Cass. Sez. III n. 10163 del 6 marzo 2018 (Ud 3 ott 2017)
Presidente: Amoroso Estensore: Andronio Imputato: Rondot ed altri
Caccia e animali Vicenda Green Hill

Dalla semplice lettura degli art. 544 ter e 727, secondo comma, cod. pen. emerge che essi si riferiscono a fattispecie diverse e dotate di diversa gravità. La fattispecie delittuosa punisce chi «cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche», è caratterizzata dal solo elemento soggettivo del dolo e non anche da quello della colpa, nonché dall’ulteriore presupposto della crudeltà o della mancanza di necessità. La fattispecie contravvenzionale, invece, punisce, anche a titolo di colpa, la meno grave condotta di chi «detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze», senza richiedere la crudeltà o la mancanza di necessità, né la causazione di lesioni, o la sottoposizione a sevizie, comportamenti, fatiche, lavori insopportabili. Ne consegue che non vi è alcuna possibile identità fra le due fattispecie, perché la seconda, di portata più ampia, rappresenta un’ipotesi residuale rispetto alla prima; e ciò giustifica sul piano costituzionale la previsione di due ipotesi di reato distinte, nonché di sanzioni proporzionate alla loro diversa gravità.


RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 23 febbraio 2016, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Brescia del 23 gennaio 2015, con la quale gli imputati erano stati condannati, per i reati di cui agli artt. 110, 81, secondo comma, 544 bis e 544 ter cod. pen., anche risarcimento del danno nei confronti delle parti civili, in solido con il responsabile civile. L’imputazione si articola nel capo A (artt. 110, 81, secondo comma, 544 ter, primo e terzo comma, cod. pen.), contestato a Gotti, quale gestore di fatto delle procedure di allevamento, a Rondot quale legale rappresentante della società che gestiva l’allevamento e cogestore di fatto, a Bravi quale direttore dell’allevamento, che eseguiva le direttive impartite dei primi due, a Graziosi quale veterinario responsabile dell’allevamento, perché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, senza necessità, privando i 2639 cani di razza Beagle detenuti nell’allevamento dei loro pattern comportamentali, li sottoponevano a comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche, analiticamente descritti nell’imputazione, anche eseguendo la tatuatura degli stessi con aghi, in violazione del divieto imposto dagli artt. 13 del d.lgs. n. 116 del 1992 e 7 della legge della Regione Lombardia n. 16 del 2006, e tagliavano loro le unghie fino alla base, cagionando rotture dei vasi sanguigni; con l’aggravante della causazione della morte di alcuni cani Beagle. Al capo B, si contesta agli stessi soggetti, nelle stesse vesti, di avere, in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso e senza necessità, se non quella di liberarsi di animali non più vendibili sul mercato, di avere cagionato la morte mediante eutanasia di alcuni cani Beagle.
2. – Avverso la sentenza hanno proposto ricorsi per cassazione, tramite il difensore e con unico atto, gli imputati Rondot, Bravi, Graziosi e il responsabile civile Green Hill 2001 s.r.l., in persona del legale rappresentante, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si deducono la violazione dell’art. 544 ter, primo e terzo comma, cod. pen. e dell’art. 13 del d.lgs. n. 116 del 1992, nonché vizi della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità penale. Si richiama l’art. 19 ter delle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale, nella parte in cui esclude l’applicazione della sanzione penale nel caso in cui siano rispettate le disposizioni previste dalle leggi speciali che disciplinano l’allevamento di animali a fini di sperimentazione. Si lamenta che la Corte d’appello non avrebbe verificato se le etoanomalie riscontrate siano conseguenza delle condizioni nelle quali gli animali venivano tenuti nell’ambito dell’allevamento. E non si sarebbe considerato che si trattava del normale stato in cui questi animali vengono tenuti e che, in ogni caso, la funzione sociale dell’attività di allevamento a fine di sperimentazione deve essere ritenuta prevalente nel bilanciamento con il benessere dell’animale. La difesa prosegue sostenendo che, nel descrivere le etoanomalie riscontrate (freezing, comportamenti ridiretti, comportamenti stereotipati, comportamenti “pica”), la Corte d’appello sostanzialmente ne esclude la relazione causale con le ritenute violazioni del d.lgs. n. 116 del 1992. Non si sarebbe considerato, inoltre, che le disposizioni dell’allegato II di tale d.lgs. devono essere considerate come linee di indirizzo non immediatamente precettive, cosicché non poteva essere riscontrata, nel caso di specie, alcuna loro violazione.
