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QUALE FUTURO PER LA TUTELA DEI BENI CULTURALI ED AMBIENTALI? LA TUTELA PENALE DEL PAESAGGIO
di Luca RAMACCI
(tratto da "Il Codice dei beni cultruali e del paesaggio. Interpretazioni ed applicazioni ad un anno dall'entrata in vigore. Atti del convegno del 12, 13 e 14 maggio 2005" a cura di V. Piergigli, A.L. Maccari, Giuffrè, in corso di stampa).

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Sommario: 1. Premessa. – 2. L’evoluzione normativa – 3. Il “Codice Urbani”:luci e ombre – 4. La legge delega “ambientale” – 5. Una nuova lettura delle disposizioni sulla riduzione in pristino?. – 6. Il “condono paesaggistico – 7. Il ruolo della giurisprudenza

1. Premessa

Guardando alla tutela dei Beni Culturali essenzialmente da ”pratico” del diritto, le previsioni per il futuro delle disposizioni introdotte dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio” non possono certo essere ottimistiche.

La considerazione si fonda sull’esperienza pregressa e sulla quotidiana testimonianza del fallimento degli strumenti di tutela fornita dalla sempre più vasta “cementificazione” delle zone protette e dalla scarsa considerazione che sembrano mostrare i soggetti preposti ai controlli ed alla tutela del paesaggio e ciò nonostante la tutela del paesaggio sia stata sempre oggetto di attenzione.

Non pare superfluo ricordare che l’articolo 9 della Costituzione si riferisce espressamente alla “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” in una disposizione che, per la sua estrema genericità, è stata ritenuta di natura programmatica e che, pur avendo subito nel tempo una costante evoluzione, sembra anche rispecchiare i limitati riferimenti normativi all’epoca riconducibili quasi esclusivamente alle “leggi Bottai” del 1939.

Ciò rendeva necessaria una lettura coordinata dell’articolo 9 con l’articolo 32 Cost., ove viene indicata la tutela della salute come diritto dell’individuo ed interesse della collettività, al fine di estendere progressivamente l’ambito della tutela garantita da tale ultima disposizione, fino a comprendere anche il diritto alla salubrità dell’ambiente.

Si può, dunque, azzardare l’affermazione che la tutela costituzionale del paesaggio e dei beni culturali abbia rappresentato, in un certo senso, la base di partenza per la legislazione di tutela dell’ambiente in generale che ha portato, dalla disponibilità delle sole disposizioni del codice penale, interpretate estensivamente dalla giurisprudenza, alla prima e pressoché inutile legge 615 del 1966[1], fino all’attuale “inquinamento” da leggi ambientali.

2. L’evoluzione normativa

In tema di beni ambientali, dunque, si è giunti alla situazione attuale passando dalle fondamentali “leggi Bottai” del 1939[2] che, nonostante i limiti, hanno contenuto le aggressioni al territorio, alla “legge Galasso” del 1985[3], oggetto di numerose critiche ma, in un certo senso, rivoluzionaria per il fatto di aver ampliato le aree oggetto di tutela individuandole per categorie ed aggiungendo, così, al vincolo imposto mediante provvedimento amministrativo, un vincolo fissato ex lege.

L’efficacia della soluzione normativa adottata dal legislatore del 1985 è dimostrata proprio dai giudizi negativi cui la “legge Galasso” è stata sottoposta nel tempo evidenziandone, ad esempio, la genericità del precetto, il poco chiaro rinvio quoad poenam all’articolo 20 della legge urbanistica 471985 e ponendo una serie di problemi interpretativi, in gran parte agevolmente risolti dalla giurisprudenza della Cassazione.

Il notevole contenzioso creato dall’introduzione della “legge Galasso” si è, tuttavia, rivelato particolarmente utile in quanto ha consentito la creazione di un indirizzo interpretativo consolidato, utilizzabile anche con riferimento alle disposizioni successivamente emanate. Tali e tanti sono stati infatti, gli interventi dei giudici di legittimità che lo spazio per letture “di comodo” di norme che disciplinano una materia così delicata si è notevolmente ristretto, anche se non mancano, come si dirà in seguito, alcuni punti ancora da chiarire.

Alla legge Galasso del 1985 si è voluto poi mettere mano con il Testo Unico 4901999[4] attraverso il quale si è proceduto, secondo quanto disposto dalla Legge 8 ottobre 1997 n. 352 (articolo 1, comma primo), alla riunione ed al coordinamento di tutte le disposizioni vigenti in materia di beni culturali ed ambientali al fine di ottenere un testo organico e sistematico.

Va riconosciuto al legislatore del 1999 un notevole sforzo che ha portato a risultati in parte soddisfacenti, ad esempio eliminando l’evidente indeterminatezza del precetto rinvenibile nell’articolo 1-sexies della legge 43185 (di cui si è detto ed alla quale, in verità, aveva già cercato di porre rimedio la giurisprudenza)[5].

