Cass. Sez. III n.26072 del 9 luglio 2007 (Up 13 mar. 2007)
Pres. Grassi Est. Onorato Ric. Volpini
Beni culturali. Contraffazione opere d'arte

In tema di disciplina sui beni culturali le disposizioni che impongono ai venditori e ai commercianti di rilasciare attestati di autenticità e di provenienza delle opere, e quelle che incriminano la contraffazione e l'alterazione di opere d'arte se non accompagnate da una dichiarazione di non autenticità, si applicano anche alle opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni. Queste disposizioni, infatti, tutelano non già la integrità delle opere, oggetto proprio della disciplina dei beni culturali, ma la regolarità e onestà degli scambi nel mercato artistico.
La disciplina dei beni culturali riguarda tutte le opere di rilevanza culturale appartenenti a soggetti pubblici o privati residenti nel territorio nazionale, indipendentemente dalla nazionalità dell'autore delle opere stesse; il reato di contraffazione di opere d'arte riguarda tutte le condotte illecite (di contraffazione, alterazione, commercio etc.) realizzate nel territorio nazionale, indipendentemente dalla circostanza che le opere contraffatte, alterate etc. siano attribuite a un autore nazionale o a un autore straniero.
I titolari del diritto d'autore possono disporre del diritto patrimoniale alla utilizzazione dell'opera, ma non possono disporre del diritto morale al riconoscimento della paternità dell'opera, in modo da consentire la messa in circolazione di opere falsamente imputabili all'autore medesimo e da pregiudicare cosi la lealtà e la correttezza del mercato artistico.

UDIENZA PUBBLICA DEL 13/03/2007

SENTENZA N.786
REG. GENERALE N.21407/06


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE


Composta dagli Ill.mi Signori


Dott. Aldo GRASSI Presidente
Doti. Pierluigi ONORATO (est.) Consigliere
Doti. Amedeo FRANCO Consigliere
Dott. Antonio IANNIELLO Consigliere
Dott. Santi GAllARA Consigliere


ha pronunciato la seguente


SENTENZA


sul ricorso proposto da VOLPINI Renato Elio Benito, nato a Napoli il 10.12.1934, avverso la sentenza resa il 27.2.2006 dalla corte d'appello di Milano.
Vista la sentenza denunciata e il ricorso,
Udita la relazione svolta in pubblica udienza dal consigliere Pierluigi Onorato,
Udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Wladimiro De Nunzio, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso,
Udito il difensore della parte civile, avv. ==
Udito il difensore dell'imputato, avv.==
Osserva:


Svolgimento del processo


I - Con sentenza del 27.2.2006 la corte d'appello di Milano ha integralmente confermato quella resa il 12.2.2004 dal locale tribunale monocratico, che aveva condannato Renato Volpini alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno e sei mesi di reclusione ed curo 1.800 di multa, in quanto colpevole del reato di cui all'art. 127 D.Lgs. 490/1999, perché, al fine di trarne profitto, aveva contraffatto e detenuto nella sua disponibilità otto acqueforti su carta di Francisco Goya nonché tre opere grafiche di Salvador Dall denominate "Piano surrealista", "Lady Godiva con farfalle" e "Tre orologi danzanti" (accertato in Milano il 14.12.2000).


In sintesi, i giudici di merito hanno accertato e ritenuto quanto segue.


Il Volpini, amministratore della Borromeo Omnia s.r.l., su incarico della società britannica Inter Art Resources Lmt, rappresentata da Beniamino Levi, aveva commissionato allo stampatore d'arte Losio la riproduzione di varie opere d'arte, e deteneva ancora a sua disposizione:

a) otto acqueforti di Goya, su carta artificialmente antichizzata, senza firma e sensa alcuna dichiarazioni di non autenticità;

b) tre opere grafiche recanti la firma di Dalì, denominate "Piano surrealista", "Lady Godiva con farfalle" e "Tre orologi danzanti", e risultanti dall'assemblaggio di figure tratte da opere originali dell'autore, anche queste senza alcuna dichiarazione di non autenticità.