2.2. – Con un secondo motivo di doglianza, si lamentano la mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 727, secondo comma, cod. pen., nonché vizi della motivazione sul punto. La Corte d’appello basa la sua decisione sulla considerazione che le condotte degli imputati, in relazione alle condizioni in cui gli animali erano mantenuti, abbiano determinato in essi rilevanti sofferenze. Tale affermazione, ad avviso della difesa, avrebbe dovuto indurre i giudici a ritenere sussistente al più il reato di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen., che si riferisce proprio alle condizioni di detenzione che siano incompatibili con la natura dell’animale e, perciò, produttive di sofferenze. Nell’ambito di tale doglianza si propone, per il caso in cui la Corte di cassazione ritenga di non poter addivenire all’interpretazione prospettata dalla difesa, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 544 ter cod. pen., in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 117, primo comma, Cost., nonché 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui esso punisce più gravemente chi sottopone un animale a comportamenti insopportabili per le sue caratteristiche etologiche rispetto a quanto previsto dall’art. 727 cod. pen., per chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di grave sofferenza. Per il caso di sofferenze cagionate dalle modalità di tenuta degli animali, vi sarebbe una identità sostanziale tra la fattispecie delittuosa e quella contravvenzionale; con la conseguenza che per non potrebbero essere disposte sanzioni di diversa gravità, contrastando il dettato del richiamato art. 544 ter anche con la funzione rieducativa della pena.
2.3. - In terzo luogo, si lamentano vizi della motivazione quanto al capo B dell’imputazione, riferito ai cani sottoposti ad eutanasia, in relazione al fatto che il consulente tecnico del pubblico ministero aveva ritenuto giustificate alcune delle eutanasie praticate. La sentenza impugnata non terrebbe conto della comparazione fra le informazioni contenute nei cartellini identificativi e nelle schede sanitarie dei cani per i quali si è stata ritenuta giustificata l’eutanasia e gli analoghi documenti riferiti ai cani per i quali l’eutanasia è stata ritenuta ingiustificata. Non si sarebbero considerate, in particolare le differenti situazioni dei singoli cani e le diverse patologie di ciascuno. Si contesta, inoltre, l’affermazione della Corte d’appello relativa all’inadeguatezza delle diagnosi, per la mancanza di esami di laboratorio, perché se tale fosse la causa della eutanasia non si configurerebbe una uccisione del cane senza necessità, ma un semplice errore diagnostico. Si contesta, infine, l’affermazione dei giudici di merito secondo cui i cani sarebbero stati gestiti in un’ottica meramente commerciale, mentre emergerebbe dagli atti che gli stessi erano stati eliminati solo in pochissimi casi ed erano stati ceduti gratuitamente ad associazioni o famiglie, nei casi in cui erano inidonei alla vendita a fini di sperimentazione scientifica.
3. – Il difensore della parte civile Enpa Onlus ha depositato memoria, con la quale rileva, in primo luogo, che è pendente un procedimento a carico di Silini e Giachini, medici veterinari presso la Asl di Brescia, sia per concorso con i reati oggi contestati, sia per reati di falso, omessa denuncia e falsa testimonianza in relazione alla vicenda oggetto del presente procedimento. Si ribadisce che l’allevamento in questione presentava evidentissime criticità e che l’attività veniva svolta in totale violazione delle metodologie tecnicamente adeguate. Si rileva che, in ogni caso, anche dalle testimonianze dei testi indotti dalla difesa era emersa la circostanza che i cani non avessero possibilità di muoversi e fossero costretti a sopportare il continuo frastuono provocato dal loro stesso abbaiare all’interno del capannone, nel quale vi era un’illuminazione del tutto insufficiente; vi era, inoltre, un alto tasso di mortalità perinatale, a causa dell’utilizzazione di segatura. Quanto all’eliminazione degli animali, si sostiene che per alcuni erano emerse terapie di durata brevissima per patologie non particolarmente gravi, alle quali era inspiegabilmente seguita l’eutanasia.