Furono anche esplicitate le condotte penalmente sanzionate, indicando espressamente che le stesse si configurano non solo con l’esecuzione di interventi su aree protette in assenza della preventiva autorizzazione, ma anche nell’esecuzione di interventi in difformità dall’autorizzazione rilasciata (sebbene non fosse indicata alcuna distinzione tra parziale o totale difformità).

Restava, inoltre, presente nel T.U., in tutta la sua evidenza, la singolare previsione di più gravi sanzioni per il reato di pericolo, contemplato dall’articolo 163, rispetto al reato di danno previsto dall’articolo 734 C.P., peraltro indicata nella Relazione Ministeriale come conseguenza dei limiti della legge delega.

Ad evitare, poi, le prevedibili riproposizioni di questioni già risolte sotto la vigenza della legge Galasso provvedeva, ancora una volta, la Corte di cassazione riconoscendo esplicitamente la sostanziale continuità tra la legge 43185 e la normativa introdotta con il D.Lv. 49099 anche per quanto riguarda il regime sanzionatorio, rimasto immutato, escludendo ogni problema di successione di leggi ai sensi dell’articolo 2 C.P.[6]

Se, dunque, l’attenzione del legislatore per tanti anni è rimasta focalizzata sui beni culturali ed ambientali, quali possono essere stati i motivi del degrado paesaggistico da tutti facilmente percepibile?

La risposta può essere rinvenuta in una decisione della Corte Costituzionale ove, giustificando le ragioni che avevano indotto ad introdurre il secondo condono edilizio nel 1994, si affermava testualmente che la diffusione dell'abusivismo edilizio è ”almeno in parte ascrivibile all’inerzia nei controlli da parte degli enti locali ed alla mancanza di una attività coordinata di polizia locale specializzata nel controllo del territorio”[7].

Alle dure parole del giudice delle leggi andrebbe aggiunto che l’intento del legislatore è stato, nella pratica, quasi sempre vanificato anche dalla dissennata gestione del territorio da parte delle Regioni, dalla mancata adozione dei piani previsti dalla legge 43185 e, in particolar modo, dalla eccessiva disponibilità ad autorizzare interventi anche significativi ed alla tendenza a subdelegare agli altri enti locali le attività inerenti all’applicazione della disciplina.

Questa prassi, specie con riferimento alle amministrazioni comunali delegate, ha spesso portato a superficiali, se non del tutto inesistenti, valutazioni degli aspetti paesaggistici nel procedimento amministrativo per il rilascio delle autorizzazioni (spesso del tutto prive di motivazione) da parte delle commissioni edilizie “integrate” dalla presenza di “soggetti esperti” nella disciplina di tutela del paesaggio.

3. Il “Codice Urbani”: luci e ombre

A meno di un quinquennio dall’entrata in vigore del Testo Unico del 1999, quando ancora la inevitabile “fase di assestamento” della nuova disciplina non era conclusa, il legislatore ha dunque nuovamente messo mano alla materia introducendo il “codice” attualmente in vigore.

Il primo impatto per gli operatori del diritto non è certo stato del tutto soddisfacente[8].

Ad una prima lettura delle disposizioni in materia di beni ambientali e culturali si sono potuti, infatti, riscontrare alcuni errori evidenti.

L’articolo 181 del codice contiene, ad esempio, un errato richiamo all’articolo 20 della legge urbanistica n. 47 del 1985 che, alla data di entrata in vigore, era stata ormai abrogata e sostituita dal dpr 3801 il quale riporta integralmente il contenuto dell’articolo 20 nell’articolo 44.

Non solo, dunque, si è continuato ad omettere qualsiasi riferimento alle diverse ipotesi di reato previste dalla disciplina urbanistica, offrendo lo spunto per discutere, nonostante la consolidata giurisprudenza della Cassazione che indica come unica disposizione richiamata quella contenuta nella lettera C) dell’articolo 20 legge 4785 (ora 44 dpr 3801), su quale sia la pena applicabile in concreto, ma si trova anche il modo di richiamare una norma che non esiste più da qualche tempo.

Non è questo il solo errore.

Nell’articolo 180 viene fatto riferimento all’”ordine impartito dall’autorità preposta alla tutela dei beni culturali in conformità del “presente titolo” titolo che, però, è esclusivamente dedicato alle sanzioni penali e non contiene alcun riferimento a provvedimenti amministrativi[9].

La norma, incomprensibile, è figlia della disattenzione del legislatore che si limitato a ricopiare nell’articolo 180 il testo del previgente articolo 129 D.Lv. 4901999.

Di fronte a certi errori non ci si sorprende più di tanto per il fatto che non si sia potuto o voluto metter mano alla già segnalata discrasia tra il reato di danno sanzionato dal codice penale con pena solo pecuniaria ed il reato di pericolo di cui tratta ora l’articolo 181 del D.Lv. 422004.

