanto più che per essa la riduzione in pristino dei luoghi costituiva un obbligo contrattuale. Successivamente, dopo la risoluzione del contratto d'appalto (tuttora oggetto di esame nella competente sede giudiziaria), ben avrebbe potuto il comune procedere alla liberazione della zona. Infine - è sempre il pensiero degli autori di questa censura - la terra e la roccia dello scavo di che trattasi non possono considerarsi rifiuti. 3) il tribunale di Varese era inoltre incorso in violazione ed errata applicazione dell'art. 42 c.p. in quanto il Polidori.quale amministratore delegato della Polidori Strade s.r.l. si occupava della sola strategia aziendale mentre il Faraglia non aveva il compito di seguire pedissequamente l'andamento dei lavori essendo preposto a tale incombenza il direttore dei lavori indicato dal comune committente, senza contare che dopo la dismissione del cantiere il Faraglia stesso non avrebbe più avuto comunque alcun potere di intervento sulla zona.
Queste censure hanno ricevuto puntuale risposta dalla sentenza della corte territoriale.
Essa infatti, citando copiosa giurisprudenza di questa stessa sezione della Suprema Corte, ricorda che il reato di cui all'art. 163 D.Lvo. 490 può concorrere con quello di cui all'art. 51 comma 2^ D.Lvo. 22/97 dovendosi ritenere che integrino detto reato non solo le opere edilizie ma i lavori di qualsiasi genere; che gli scarichi inquinanti possono concorrere con le comminatorie previste dalla normativa sulla tutela paesaggistica; e che il reato di cui all'art. 163 D.L.vo 490/1999 si realizza con la formazione di una discarica in zona vincolata in assenza di autorizzazione ovvero quando la condotta illegale investa una zona più ampia di quella coperta da autorizzazione.
Escluso che l'abbandono dei rifiuti potesse essere giustificato dalla risoluzione del contratto d'appalto tuttora sub sudicela corte di merito rileva ulteriormente che l'avere causato la morte di ceppaie, come nel caso di specie, integra il contestato reato; che nella specie non si è trattato di solo materiale di scavo ma di questo frammisto a colate cementizie, materiale ligneo e scarichi di lavaggio della betoniera.
Quanto alla personale responsabilità dei due imputati la sentenza d'appello si rifà al carteggio intercorso fra comune ed impresa per quanto riguarda il Polidori nella veste di amministratore delegato ed alla direzione dei lavori concretamente espletata, per quanto riguarda il Faraglia.
Avverso la sentenza gli imputati a mezzo dei loro difensori propongono ricorso per Cassazione denunciandone molteplici vizi:
- nella specie si sarebbe trattato di roccia e terra e dunque di materiale non qualificabile come rifiuti. È vero che con esse erano frammisti altri materiali astrattamente considerabili inquinanti, non tuttavia in misura tale da conferire al fatto rilevanza penale. - gli imputati peraltro non avevano svolta alcuna attività volta alla formazione di un deposito di rifiuti, che dunque si erano formati per fatto meramente accidentale come conseguenza non voluta di una attività di scavo regolarmente autorizzata dagli enti a ciò abilitati.
- ne' agli imputati poteva essere addebitato l'abbandono di questo materiale dal momento che il contratto di appalto con il comune di Varese si era risolto per fatto tuttora oggetto di accertamento in sede giudiziaria. A quel punto avrebbe dovuto procedere alla rimozione lo stesso comune quale ente proprietario del terreno. - avevano comunque errato i giudici di merito nell'attribuzione dei fatti - reato dal momento che il Polidori nella sua veste di amministratore delegato della società si occupava soltanto delle strategie aziendali ed il Faraglia come dipendente dell'azienda, dopo la risoluzione del contratto di appalto, non avrebbe potuto comunque anche volendo, per difetto di potere, procedere alla rimozione del materiale di risulta.