La difesa della parte civile sostiene, inoltre, l’inapplicabilità della clausola di esclusione di cui all’art. 19 ter delle disposizioni di coordinamento e transitorie per il codice penale, essendo evidentemente violate le norme sull’allevamento.
Si condivide infine la ritenuta riconducibilità delle condotte alla fattispecie di cui all’art. 544 ter anziché a quella di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen.
4. – Le parti civili LAV – Lega Antivisezione Onlus e Lega Nazionale per la difesa del Cane hanno depositato memoria, tramite il difensore, rilevando l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza del ricorso, sulla base di considerazioni in larga parte analoghe a quelle dell’altra parte civile. Evidenziano, in particolare, gli elementi a sostegno della ritenuta violazione delle normative tecniche applicabili, che avrebbero causato le gravi sofferenze agli animali. Ribadiscono, inoltre, la precettività del d.lgs. n. 116 del 1992 e, quanto alla motivazione sull’eutanasia, sostengono che la relativa censura sarebbe stata proposta per la prima volta con il ricorso per cassazione e sarebbe, dunque, preclusa, ancor prima che manifestamente infondata.

CONSIDERATO IN DIRITTO
5. – I ricorsi sono inammissibili.
5.1. – Il primo motivo di doglianza – con cui si deducono la violazione dell’art. 544 ter, primo e terzo comma, cod. pen. e dell’art. 13 del d.lgs. n. 116 del 1992, nonché vizi della motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità penale – è manifestamente infondato quanto ai profili giuridici e, comunque, sostanzialmente diretto a ottenere da questa Corte una rivalutazione del merito della decisione impugnata; rivalutazione preclusa in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen.
Secondo quanto previsto dall’art. 19 ter disp. coord. cod pen., introdotto dalla legge n. 189 del 2004, art. 3, comma 1, «le disposizioni del titolo 9 bis del libro 2 del codice penale non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi, di attività circense, di giardini zoologici, nonché dalle altre leggi speciali in materia di animali. Le disposizioni del titolo 9 bis del libro 2 del codice penale non si applicano altresì alle manifestazioni storiche e culturali autorizzate dalla regione competente». La ratio di tale disposizione è quella di scriminare attività che, già riconosciute come lecite dalle leggi speciali, possano essere obiettivamente lesive della vita e della salute degli animali. E la scriminante trova il proprio limite applicativo nella funzionalità della condotta posta in essere rispetto agli scopi e alle ragioni posti a base della normativa speciale: dette attività, segnatamente contemplate dalla suddetta norma di coordinamento, devono essere svolte, per potere essere esentate da sanzione penale, nell’ambito della normativa speciale stessa (cfr., con riferimento all’attività circense, Sez. 3, n. 11606 del 06/03/2012, Rv. 252251). La norma in questione, alla pari di quella, generale, dell’art. 51 cod. pen. appare, dunque, espressione del principio della necessaria coerenza dell’ordinamento giuridico, posto che un medesimo comportamento non può, allo stesso tempo, essere consentito o addirittura imposto, da una parte, e vietato dall’altra. Ne consegue che deve riaffermarsi il principio di diritto secondo cui incombe sul giudice l’onere di verificare che, in effetti, l’attività concretamente posta in essere sia disciplinata da una legge speciale riconducibile all’interno delle materie tassativamente elencate, e, in caso di soluzione affermativa, di accertare, successivamente, se le condotte si siano svolte nei limiti consentiti o imposti dalla norma speciale individuata.