L’impressione, non confortante, ricevuta dai primi mesi di vita del “codice” rende legittima qualche domanda sulla concreta applicazione delle altre disposizioni di tutela del paesaggio, specie con riferimento all’attività di pianificazione.

Viene così da chiedersi, ad esempio, come avverrà l’attribuzione degli “obiettivi di qualità paesaggistica”; se sarà effettuata una valutazione “politica” nell’attività di pianificazione o si terrà conto dell’interesse, preminente, della tutela del territorio ed, inoltre, cosa avverrà, in pratica, per quelle opere realizzabili solo sulla base della verifica della conformità alle previsioni del piano paesaggistico e dello strumento urbanistico, effettuata nell’ambito del procedimento inerente al titolo edilizio e con le modalità previste dalla relativa disciplina, e che non richiede il rilascio dell’autorizzazione, oppure per le aree significativamente compromesse o degradate nelle quali la realizzazione degli interventi di recupero e riqualificazione non richiede il rilascio dell’autorizzazione.

Le risposte si avranno soltanto tra qualche tempo, quando il codice avrà completa attuazione.

Più rassicurante appare, invece, la formulazione dell’art. 146 in tema di gestione dei beni, principalmente per quanto attiene alla procedura autorizzatoria e dal divieto di sanatoria.

La norma, oltre al generale divieto di distruzione e modificazione dei beni paesaggistici con pregiudizio dei valori paesaggistici oggetto di protezione, prevede un complesso procedimento amministrativo per il rilascio del titolo abilitativo il quale è indicato, tra l’altro, come atto distinto e presupposto dal permesso o degli altri titoli legittimanti l’intervento edilizio.

Viene espressamente affermato, inoltre, che l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi ed è prevista l’impugnabilità dell’autorizzazione rilasciata, con ricorso al T.a.r. o con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, dalle associazioni ambientaliste portatrici di interessi diffusi individuate ai sensi dell’articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349 e da qualsiasi altro soggetto pubblico o privato che ne abbia interesse.

Tali norme danno dunque atto di un consolidato indirizzo interpretativo, formatosi sotto la vigenza delle disposizioni ora sostituite dal codice, che aveva riconosciuto, con riferimento alle violazioni paesaggistiche, il divieto di sanatoria e fanno ritenere auspicabile una maggiore attenzione da parte dei soggetti preposti al rilascio delle autorizzazioni quale conseguenza della dettagliata specificazione dei presupposti per il rilascio dell’atto abilitativo che comportano anche la necessità di un’adeguata motivazione, cui dovrebbe seguire la cessazione della discutibile prassi di motivare solo apparentemente gli atti.

Una prima prassi applicativa della disposizione appena richiamata è scaturita da una circolare del Servizio tecnico giuridico del Ministero per i Beni e le attività culturali - Direzione Generale Beni Architettonici e Paesaggio ove, richiamando il contenuto di un parere espresso dall’ufficio legislativo del medesimo ministero, vengono fornite alcune indicazioni sulle modalità di applicazione dell’articolo 146, comma decimo, nella fase di applicazione transitoria del codice[10].

Viene così evidenziato che:

- il divieto di sanatoria deve ritenersi applicabile sin dall’entrata in vigore del codice e si riferisce a provvedimenti che intendono sanare lavori già eseguiti in zona paesaggisticamente vincolata senza il preventivo nulla osta;

- i procedimenti di autorizzazione postuma in corso alla data di entrata in vigore del codice (1 maggio 2004) e non ancora formalmente conclusi non avrebbero potuto avere esito positivo;

- le autorizzazioni ex post rilasciate dopo la data di entrata in vigore del codice andavano revocate al fine di evitare provvedimenti ministeriali di annullamento;

- viene evidenziata la diversità della disciplina del c.d. condono edilizio autonomamente disciplinata da apposite disposizioni (in base alle quali, peraltro, la condonabilità delle opere in zona vincolata rimane estremamente contenuta[11]).

La soluzione interpretativa suggerita dal parere ministeriale era stata provocata dalla lettura del combinato disposto dell’articolo 146 citato e dell’articolo 159, riguardante la disciplina del procedimento di autorizzazione in via transitoria e non contenente l’espresso divieto di sanatoria postuma.

L’immediata applicazione dell’articolo 146 viene giustificato con la sua natura di norma sostanziale di delimitazione del potere autorizzatorio rispetto alla natura meramente procedurale dell’articolo 159.