Il Volpini aveva ammesso di essere l'autore delle lastre da cui furono tratte le acqueforti di Goya, precisando però che, rispetto alle opere originali, le dimensioni erano diverse e differivano alcuni dettagli. Anche per le opere grafiche recanti la firma di Dalì, il Volpini aveva realizzato le matrici, abilmente assemblando alcune figure tratte da opere originali del pittore spagnolo.


Il fatto integrava il reato di cui all' art.127 D.Lgs. 490/1999, perché le acqueforti riproducevano, sia pure con qualche lieve differenza, opera autentiche di Goya, mentre le opere grafiche, pur non riproducendo opere autentiche di Dalì, recavano la sua firma e assemblavano pezzi di sue opere autentiche, sicché tutte le opere configuravano una contraffazione dolosa di opere dei due maestri.


Contrariamente alle tesi difensive, a nulla rilevava, per le opere grafiche firmate "Dalì", la disposizione dell'art. 2, comma 6, dello stesso decreto legislativo, che esclude dalla disciplina de qua le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquant'anni.


2 - Il Volpini ha proposto personalmente ricorso per cassazione, deducendo tre motivi a sostegno.


In particolare, lamenta:


2.1 - vizio di motivazione, perché la corte territoriale non ha considerato che il Levi, amico di Salvador Dalì sino alla sua morte, e poi anche amico della moglie del maestro spagnolo, aveva acquistato i diritti per "realizzare opere grafiche a tiratura limitata e firmate con una firma stampata di Salvador Dalì; e che egli, nel commissionare al medesimo Volpini le opere incriminate, aveva allegato all'ordine di stampa una dichiarazione in proposito rilasciata dagli eredi Dalì (prodotta in atti).


Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata è incorsa in ulteriore vizio di motivazione laddove ha ravvisato una idoneità ingannatoria in opere non firmate, come le acqueforti del Goya, o in opere autorizzate dai titolari del diritto d'autore, come quelle firmate Dalì.


2.2 - erronea applicazione del D.Lgs. 490/1999. Riprendendo motivi già svolti in appello, sostiene che la disciplina di cui al testo suddetto ha per oggetto solo il patrimonio storico e artistico "nazionale", nel quale non rientrano le opere dei pittori spagnoli Goya e Dalì (art. 1); che tale disciplina non si applica alle opere la cui esecuzione risalga a oltre cinquant'anni, come quelle del Goya (art. 2); che infine la tutela accordata dalla legge 633/1941 sul diritto di autore cessa settanta anni dopo la morte dell'autore (art. 31, recte art. 25).


- eccesso di pena e vizio di motivazione in relazione al diniego delle attenuanti generiche. Sostiene che i giudici di merito, nel valutare la gravità del danno ai fini del trattamento sanzionatorio, dovevano far riferimento non al fatturato delle opere commissionate al Losio dal febbraio 1999 al febbraio 2000 (per un importo complessivo di oltre 67 milioni di lire), ma all'importo del prezzo pagato dal Livi (per un valore minimo di lire 50.000 cadauna).


Motivi della decisione


3 - La tesi fondamentale del ricorrente è che la norma penale dell'art. 127 D.Lgs. 29.10.1999 n. 490 (testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), che incrimina la contraffazione di opere d'arte, non si applica alle opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni. E ciò nella considerazione che dalla disciplina di tutto il Titolo I dello stesso D.Lgs. 490/1999, relativo ai beni culturali (che include anche l'art. 127), sono espressamente escluse le opere suddette per effetto del sesto comma dell'art. 2 del ripetuto decreto legislativo.


Una tesi siffatta è sostenuta anche da una pronuncia di questa corte (Sez. III, n. 37782 del 18.9.2001, Patara, rv. 220352), ma è contrastata da altre decisioni di legittimità (Sez. III, n. 22038 del 12.2.2003, Pludwinski, rv. 225318; Sez. II, n. 18041 del 7.4.2004, Cardinale, rv. 228639).


Benché fondata sul tenore letterale della predetta disposizione, è una tesi che va disattesa in forza di una corretta interpretazione storico-sistematica della normativa interessata. Com'è noto, il testo unico sui beni culturali e ambientali è stato emanato sulla base dell'art. 1 della legge 8.10.1997 n. 352, che delegava il Governo a riunire e coordinare in un decreto legislativo tutte le disposizioni legislative vigenti in materia alla data di entrata in vigore della stessa legge di delega, con facoltà di apportare esclusivamente le modificazioni necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale, nonché per assicurare il riordino e la semplificazione delle procedure.


