Pres. Postiglione Est. Ianniello Ric. Calenzo ed altro
Beni Culturali. Qualificazione del bene come culturale
Un bene deve qualificarsi come culturale, ove si tratti di cose ritrovate nel sottosuolo o sui fondi marini, poiché a tali cose compete la qualificazione di beni culturali appartenenti allo Stato indipendentemente dalla dichiarazione di cui all'art. 13 del D. Lgs. n. 42 – 2004. Si desume dalla disciplina di settore l'esistenza di una presunzione di "culturalità" di tali beni, la quale peraltro assume carattere provvisorio, in quanto le cose ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini che appartengono allo Stato sono sottoposte al regime indicato fino a quando non sia effettuata la verifica di effettiva "culturalità" di cui al secondo comma dell'art. 12 del medesimo decreto, il cui esito positivo determina la definitiva sottoposizione alla disciplina dei beni culturali.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati: Camera di consiglio
Dott. POSTIGLIONE Amedeo - Presidente - del 12/06/2007
Dott. PETTI Ciro - Consigliere - SENTENZA
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - N. 642
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. IANNELLO Antonio - Consigliere - N. 12126/2007
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
1) CALENZO ENRICO, N. IL 16/11/1959;
2) TALLINI FLORINDA, N. IL 20/11/1958;
avverso ORDINANZA del 28/02/2007 TRIB. LIBERTÀ di LATINA;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. IANNIELLO ANTONIO;
sentite le conclusioni del P.G. Dott. IZZO Gioacchino, che ha chiesto
il rigetto del ricorso.
La Corte:
OSSERVA
Con ordinanza del 28 febbraio 2007, il Tribunale di Latina ha respinto
l'istanza di riesame del decreto di sequestro preventivo di un locale
interrato, nel quale erano state eseguite da parte dei ricorrenti
Enrico Calenzo e Florinda Tallini opere ritenute riconducibili ai reati
di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, artt. 169 e 181 e all'art. 733
c.p., in ragione dell'effettuazione di uno scavo tramite escavatore e
della demolizione di una volta a botte riconducibile ad epoca romana.
Avverso tale ordinanza propone ricorso per Cassazione il difensore
degli indagati, deducendo:
1 - la violazione D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 169 e difetto di
motivazione sul punto: il reato era stato ritenuto sussistente
nonostante che i beni non avessero ricevuto il crisma del bene
culturale sulla base della dichiarazione prevista D.Lgs. n. 42 del
2004, art. 13;
2 - la violazione del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 149 e l'assenza
assoluta o la mera apparenza di motivazione sul punto, in quanto tale
norma consentirebbe lavori del tipo di quelli operati dagli indagati
senza necessità di autorizzazione;
3 - la mera apparenza di motivazione in ordine alla sussistenza in
concreto delle esigenze cautelari.
Il ricorso è infondato.
Col primo motivo, il ricorrente lamenta che il fatto sia stato
ricondotto senza alcuna motivazione all'ipotesi contravvenzionale di
cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 169, comma 1, lett. a),
nonostante che il bene demolito non fosse stato dichiarato di interesse
culturale a norma del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 13.
Al riguardo si rileva che sull'argomento della qualificazione del bene
come culturale, ove si tratti di cose ritrovate nel sottosuolo o sui
fondi marini, si registra all'interno di questa Corte un contrasto
interpretativo tra chi ha ritenuto che a tali cose competa la
qualificazione di beni culturali appartenenti allo Stato
indipendentemente dalla dichiarazione di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004,
n. 42, art. 13 (Cass. 28 novembre 2006 n. 39109) e l'orientamento che
viceversa richiede in ogni caso la preesistenza di quest'ultima
dichiarazione (Cass. 2 luglio 2004 n. 28929). In proposito, il collegio
dichiara di condividere il primo orientamento interpretativo, in quanto
fondato su una appropriata analisi del dato normativo.