Il parere si sofferma anche sulla ratio della disposizione, ricordando come la stessa tragga origine dal recepimento di un parere della VII commissione della Camera sullo schema del codice e sia finalizzata a negare in radice la sanabilità degli interventi in zona vincolata, in contrasto con la prassi giurisprudenziale formatasi in precedenza (alla quale si accennerà in seguito). Si rileva anche il diverso grado di tutela costituzionale attribuito al paesaggio dall’articolo 9 Cost. e la natura prevalentemente discrezionale o tecnico-discrezionale dell’autorizzazione paesaggistica rispetto ai titoli abilitativi disciplinati dalla legge urbanistica.

4. La legge delega “ambientale”.

Quando ancora si stava prendendo cognizione delle novità introdotte dal codice, entrato in vigore pochi mesi prima, inopinatamente il legislatore metteva nuovamente (e pesantemente) mano alla materia mediante la c.d. legge delega ambientale[12].

Si tratta, come è noto, di una delle più spregiudicate operazioni tra quelle alle quali ci ha ormai abituato il legislatore ambientale con la quale ci si propone la riscrittura delle più importanti leggi di tutela ambientale attraverso una commissione di 24 “saggi”. Alcuni schemi di decreto, redatti con incredibile tempismo dalla commissione, sono stati peraltro resi noti da un’associazione ambientalista dopo alcuni mesi dall’entrata in vigore della legge delega, rivelando tutti i limiti e le prevedibili finalità dell’operazione[13].

Tutto ciò non era evidentemente sufficiente per l’infaticabile legislatore ambientale, il quale ha anche ritenuto di inserire nella legge delega alcune disposizioni di immediata attuazione riguardanti le materie più disparate, dall’urbanistica ai rifiuti[14], dalla demolizione del complesso abusivo di “Punta Perotti” a Bari al codice dei beni culturali e del paesaggio fino alla…. lolla di riso e la polvere di allumina!

Anche l’intervento sulla materia dei beni culturali e paesaggio risente, dunque, del clima in cui si sviluppata la legge delega ambientale e desumibile dalla semplice lettura dei lavori parlamentari, dai quali emerge che la stessa è stata approvata dopo diversi passaggi parlamentari che hanno portato a frettolosi inserimenti e ben tre voti di fiducia.

Esaminando sommariamente le innovazioni introdotte con riferimento, ovviamente, alla materia che qui interessa[15], osserviamo che il legislatore non ha ritenuto di rimediare agli errori contenuti nell’originaria stesura del Codice e dei quali non poteva non accorgersi, visto che sono stati da più parti segnalati. Ha, al contrario, modificato l’articolo 167 che disciplina la procedura amministrativa di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria[16] modificando poi completamente l’articolo 181 mediante l’introduzione di nuove ipotesi di reato, di una “sanatoria” degli abusi minori e di un “ravvedimento operoso” ed ha, infine, previsto una sanatoria straordinaria subito ribattezzata “minicondono” o “condonicchio”.

Quali, dunque le conseguenze pratiche di questi interventi?

Da una sommaria lettura si potrebbe sostenere che l’introduzione del delitto di cui al comma 1bis consentirà l’applicazione di più pesanti sanzioni per le violazioni di maggiore rilevanza, allontanando i rischi di prescrizione, sempre presenti per le ipotesi contravvenzionali, ma rendendo in alcuni casi più difficoltosi gli accertamenti.

Se, infatti, con riferimento ai beni tutelati in base a specifico provvedimento amministrativo, viene sanzionato ogni intervento non autorizzato o in difformità, sulle aree o immobili tutelati in base alla legge è richiesto l’ulteriore requisito dell’aumento della volumetria preesistente o della creazione di nuovi volumi oltre i limiti indicati, con conseguente inevitabile verifica della cubatura dell’intervento eseguito in sede di indagine e la probabile, frequente utilizzazione di ausiliari tecnici da parte della polizia giudiziaria o del pubblico ministero.

Sembra, inoltre, che l’uso dell’espressione “realizzazione dei lavori” da parte del legislatore per individuare il termine antecedentemente al quale deve essere emanato il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico, possa essere interpretato nel senso che il delitto potrà concretarsi anche nel caso in cui detto provvedimento venga emesso dopo l’inizio dei lavori e prima del loro completamento. Nessun problema sembra porsi nel riconoscere la natura di reato formale e di pericolo e nella individuazione del dolo generico come elemento soggettivo del reato.

Con l’introduzione, nel comma 1-ter, della valutazione postuma della compatibilità paesaggistica degli alcuni interventi minori,[17] si è stabilito che, pur mantenendosi ferma l’applicazione delle misure amministrative ripristinatorie e pecuniarie previste dall’articolo 167, non dovranno applicarsi le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dal primo comma dell’articolo 181.