Per quanto riguarda i beni culturali, il legislatore delegato ha riunito nel titolo primo sia le disposizioni della legge 1.6.1939 n. 1089, sia le norme penali della legge 20.11.1971 n. 1062, che incriminavano la contraffazione delle opere d'arte e disciplinavano i casi di non punibilità (artt. 3, 4, 5, 6, 7 e 8 comma 1). Per conseguenza, con l'art. 166, ha abrogato l'intera legge 1089/1939, nonché tutta la legge 1062/1971, ad eccezione dell'art. 8, comma 2 (relativo alle vendite all'asta dei corpi di reato) e dell'art. 9 (che impone al giudice che procede per i reati di contraffazione delle opere d'arte di valersi di appositi periti e, nel caso di opere d'arte moderna e contemporanea, di assumere come testimone l'autore a cui l'opera è attribuita).


In relazione all'oggetto della rispettiva disciplina, occorre tener presente che la legge 1089/1939 aveva come scopo la tutela del patrimonio storico, archeologico e artistico nazionale, mirando a conservare il valore che ogni bene rappresenta attraverso i vincoli imposti, e penalmente sanzionati, alla modifica e alla circolazione giuridica dei beni stessi; mentre la legge 1062/1971, prescindendo dal valore culturale e artistico delle opere, si proponeva semplicemente di tutelare l'interesse dell'autore alla salvaguardia della genuinità delle sue opere artistiche, nonché l'interesse generale alla correttezza degli scambi nel mercato delle cose d'arte.


La legge 1089/1939, con l'art. 1, dopo aver definito l'ambito di applicazione della disciplina di tutela, escludeva espressamente da questo ambito "le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni". In tal modo il legislatore, rispetto all'interesse generale alla conservazione del patrimonio artistico della nazione, privilegiava l'interesse dell'autore, o dei suoi eredi, di utilizzare anche economicamente la propria produzione artistica.


Non a caso il suddetto limite temporale corrispondeva a quello previsto dalla legge 633/1941 sul diritto d'autore, la quale, nell'art. 25, stabiliva che "i diritti di utilizzazione economica dell'opera durano tutta la vita dell'autore e sino al termine del cinquantesimo anno solare dopo la sua morte".


Solo con legge 6.2.1996 n. 52 il termine è stato portato a 70 anni, per adeguarlo alla direttiva CEE n. 93/98 del 29.10.1993. Ma il legislatore delegato del 1999 ha evidentemente ritenuto di non poter adeguare la norma al nuovo limite temporale, giacché la delega ricevuta (art. 1 della legge 352/1997) lo facoltizzava soltanto a riunire e coordinare in un testo unico le disposizioni legislative vigenti in materia di beni culturali (e ambientali), apportando esclusivamente le modificazioni necessarie per il coordinamento formale e sostanziale: la nuova norma sul diritto di autore invece esulava dalla materia dei beni culturali (e ambientali) e come tale non poteva neppure essere oggetto di cordinamento.


Orbene, il legislatore delegato del 1999, riproducendo nell'art. 2 del testo unico l'art. 1 della legge 1089/1939, ha trascritto quasi letteralmente anche l'ultimo comma di questa disposizione, secondo cui "non sono soggette alla disciplina della presente legge le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni", sicché ha formulato l'ultimo comma dell'art. 2 del testo unico nel modo seguente: "non sono soggette alla disciplina di questo Titolo (...) le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni". Ma in tal modo il legislatore delegato non ha considerato che la disciplina di cui alla legge 1089/1939 non era completamente sovrapponibile a quella del Titolo primo del testo unico, dedicato ai beni culturali, giacché questo riproduceva - tra l'altro - anche le menzionate disposizioni della legge 1062/1971, relative al commercio, all'autenticazione e alla contraffazione di opere d'arte, che invece non erano comprese nella legge 1089/1939.