D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 10, qualifica infatti, al comma 1,
come beni culturali le cose mobili o immobili appartenenti, tra gli
altri enti, allo Stato, "che presentano interesse artistico, storico,
archeologico o etnoantro-pologico".
Il comma 2 dell'articolo in esame individua poi alcuni beni che sono
comunque qualificati come culturali, mentre il terzo elenca una serie
di altre cose (tra le quali quelle che presentano un interesse
artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente
importante appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma
1), cui la qualificazione spetta unicamente a seguito della
dichiarazione di sussistenza del relativo interesse di cui al
successivo art. 13.
Infine, ai sensi del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 91, comma 1,
"le cose indicate nell'art. 10, da chiunque e in qualunque modo
ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato".
Si desume pertanto dalla disciplina citata l'esistenza di una
presunzione di "culturalità" dei beni da ultimo citati, la
quale peraltro assume carattere provvisorio, in quanto le cose
ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini che appartengono allo
Stato sono sottoposte al regime indicato fino a quando non sia
effettuata la verifica di effettiva "culturalità" di cui al
D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 12, comma 2, il cui esito positivo
determina la definitiva sottoposizione alla disciplina dei beni
culturali. Ciò posto, vanno anzitutto ricordati i limiti del
controllo del Tribunale di riesame sul decreto di sequestro (cfr., tra
tante, la sent. 18 maggio 2004, n. 23214) sul piano della
legittimità della misura, controllo che non può
tradursi in una anticipata decisione della questione di merito
concernente la responsabilità dell'indagato in ordine al
reato oggetto di indagine, ma deve limitarsi a un controllo di
compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale
ipotizzata, mediante la valutazione dell'antigiuridicità
penale del fatto così come contestato, sulla base degli
elementi dedotti dall'accusa risultanti dagli atti processuali
nonché delle relative contestazioni difensive. L'ordinanza
in esame ha correttamente applicato tali principi, riconducendo il
fatto, come specificatamente descritto nella richiamata denuncia
presentata dalla Soprintendenza dei beni archeologici del Ministero per
i beni e le attività culturali - e quindi con una
valutazione di culturalità dei beni distrutti ancorata ad
elementi di indubbio rilievo - alla ipotesi investigativa di cui al
D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 169. Fermo restando che
spetterà al giudizio di merito l'accertamento pieno della
sussistenza degli elementi costitutivi del reato, ivi compresa la
qualificazione definitiva del bene.
Sulla base delle considerazioni svolte, il motivo esaminato
è pertanto valutato come infondato.
Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, risolvendosi
in una censura di insufficienza di motivazione in ordine alla
riconducibilità dell'opera ad uno degli interventi che non
necessitano di autorizzazione paesaggistica in quanto qualificabile
come di manutenzione ordinaria o straordinaria. Al riguardo infatti
l'ordinanza non solo non è assolutamente priva di
motivazione (o contenente una motivazione meramente apparente), vizio
che sarebbe riconducibile alla violazione di legge e pertanto
azionabile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 325
c.p.p. ma appare dotata di motivazione adeguata, spiegando
correttamente come non possa qualificarsi nei termini indicati un
intervento di tipo demolitivo con conseguente rilevante alterazione
dello stato dei luoghi e ritenendo del tutto estranea ad esso la
dichiarata finalità di eliminare la fonte di alcuni liquami
maleodoranti.
Altrettanto inammissibile appare l'ultimo motivo di ricorso, avendo il
Tribunale adeguatamente spiegato che la necessità di
sottrarre la disponibilità del bene agli indagati deriva dal
fatto che le opere di demolizione erano in corso al momento del
sequestro e quindi suscettibili di essere portate a compimento, con
irreparabile danno dei beni ancora non distrutti, tenuto conto delle
spregiudicate dichiarazioni effettuate in proposito dall'indagato e
riportate nel testo dell'ordinanza.
Concludendo, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso va
respinto, con la condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle
spese processuali.
P.Q.M.
LA CORTE
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento
delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 12 giugno 2007.
Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2007