La disposizione, che appare giustificata in considerazione della minima rilevanza degli abusi sanabili, creerà molto probabilmente qualche problema di pratica applicazione in quanto il comma 1-quater appare laconico nell’indicare il procedimento di rilascio della sanatoria, non specificando sulla base di quale documentazione debba effettuarsi la valutazione (non potendosi fare neppure riferimento all’articolo 146, comma terzo del “Codice Urbani” per la omessa emanazione, nel termine, del DPCM che avrebbe dovuto individuare la documentazione da allegare alla domanda di autorizzazione) e non fornendo alcuna indicazione su come qualificare il silenzio eventualmente tenuto dall’amministrazione sulla richiesta di valutazione di compatibilità.

Il comma 1-quinquies prevede, invece, una forma di estinzione del reato conseguente alla spontanea rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa e, comunque, prima che intervenga la condanna.

L’applicabilità della disposizione fa esplicito riferimento al “reato di cui al comma 1” (quindi alla violazione contravvenzionale già contemplata dalla legge Galasso prima e dal D.Lv. 49099 poi) e non è pertanto applicabile al delitto introdotto al comma 1-bis. Il legislatore, però, non ha forse tenuto in considerazione il fatto che, in caso di interventi aventi anche rilevanza urbanistica, l’effetto estintivo della norma non potrà estendersi anche a tale tipologia di violazioni, frequentemente concorrenti con quelle paesaggistiche, con la conseguenza che dovrà comunque applicarsi la sanzione prevista dalla norma urbanistica[18]. In altre parole, considerato il fatto che in caso di realizzazione di una costruzione abusiva in zona vincolata, di regola si applica l’articolo 81 C.P., avendo il contravventore con una sola azione violato due disposizioni penali, il vantaggio per chi demolirà spontaneamente l’abuso sarà minimo in quanto riguarderà l’entità della pena e la procedura amministrativa di acquisizione e demolizione dell’immobile cui è obbligata l’autorità comunale (ammesso che venga effettivamente avviata).

5. Una nuova lettura delle disposizioni sulla riduzione in pristino?

Pur essendo rimasta inalterata, rispetto all’originaria formulazione, la previsione dell’ordine di rimessione in pristino dello stato originario dei luoghi a spese del condannato, sembra che anche tale disposizione debba leggersi, ora, tenendo conto del contenuto degli altri commi introdotti nell’articolo 181.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, aveva precisato, antecedentemente all’entrata in vigore del codice, che il parere postumo dell'ente preposto alla tutela del vincolo non produce alcun effetto estintivo autonomo del reato paesaggistico non essendo tale conseguenza prevista espressamente, pur riconoscendo che una eventuale “autorizzazione in sanatoria” potesse spiegare la propria efficacia sotto il profilo amministrativo affermando, in più occasioni, che il rilascio dell'autorizzazione in sanatoria, purché valida ed efficace, esclude l'applicazione dell'ordine di rimessione in pristino "tutte le volte in cui il suo rilascio elimina ogni vulnus al paesaggio in una visione sostanziale della sua protezione"[19].

Ora, però, si deve tener conto del già citato contenuto dell’articolo 146, comma 10 (rimasto inalterato a seguito dell’intervento effettuato con la legge delega 3082004 che ben avrebbe potuto indicare una deroga espressa) e del fatto che il legislatore prevede, nell’articolo 181 comma 1-ter, l’applicazione delle misure amministrative ripristinatorie e pecuniarie nonostante la valutazione postuma di compatibilità paesaggistica con effetti estintivi del reato per gli abusi minori.

Se, dunque, anche per gli abusi minori vige l’obbligo di ripristino, a maggior ragione tale obbligo dovrà sempre sussistere per tutte le altre ipotesi contemplate dall’articolo 181 di nuova formulazione.

6. Il “condono paesaggistico

Ancor più contorte e di dubbia efficacia appaiono, infine, le disposizioni sul “condonicchio” o “minicondono”.

Si tratta di interventi dell’ultimo momento sull’originaria stesura della legge delega, finalizzati a “rimediare” ai rigori delle disposizioni sul condono edilizio che, come accennato in precedenza, rendono ardua, se non impossibile, l’applicabilità del beneficio agli interventi edilizi in zona vincolata.

Si è così pensato di sanare i “lavori compiuti su beni paesaggistici”, in assenza di autorizzazione o in difformità dall’autorizzazione rilasciata, se ultimati entro il limite temporale del 30 settembre 2004.

Per questi interventi, l'accertamento di compatibilità paesaggistica dei lavori effettivamente eseguiti, anche rispetto all'autorizzazione eventualmente rilasciata, comporta esclusivamente l'estinzione del reato di cui all'articolo 181 e di ogni altro reato in materia paesaggistica a condizione che le “tipologie edilizie” realizzate e i materiali utilizzati, anche se diversi da quelli indicati nell'eventuale autorizzazione, rientrino fra quelli previsti e assentiti dagli strumenti di pianificazione paesaggistica, ove vigenti (sembra ovvio, al momento della realizzazione dei lavori) o, altrimenti, siano giudicati compatibili con il contesto paesaggistico e che il contravventore abbia pagato le sanzioni pecuniarie indicate nella lettera b) nn. 1 e 2 del medesimo comma. Il termine per la presentazione delle domande era fissato al 31 gennaio 2005.