Per conseguenza non ha considerato che, per rispettare la delega legislativa, la clausola di esclusione per le opere di autori viventi e assimilati doveva far riferimento solo alla disciplina sui beni culturali già contenuta nella legge 1089/1939 e non anche alla disciplina sulle contraffazioni di opere d'arte contenuta nella legge 1062/1971.


3.1 - Si tratta di un difetto di coordinamento letterale, che il giudice può e deve colmare perché contrasta con una più congrua interpretazione fondata su criteri storici, teleologici e sistematici.


Sotto il primo profilo, infatti, s'è già visto che il legislatore del 1939 escludeva le opere di autori viventi e assimilati solo dalla disciplina della stessa legge, che non comprendeva le norme penali sulla autenticazione e sulla contraffazione delle opere d'arte: sicché il legislatore delegato del 1999, in forza della legge di delega, non era legittimato ad escludere le stesse opere anche dalla disciplina relativa all'autenticazione e alla contraffazione.


Sotto il profilo teleologico, l'esclusione delle opere degli autori viventi e assimilati si giustificava rispetto alla disciplina di tutela del patrimonio storico culturale della nazione, che in questi casi cedeva il passo alla tutela dei diritti d'autore; ma non si giustificava rispetto alla disciplina relativa all'autenticazione e alla contraffazione delle opere d'arte, che era appunto tesa a tutelare il diritto dell'autore allo sfruttamento economico delle proprie opere, nonché a salvare la genuinità del commercio delle stesse opere.


Infine, sotto il profilo logico e sistematico, se il legislatore del 1999 avesse veramente inteso escludere da tutta la disciplina del Titolo primo le opere di autori viventi e assimilati, non si spiegherebbe logicamente perché non ha abrogato tutta la legge 1062/1071, ma ha tenuto in vita l'art. 9 della stessa legge, che fa obbligo al giudice del processo penale relativo ai reati di contraffazione di opere d'arte moderna e contemporanea di assumere come testimone l'autore (evidentemente vivente) a cui è attribuita l'opera contraffatta: ciò infatti presuppone che la norma incriminatrice della contraffazione artistica si applichi anche per le opere di autori viventi, in contrasto con il tenore letterale del ripetuto sesto comma dell'art. 2.


La tesi qui accolta è stata affermata anche dalla Corte costituzionale, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 6, D.Lgs. 490/1999, nella parte in cui esclude dalla sfera di applicazione delle norme incriminatrici della contraffazione di opere d'arte le opere di autori viventi e assimilati, in quanto trattavasi di questione sollevata sulla base di una erronea interpretazione della norma censurata (cent. 173/2003; ord. 109/2003).


Tutto ciò è tanto vero che il nuovo D.Lgs.22.1.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), emanato in forza della delega conferita al Governo con l'art. 10 della legge 6.7.2002 n. 157, nell'art. 10 ha sostanzialmente riprodotto l'art. 2 del D. Lgs. 490/1999, ma ha modificato l'ultimo comma inserendo l'inciso "salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178", che corrispondono rispettivamente all'art. 63 (attestati di autenticità e provenienza) e all'art. 127 (contraffazione di opere d'arte) del D.Lgs. 490/1999: sicché, secondo il nuovo codice dei beni culturali, le opere di autori viventi e quelle la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni sono escluse dalla disciplina generale sui beni culturali del patrimonio nazionale, ma non dalla disciplina specifica relativa all'autenticazione e alla contraffazione delle opere d'arte.

Si deve quindi affermare il seguente principio di diritto:
in tema di disciplina sui beni culturali di cui al testo unico approvato col D.Lgs. 490/1999, contrariamente al senso letterale dell'art. 2, comma 6, le disposizioni di cui all'art. 63, che impongono ai venditori e ai commercianti di rilasciare attestati di autenticità e di provenienza delle opere, e quelle di cui agli artt. 127 e 128, che incriminano la contraffazione e l'alterazione di opere d'arte se non accompagnate da una dichiarazione di non autenticità, si applicano anche alle opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni. Queste disposizioni, infatti, tutelano non già la integrità delle opere, oggetto proprio della disciplina dei beni culturali, ma la regolarità e onestà degli scambi nel mercato artistico.