5.1.1. – Nella specie, i giudici di merito hanno proceduto correttamente alla prima verifica: dopo avere rilevato che l’attività di allevamento, suscettibile di per sé di comportare l’eventuale sottoposizione degli animali a condizioni di vita non perfettamente in linea con la loro etologia, rientra all’interno dell’art. 19 ter richiamato, hanno individuato nel d.lgs. n. 116 del 1992 all’epoca vigente – ed in particolare nell’art. 5, dedicato all’allevamento di «animali da esperimento», e nell’allegato 2, da detto articolo richiamato, la norma di possibile "copertura", anche sotto un profilo sanzionatorio, affidato dall’art. 14 a sanzioni di natura amministrativa, delle condotte di specie. Tale normativa speciale, oltre a disciplinare le caratteristiche dell’attività di allevamento (in particolare attraverso l’allegato 2) e dell’attività di sperimentazione (attraverso l’art. 6), pone, essa stessa, espressamente, i limiti che non devono essere oltrepassati in entrambe dette attività, pena, diversamente, secondo quanto previsto dall’art. 14, l’integrazione, “salvo che il fatto costituisca reato”, di illeciti amministrativi. Anzi, proprio l’art. 14 segnala significativamente che lo stesso legislatore ha riconosciuto come non funzionali e non necessarie alla attività di allevamento (oltre che all’attività di sperimentazione) tutte quelle condotte che vengano poste in essere in violazione dei precetti stabiliti in particolare dall’art. 5 ed allegato 2 del decreto legislativo in parola, con conseguente esclusione, per quanto si è già detto in principio, dell’operatività della scriminante di cui al citato art. 19 ter. Tale essendo il quadro di riferimento, Deve rilevarsi che la ricostruzione difensiva secondo cui le norme dell’allegato 2 citato non sarebbero immediatamente precettive risulta smentita proprio dalla funzione scriminante esercitata, nel sistema vigente all’epoca dei fatti, dal d.lgs. n. 116 del 1992. Proprio perché tale testo normativo deve essere interpretato nel suo complesso come eccezione alla regola della punibilità, i confini del suo ambito di applicazione devono essere definiti in modo sufficientemente chiaro; e non può essere che questo il senso di richiamo dell’art. 5 all’allegato 2.
5.1.2. – Individuata la normativa speciale di riferimento, applicabile all’epoca dei fatti, i giudici di merito hanno poi ritenuto integrati i reati di cui agli artt. 544 bis e 544 ter cod. pen. laddove il trattamento degli animali sia stato attuato, rispetto alle linee guida dettate dal d.lgs. n. 116 del 1992, con modalità tali da sfociare in comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche, proprio perché, come appena rilevato, lo stesso art. 14 fa espressamente salvi gli eventuali reati derivanti dal superamento dei limiti.
È sufficiente qui sinteticamente richiamare, la motivazione pienamente adeguata coerente – e , dunque, insindacabile in sede di legittimità – della sentenza impugnata, laddove questa evidenzia che: a) le ispezioni svolte presso l’allevamento nel periodo tra il 2003 e il 2007 non avevano fatto emergere anomalie, ma erano del tutto inadeguate, Perché si svolgevano attraverso il mero disbrigo di pratiche burocratico-amministrative e senza un effettivo controllo sulla condizione degli animali; b) le ispezioni del periodo tra il 2010 il 2012 avevano, invece, accertato una serie di violazioni che avevano portato all’instaurazione del procedimento penale; c) in particolare, nell’attività ispettiva posta in essere nella giornata del 18/07/2012 erano state accertate e analiticamente descritte una serie di anomalie relative alla temperatura dei capannoni, alle condizioni igieniche dei luoghi, all’inadeguatezza dell’alimentazione, alla mancata somministrazione di farmaci, alla provocata deprivazione sensoriale degli animali; d) contrariamente a quanto ritenuto della difesa – e ribadito nel ricorso per cassazione – le anomalie comportamentali degli animali, analiticamente elencate, erano la diretta conseguenza delle condizioni nelle quali questi erano tenuti.
5.2. – Il secondo motivo di doglianza – con cui si lamentano la mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 727, secondo comma, cod. pen., nonché vizi della motivazione sul punto – è anch’esso inammissibile. La Corte d’appello correttamente basa la sua decisione sulla considerazione che le condotte degli imputati, in relazione alle condizioni in cui gli animali erano mantenuti, hanno determinato in essi rilevanti sofferenze. Si è trattato, in altri termini, di precise e consapevoli scelte decisionali di violazione delle corrette regole di tenuta dell’allevamento adottate da soggetti pienamente dotati della competenza tecnica per comprenderne le conseguenze negative sugli animali. E il dolo degli imputati emerge con chiarezza anche dalla corrispondenza scambiata fra gli stessi, che costituisce un elemento di decisivo riscontro.