- non avrebbero dovuto,i giudici di merito,riconoscere alcun danno al comune di Varese dal momento che, se danno ambientale c'era stato, il comune stesso ben avrebbe avuto la possibilità di eliderlo. Concludevano pertanto i ricorrenti chiedendo di essere "mandati assolti" per non avere commesso il fatto o con la formula ritenuta più idonea, previa in ogni caso la sospensione della esecuzione della provvisionale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso non è fondato e deve essere respinto. Per procedere ad una ordinata trattazione della complessa materia sottoposta con i motivi di ricorso all'esame di questo Supremo Collegio conviene muovere dalla censura più radicale indirizzata alla decisione della Corte territoriale, quella secondo la quale il materiale di risulta di che trattasi, oggetto di contestazione prima e di condanna poi a carico degli imputati, non avrebbe natura di rifiuti nel senso di cui al D.L.vo 22/1997. La censura è infondata. È bensì vero infatti che in linea di massima terra e rocce come prodotti delle operazioni di scavo non costituiscono rifiuti in senso legale (art. 7 co. 3^ del predetto decreto legislativo come autenticamente interpretato dall'art. 1 co. 17^ L. 21 dicembre 2001 n. 443) ma tale materiale torna a dovere essere catalogato come rifiuti allorché ad esso è frammisto materiale inquinante nella misura determinata dalle norme vigenti. Ed è per l'appunto quanto si è verificato nella specie posto che la terra e le rocce escavate sono risultate frammiste a materiale ligneo, cemento e bitume. Nè la decisione sul punto dei giudici di merito, sorretta da argomentazioni conformi al senso comune ed immuni comunque da vizi logici, può essere censurata in questa sede di legittimità, tanto più che la ritenutala parte dei giudici di merito, presenza di materiale inquinante in misura eccedente il quantitativo tollerabile non forma oggetto di specifica e puntuale trattazione da parte dei ricorrenti.
Denunciano poi i ricorrenti che nella specie non è stato da loro volontariamente costituito alcun deposito di rifiuti, ergo non è stata da loro svolta alcuna attività penalmente rilevante ai sensi della normativa nella specie applicata.
Osserva questa Corte, al contrario, che è stato loro esattamente contestato di avere lasciato in loco materiale risultante da pur legittime (in quanto regolarmente autorizzate, salvo gli eccessi quantitativi registrati che i giudici di merito hanno puntualmente attribuito agli imputati) operazioni di scavo e di avere in tal modo dato vita ad una discarica, abusiva perché deposito, come sopra precisato, non di sole rocce e terra.
Nè può valere a giustificare tale abbandono la circostanza della risoluzione del contratto di appalto (per una colpa, dell'uno o dell'altro contraente, che è peraltro tuttora sub judice) trattandosi di materia - quella dello smaltimento dei rifiuti - che attiene a rilevanti interessi pubblicistici e che non può dunque essere subordinata all'alea ed alla attesa della risoluzione, in un senso o nell'altro, di questioni meramente privatistiche. Neppure può rilevare la condotta asseritamene omissiva del Comune (per non avere proceduto alla rimozione dei rifiuti) in quanto per legge l'obbligazione che grava sul proprietario del terreno è di carattere solidale: dal che scaturisce che l'obbligazione dell'autore dei lavori rimane in ogni caso intatta come intatta è la sua responsabilità per l'inosservanza della stessa. In altre parole il fatto che il soggetto proprietario del terreno su cui altri abbia illegalmente formato il deposito di rifiuti sia abilitato a rimuovere il deposito stesso non può costituire una sorta di causa di esenzione da responsabilità per l'autore dell'illecito. L'offesa arrecata all'ambiente ha interessato nella specie una vastissima area, di oltre 15mila metri quadrati con, perfino, "una significativa variazione dei profili altimetrici",come si legge nella sentenza del primo giudice. Non poteva non ritenersi dunque la concorrente violazione dell'art. 163 D.L.vo 490/99, come ampiamente dimostrato dai giudici di merito,che hanno ulteriormente rilevato come l'attività antropica degli imputati abbia "ecceduto la portata delle autorizzazioni rilasciate dall'ente preposto alla tutela dei vincoli ed anzi l'ha frontalmente contraddetta".
Immune dal vizio di manifesta illogicità si mostra parimenti l'impugnata sentenza - organicamente considerata insieme a quella del primo giudice - laddove offre compiuta dimostrazione del suo convincimento circa il contributo dato da entrambi gli imputati alla realizzazione degli illeciti, Mancano infine i presupposti di cui all'art. 612 c.p.p. per l'accoglimento della istanza, formulata dai ricorrenti sospensione della esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale: anche in ordine a tale provvedimento, peraltro, i giudici di merito hanno fornito ampia e convincente motivazione. P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido tra loro al pagamento delle spese processuali ed al pagamento delle spese ed onorari della costituita parte civile, che liquida in complessivi euro 2150, di cui euro 1800 per onorari, oltre IVA e CPA.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, del 28 settembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2004