Ne deriva, per il caso di specie, che la predetta norma incriminatrice dell'art. 127 si applica anche per le opere attribuite al pittore Salvador Dalì (1904-1989), pacificamente risalenti a non più di cinquanta anni dalla data di commissione del reato (14.12.2000).


4 - La seconda tesi del ricorrente, analoga alla prima, sostiene che la disciplina di cui al Titolo primo del D.Lgs. 490/1999 ha per oggetto solo il patrimonio storico e artistico "nazionale", dal quale sono quindi escluse le opere di pittori spagnoli, quali Goya e Dalì.


Anche questa tesi va disattesa, non solo perché contrasta con la suddetta interpretazione storico-sistematica delle norme interessate, ma anche perché non trova propriamente un fondamento nella ermeneutica letterale.


Vero è che secondo l'art. 1 del testo unico "i beni culturali che compongono il patrimonio storico e artistico nazionale sono tutelati secondo le disposizioni di questo Titolo, in attuazione dell'articolo 9 della Costituzione". Al riguardo, va peraltro osservato che questa disposizione, invero più descrittiva che normativa, non riproduce alcuna omologa disposizione della legge 1089/1939, e quindi risulta violare i vincoli della delega legislativa soprattutto laddove intenda (o la si interpreti come intesa a) limitare la disciplina alle opere di autori nazionali. Del resto, nessuno potrebbe sostenere, per esempio, che un quadro di un pittore fiammingo appartenente al museo fiorentino degli Uffizi è sottratto alla tutela culturale del testo unico e non fa parte del patrimonio artistico nazionale.


In secondo luogo è altrettanto vero che nella definizione delle cose appartenenti al patrimonio culturale contenuta nell'art. 2 il riferimento al carattere "nazionale" scompare; e soprattutto è vero che, nell'incriminare la contraffazione di opere d'arte, l'art. 127 fa riferimento in genere alle opere di pittura, scultura o grafica, ovvero agli oggetti di antichità o di interesse storico o archeologico, senza far alcuna distinzione tra opere "nazionali" o "straniere" o tra le nazionalità dei loro autori.


Ne deriva che la norma incriminatrice, secondo il generale principio di territorialità di cui agli artt. 3 e 6 c.p., si applica a tutti coloro che, cittadini o stranieri, realizzano nel territorio italiano la condotta (di contraffazione, di alterazione, di commercio, etc.) prevista nella stessa norma, senza che abbia rilievo l'oggetto materiale della condotta illecita, che può essere indifferentemente un'opera d'arte di autore nazionale o di autore straniero.


E' probabilmente per queste ragioni che il nuovo Codice dei beni culturali, approvato col D.Lgs. 22.1.2004 n. 42, nel definire il patrimonio culturale (art. 2), ha abbandonato l'equivoco riferimento al carattere "nazionale".


Si devono quindi affermare i seguenti principi di diritto:
a) la disciplina dei beni culturali prevista nel testo unico 490/1999 riguarda tutte le opere di rilevanza culturale appartenenti a soggetti pubblici o privati residenti nel territorio nazionale, indipendentemente dalla nazionalità dell'autore delle opere stesse;
b) il reato di contraffazione di opere d'arte previsto dall'art. 127 riguarda tutte le condotte illecite (di contraffazione, alterazione, commercio etc.) realizzate nel territorio nazionale, indipendentemente dalla circostanza che le opere contraffatte, alterate etc. siano attribuite a un autore nazionale o a un autore straniero.


Ne deriva, per il caso di specie, che la norma incriminatrice di cui all'art. 127 si applica anche per le contraffazioni, le alterazioni, la messa in commercio etc. realizzate nel territorio nazionale sulle opere di Francisco Goya (1746-1828) e di Salvador Dalì (1904-1989).


5 - Dalle osservazioni storiche sopra sviluppate in ordine ai rispettivi scopi delle leggi 1089/1939 e 1062/1971 e alla elaborazione del testo unico approvato col D.Lgs. 490/1999 risulta evidente che la disciplina sul diritto d'autore di cui alla legge 633/1941 non ha rilevanza nella regiudicanda.