La difesa ha proposto, per il caso in cui la Corte di cassazione ritenga di non poter addivenire alla richiesta derubricazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 544 ter cod. pen., in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 117, primo comma, Cost., nonché 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui esso punisce più gravemente chi sottopone un animale a comportamenti insopportabili per le sue caratteristiche etologiche rispetto a quanto previsto dall’art. 727 cod. pen., per chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di grave sofferenza. Secondo la prospettazione difensiva, per il caso di sofferenze cagionate dalle modalità di tenuta degli animali, vi sarebbe una identità sostanziale tra la fattispecie delittuosa e quella contravvenzionale; con la conseguenza che per non potrebbero essere disposte sanzioni di diversa gravità.
La questione è manifestamente infondata.
Dalla semplice lettura degli art. 544 ter e 727, secondo comma, cod. pen. emerge che essi si riferiscono a fattispecie diverse e dotate di diversa gravità. La fattispecie delittuosa punisce chi «cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche», è caratterizzata dal solo elemento soggettivo del dolo e non anche da quello della colpa, nonché dall’ulteriore presupposto della crudeltà o della mancanza di necessità. La fattispecie contravvenzionale, invece, punisce, anche a titolo di colpa, la meno grave condotta di chi «detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze», senza richiedere la crudeltà o la mancanza di necessità, né la causazione di lesioni, o la sottoposizione a sevizie, comportamenti, fatiche, lavori insopportabili. Ne consegue che non vi è alcuna possibile identità fra le due fattispecie, perché la seconda, di portata più ampia, rappresenta un’ipotesi residuale rispetto alla prima; e ciò giustifica sul piano costituzionale la previsione di due ipotesi di reato distinte, nonché di sanzioni proporzionate alla loro diversa gravità.
5.3. – Anche il terzo motivo di doglianza – con cui si denunciano vizi della motivazione quanto al capo B dell’imputazione, riferito ai cani sottoposti ad eutanasia, in relazione al fatto che il consulente tecnico del pubblico ministero aveva ritenuto giustificate alcune delle eutanasie praticate – è inammissibile. A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, la sentenza impugnata tiene conto della comparazione fra le informazioni contenute nei cartellini identificativi e nelle schede sanitarie dei cani per i quali si è stata ritenuta giustificata l’eutanasia e gli analoghi documenti riferiti ai cani per i quali l’eutanasia è stata ritenuta ingiustificata, laddove fa proprie le corrette conclusioni del consulente tecnico del pubblico ministero. E la Corte d’appello non ritiene rilevanti, ai fini penali, eutanasie causate da meri errori diagnostici, ma evidenzia con chiarezza i casi nei quali l’eutanasia è stata praticata per patologie modeste e dopo periodi di cura troppo brevi, come avvenuto, ad esempio, per le precise e consapevoli scelte aziendali di non curare adeguatamente i cani affetti da demodicosi e di non somministrare flebo a quelli affetti da diarrea (pag. 90-91 della sentenza impugnata). La motivazione della sentenza impugnata risulta del tutto adeguata e coerente anche laddove opera una valutazione globale delle considerazioni delle analitiche conclusioni cui è giunto il consulente del pubblico ministero, il quale ha adottato un opportuno approccio prudenziale, giustificando l’operato degli imputati per tutti quei casi in cui vi era dubbio sulla possibilità di sottoporre a cure l’animale con esito fausto. Rispetto a tali analitiche conclusioni, i rilievi contenuti nell’atto di appello e sostanzialmente reiterati con il ricorso per cassazione rappresentano semplicemente un tentativo di proporre un’interpretazione alternativa dei fatti, che – come ben evidenziato dai giudici di merito – non tiene conto dei riscontri rappresentati dalla politica aziendale, quale emerge dal complesso dell’istruttoria, nonché dall’inequivocabile tenore della corrispondenza sul punto.
6. – I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 2.000,00. I ricorrenti devono anche essere condannati a rifondere alle parti civili le spese del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende e alla rifusione delle spese di parte civile nel grado, come segue: a) in favore di ENPA Onlus, liquidate in € 3.500,00, oltre accessori di legge; b) in favore di LAV – Lega Antivisezione Onlus, liquidate in € 3.500,00, oltre accessori di legge; c) in favore di Lega nazionale per la difesa del cane, liquidate in € 3.500,00, oltre accessori di legge; a) in favore di Le.A.L. – Lega Antivivisezionista, liquidate in € 2.500,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2017.