Si tratta di una disposizione estremamente lacunosa che nulla dice, ad esempio, sui contenuti della domanda, la documentazione da produrre, le modalità ed i tempi di pagamento delle sanzioni, la dimostrazione della data effettiva di ultimazione dell’intervento, il termine entro il quale l’autorità competente deve pronunciarsi, la natura vincolante o meno del prescritto parere della sovrintendenza[20].

Inoltre, diversamente dalle disposizioni in tema di “condono edilizio”, non si indicano nel dettaglio gli interventi sanabili, non è prevista la sospensione del procedimento penale e di quello amministrativo per la riduzione in pristino, vengono previsti effetti solo in campo penale e nulla si dispone in merito alla procedura amministrativa di ripristino per la quale sembrano quindi valere le considerazioni in precedenza formulate.

Sempre confrontando queste disposizioni con quelle analoghe in campo urbanistico, pare debbano escludersi tutti gli interventi consistenti nella realizzazione di volumi o che abbiano comunque rilevanza urbanistica sembrando assurdo che, esclusa dapprima la sanabilità di gran parte degli interventi in zona paesaggistica, si cambi repentinamente indirizzo senza neppure prevedere limiti proprio per le zone meritevoli di maggiore tutela. [21]

Il mancato coordinamento con la normativa urbanistica riguardo alla tipologia di abusi ed ai riferimenti temporali rende, inoltre, teoricamente possibili sanatorie di interventi in zona vincolata che andrebbero poi demoliti perché non sanabili sotto il profilo urbanistico[22].

Come era prevedibile, il ricorso a questa ipotesi di sanatoria, davvero singolare, è stato raro e le istanze presentate non sembrano essere destinate ad una sollecita definizione a causa delle incertezze circa l’espletamento del procedimento amministrativo di rilascio del titolo abilitativo sanante.

7. Il ruolo della giurisprudenza

Se, dunque, la promulgazione del codice ha creato, come era prevedibile, alcuni problemi di lettura delle nuove disposizioni, le importanti innovazioni introdotte dalla legge delega hanno ancor più complicato le cose e rendono, ora, estremamente importante il contributo interpretativo della giurisprudenza di legittimità che, seppure sulla base degli indirizzi ormai consolidati in venti anni di pronunce sulla disciplina dei beni ambientali, dovrà valutare il contenuto delle novità e colmarne inevitabilmente le numerose lacune sempreché, nel frattempo, non seguano nuove modifiche legislative.

Anche l’apporto della giurisprudenza non appare, però, esente da rischi.

Va detto a tale proposito, in primo luogo, che non può farsi a meno di notare, confrontando le decisioni datate con quelle più recenti, un’eccessiva sintesi nell’analisi delle singole questioni che, in alcuni casi, fortunatamente rari, sembra denunciare una minore cura nel dettaglio ma che appare agevolmente superabile sulla base delle soluzioni interpretative già consolidate.

Maggiore rilevanza assume, invece, la concreta attuazione, con riferimento ovviamente alla materia che qui interessa, del c.d. principio di offensività[23].

Trattando dei beni ambientali, infatti, la giurisprudenza della cassazione si è a lungo soffermata sulla corretta valutazione del principio di offensività con riferimento alle violazioni contemplate dalla normativa preesistente al codice.

Tenendo conto della consolidata opinione circa la natura di reato formale e di pericolo della violazione paesaggistica, la Corte di Cassazione ha ripetutamente evidenziato, sotto la vigenza della “legge Galasso”, come fosse soggetto a preventiva autorizzazione ogni intervento astrattamente idoneo ad incidere, modificandolo, sull’originario assetto del territorio sottoposto a vincolo paesaggistico e ciò in considerazione di quanto disponeva l’art. 7 L.149739, il quale faceva riferimento ad interventi atti a determinare la distruzione del bene protetto ovvero a modificarlo arrecando pregiudizio al suo aspetto esteriore ed al contenuto della legge 43185, che faceva pure riferimento ad attività che non rientrano nel regime previsto dalla legge a condizione che non determinino una alterazione o comunque un mutamento dell’originario stato dei luoghi.

Il principio veniva ribadito anche dopo l’entrata in vigore del D.Lv. 49099[24] e la casistica, particolarmente nutrita, evidenzia la sostanziale uniformità di indirizzo[25] che trova conferma anche nel fatto che, al contrario, vengono ritenuti non sanzionabili penalmente tutti gli interventi che non rappresentino un potenziale pericolo di lesione dell'integrità dell'ambiente.