In particolare, non ha rilievo il fatto che né il testo unico 490/1999 né il successivo codice 42/2004, per i vincoli imposti dalle rispettive leggi di delega, non abbiano potuto adeguare il limite temporale di cinquanta anni, previsto rispettivamente nell'art. 2, comma 6, del D.Lgs. 490/1999 e nell'art. 10, comma 5 del D.Lgs. 42/2004, a quello di settanta anni imposto per la durata del diritto patrimoniale d'autore dalla direttiva CEE n. 93/98, e ora recepito nell'ordinamento nazionale con la legge 52/1996.


Sotto altro profilo non rileva che l'autore o i suoi eredi rilascino autorizzazioni a riprodurre le opere in modo falso o comunque ingannatorio, giacché non rientra nel potere di questi soggetti facoltizzare terze persone alla contraffazione o alterazione delle opere originali.


Al riguardo si deve affermare il seguente principio di diritto:
i titolari del diritto d'autore possono disporre del diritto patrimoniale alla utilizzazione dell'opera, ma non possono disporre del diritto morale al riconoscimento della paternità dell'opera, in modo da consentire la messa in circolazione di opere falsamente imputabili all'autore medesimo e da pregiudicare così la lealtà e la correttezza del mercato artistico.


In tal senso, nel caso di specie, non ha alcuna efficacia scriminante la circostanza, asserita dal difensore, che colui che aveva commissionato all'imputato la riproduzione delle opere grafiche di Dalì aveva in precedenza acquistato dagli eredi del pittore i diritti per "realizzare opere grafiche a tiratura limitata e firmate con una firma stampata di Salvador Dalì egli poteva infatti acquistare diritti patrimoniali sulle opere originali, ma non diritti morali per la produzione o riproduzione di opere non autentiche.


6 - E' quindi legittimo il giudizio di responsabilità emesso a carico del Volpini per il reato contestatogli, avendo i giudici di merito motivatamente accertato che egli:

a) procedette alla incisione delle lastre da cui sono state tratte le acqueforti che riproducevano opere originali di Goya;

b) elaborò un abile assemblaggio di alcune figure tratte da opere originali di Dalì;

c) dopo averne commissionato la stampa all'artigiano Losio, aveva detenuto a scopo di commercio le opere anzidette, apparentemente imputabili a Goya (in numero di otto) e Dalì (in numero di tre), senza alcuna annotazione di non autenticità, in tal modo realizzando contraffazioni oggettivamente pericolose per il mercato dell'arte.


Indubbia era la capacità ingannatoria delle opere, aggravata attraverso l'antichizzazione del supporto cartaceo delle acqueforti attribuibili al Goya e mediante l'apposizione della firma nelle opere attribuibili al Dalì.


Quanto al trattamento sanzionatorio, le censure del ricorrente sono prive di fondamento. Infatti, nonostante la contraria affermazione della sentenza impugnata, le attenuanti generiche erano state già riconosciute dal giudice di primo grado in considerazione della sostanziale incensuratezza dell'imputato.


La quantificazione della pena è stata legittimamente determinata dal primo giudice in ragione del contesto organizzato e internazionale in cui era stata realizzata la condotta di contraffazione, della notorietà degli autori contraffatti, della natura particolarmente ingannevole delle contraffazioni, nonché del fatturato derivabile dai manufatti falsificati, evidentemente assunto come indice della gravità del pericolo cagionato per la regolarità del mercato dell'arte.

Sotto quest'ultimo profilo, quindi, non è pertinente accertare se detto pericolo va commisurato sulle fatture emesse dallo stampatore Loiso (come sostiene la sentenza impugnata) o sulle fatture emesse dall'imputato a carico del committente britannico Livi (come sostiene il ricorrente): in realtà, del tutto correttamente, il primo giudice intendeva riferirsi semplicemente al diverso fatturato ricavabile dalla messa in commercio delle opere contraffatte, assunto ex art. 133, comma 1, numero 2, come parametro della gravità dell'offesa arrecata all'interesse protetto,


In conclusione, tutti i motivi di censura sono infondati e il ricorso va pertanto respinto.


Ai sensi dell'art. 616 c.p.p. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Considerato il contenuto del ricorso, non si ritiene di irrogare anche la sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende.


P.Q.M.


la corte suprema di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.