L’individuazione degli interventi sanzionabili deve avvenire, secondo la suprema corte, sulla scorta di una valutazione ex ante della loro potenzialità lesiva che dovrà, necessariamente, essere effettuata mediante ricorso a criteri oggettivi e non soggettivi e tenendo presente non solo l'aspetto "quantitativo" dell'intervento (dimensioni, estensione dell'area interessata etc.), ma anche quello "qualitativo" relativo, cioè, alle caratteristiche intrinseche dell'intervento rapportate al contesto in cui lo stesso si colloca.

E’ stata così riconosciuta, ad esempio, la necessità della preventiva autorizzazione per la realizzazione di piste e strade[26] ovvero per l’abbassamento del preesistente piano stradale[27], per l’abbattimento di piante e ceppaie e per il disboscamento di terreni[28], per la costruzioni di pontili che sottraggono terraferma al mare[29], per la sostituzione di un lastrico solare con un tetto a falde[30] o la costruzione di una soletta in cemento armato[31], per l’asfaltatura di un piazzale[32], per interventi consistenti nell’accumulo di inerti a ridosso della vegetazione arborea[33]. Per contro, è stata esclusa la rilevanza penale degli interventi consistenti nella violazione di semplici prescrizioni esecutive,[34] nel caso in cui un fabbricato era stato realizzato in misura inferiore, sotto il profilo planovolumetrico, da quanto originariamente autorizzato,[35] riguardo ad interventi che non siano visibili perché eseguiti su “pareti che prospettino su cortili o aree interne agli edifici e chiuse su ogni lato[36], per l’attività di pioppicoltura di ripa,[37] il transito e l’ormeggio in acque protette[38], la realizzazione di lavori di sistemazione di una recinzione di un cancello e di alcuni pali per la collocazione di una tenda.[39]

Mancando però, nella normativa, una indicazione precisa dei criteri di valutazione della rilevanza della condotta, che potevano essere soltanto desunti sulla base delle pronunce in precedenza richiamate, si è cercato di colmare, almeno in parte il vuoto che determinava notevoli oscillazioni nella giurisprudenza di merito, con un successivo intervento[40] nel quale viene stabilito che deve essere presa in considerazione l’incidenza complessiva dell’intervento sull’area soggetta a protezione, tenendo conto del contesto ambientale in cui la stessa si colloca. La valutazione deve poi essere completata tenendo in considerazione il pericolo che può essere determinato dalla reiterazione di un intervento, anche se modesto (quello preso in considerazione dalla Corte riguardava lo spostamento di una canna fumaria e la installazione di una unità di raffreddamento di un sistema di condizionamento).

Sempre sul medesimo argomento, si è anche precisato che “il riferimento al criterio di concreta offensività può essere accettato solo in ambiti estremamente marginali che, secondo l’elaborazione giurisprudenziale, possono riguardare casi in cui l’assenza di pericolo di lesione del bene tutelato sia verificabile ictu oculi e, cioè, al di là di ogni ragionevole dubbio. Sicché non può apparire compatibile con la rigorosa disciplina normativa, appena richiamata, il riconoscimento di inoffensività, sul piano concreto, di una nuova opera, che, in quanto tale, al di là delle dimensioni, per il solo fatto di essere introdotta in un paesaggio rigorosamente tutelato nella sua integrità, ne determina inevitabilmente una modifica e, quindi, un “pericolo di alterazione”; pericolo che, con riferimento alla sua sussistenza, al momento della consumazione dell’abuso, non può ritenersi vanificato da successiva autorizzazione in sanatoria[41].

In altra occasione, un’altra rigorosa interpretazione del principio di offensività evidenzia che “…la sanzione penale è posta in riferimento a condotte che violino l’interesse pubblico a che l’autorità deputata alla tutela dei beni ambientali possa valutare previamente (i.e. prima della realizzazione dell’opera) il suo possibile impatto ambientale. Questo interesse pubblico, che è sotteso strumentalmente a quello avente ad oggetto direttamente la tutela del paesaggio, è leso - ed in ciò risiede l’offensività della condotta - quando non viene resa possibile questa valutazione preventiva. In tal caso la lesione del bene tutelato e l’offensività della condotta sussistono anche ove ex post la stessa autorità amministrativa possa verificare che l’opera non comportava alcun impatto ambientale negativo[42] .

Dal sommario esame della giurisprudenza emergono, in tutta la loro evidenza, le difficoltà in cui inevitabilmente si imbatte il giudice nel valutare la offensività della condotta in concreto, lasciando trasparire, talvolta, l’esigenza di utilizzare tale valutazione per mitigare gli effetti delle rigorose disposizioni riguardo a casi concreti che, pur presentando l’idoneità offensiva richiesta dalla legge, appaiono di minore entità. Ciò, come appare evidente, rende possibile arbitrarie forzature interpretative che potrebbero intaccare, specie nella giurisprudenza di merito, il monolitico orientamento della Cassazione che ha, fino ad ora, rappresentato l’unica vera forma di tutela del bene paesaggistico.

Concludendo, non possono non confermarsi le perplessità circa il futuro del codice manifestate in precedenza.

Il legislatore, specie con gli ultimi interventi, ha dato prova di voler sostanzialmente tornare sui propri passi, inventandosi irrealizzabili ipotesi di condono, introducendo un’ipotesi, seppure residuale, di sanatoria dopo averla vietata e, in definitiva, dimostrando scarso interesse per una tutela effettiva dei beni ambientali (e culturali).

Nessuna garanzia offrono inoltre gli enti locali che da sempre dimostrano (ce lo ha ricordato, come già detto, anche la Corte Costituzionale) scarsissima affidabilità nella gestione del territorio.

Ancora una volta, sembra dunque che una razionale lettura delle nuove disposizioni resti affidata alla giurisprudenza, alle associazioni di tutela ambientale o alla sensibilità di qualche pubblico funzionario anche se non si può fare a meno, ovviamente, di augurarsi una futura, clamorosa smentita.



[1] Legge 13 luglio 1966 n.615 “Provvedimenti contro l’inquinamento atmosferico”.

[2] Per quanto riguarda i BB. AA., la legge 26 giugno 1939 n. 1497

[3] Legge 8 agosto 1985 n. 431

[4] D.L.vo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo Unico sui Beni Culturali e Ambientali).

[5] L’omessa indicazione di un precetto ben determinato ed il generico richiamo all’articolo 20 della legge 4785 senza alcuna ulteriore specificazione avevano determinato anche il ripetuto intervento della Corte Costituzionale.

[6] Sul punto v. Cass. Sez. III n. 2855 del 1272000, Raguccia; Sez. III n. 40849 del 16112001, Fara in Rivistambiente 22002 pag. 205.

[7] Corte Cost. sent. 4161995,

[8] Si vedano, come primo commento, gli interventi di FALCONE, FUZIO, VERGINE, DINI in Ambiente Consulenza e pratica per l’impresa n. 72004 pag. 627 e ss.

[9] La circostanza è segnalata da VERGINE op. cit.

[10] Parere del servizio tecnico giuridico Ministero Beni ed attività culturali - Direz. Gen. BB. Arch. e Pesaggio n.5610624664 del 19 luglio 2004 avente ad oggetto Articolo 146, comma 10 D.Lgs.422004 recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio” divieto di autorizzazione ex post di interventi realizzati in area vincolata” in www.lexambiente.it

[11] Sui limiti di condonabilità degli interventi in zona vincolata si veda per tutte Cass. Sez. III sent.442 del 552004, Modica ed altre succ. tutte conformi

[12] Legge 15 dicembre 2004 n. 308 avente ad oggetto «Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione».
[13] Si vedano gli schemi dei decreti delegati ed i commenti in www.lexambiente.it

[14] Gli interventi sui rifiuti sono quelli che maggiormente rivelano le intenzioni del legislatore intervenendo dopo pochi giorni dalla clamorosa (ma prevedibile) condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia europea (Corte di Giustizia Sez. II sent. 11 novembre 2004 in www.lexambiente.it) richiamando il controverso contenuto dell’articolo 14 legge 1782002 oggetto di intervento da parte della Corte. Si sono inoltre introdotte nuove disposizioni sui rottami ferrosi al fine di sottrarli dal novero dei rifiuti ma introducendo, per fretta o distrazione, disposizioni che, se interpretate letteralmente, amplierebbero di fatto la nozione di rifiuto con riferimento a tali tipologie (si veda a tale proposito PRATI “La legge delega n.308 del 2004 in materia ambientale e le materie prime secondarie per l’industria metallurgica: una nuova norma paradossale?” in www.lexambiente.it)

[15] Mi permetto di riproporre le argomentazioni svolte in un primo commento alla legge pubblicate in Guida al Diritto n.42005 e su www.lexambiente.it

[16] Stabilendo che, qualora la competente autorità amministrativa non vi provveda per mezzo del prefetto in caso di inottemperanza del trasgressore obbligato, vi provveda il direttore regionale competente con le modalità operative di cui all’articolo 41 T.U edilizia a seguito di apposita convenzione stipulata d'intesa tra il Ministero per i beni e le attività
culturali e il Ministero della difesa. Vengono inoltre fornite indicazioni più puntuali per l’impiego delle somme ricavate dall’applicazione della procedura prevista dal medesimo articolo 167

[17] Interventi consistenti in lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; mediante l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 T.U. edilizia

[18] Sulla irrilevanza della spontanea demolizione ai fini della estinzione del reato urbanistico v. A. FIALE “Diritto Urbanistico”, Napoli 2002 pag. 957 e ss. cui si rinvia anche per i riferimenti al con