Sulla sospettata incostituzionalità dell’art. 36 d.P.R. 380/2001
(Nota a TAR Lazio, Roma, ordinanza n° 8854 depositata 22 luglio 2021)
di Massimo GRISANTI
Con l’ordinanza n° 8854 depositata il 22 luglio 2021, il TAR Lazio, Roma, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 d.P.R. 380/2001 laddove è previsto che il silenzio serbato sull’istanza di permesso a sanatoria equivale a rigetto.
Il caso che verrà portato innanzi alla Consulta riguarda un abuso edilizio sanzionato con l’ingiunzione di demolizione e rimessa in pristino ai sensi dell’art. 31 d.P.R. 380/2001, in ordine al quale, trascorsi cinque mesi dalla scadenza del termine per la volontaria ottemperanza, il proprietario avanza istanza di sanatoria ex art. 36 sulla quale Roma Capitale rimane silente.
Il Collegio ha ritenuto di dover sollevare d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 3, del d.P.R. 380/2001, secondo cui “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni”, nella parte ove è previsto che “decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”, per contrasto con gli artt. 3, 97 e, in via mediata, 24 e 113 Cost., trattandosi di norma a carattere sostanziale, ma con effetti processuali.
La questione sollevata pare non rilevi nel caso di specie perché l’istanza è stata avanzata allorquando era già decorso il termine perentorio per ottenere la sanatoria, il quale corrisponde a quello previsto per ottemperare all’ingiunzione di demolizione e rimessa in pristino (vedi ex plurimis: CGA par. 328/2020 – Cons. Stato, n° 2755/2014) che in tal caso si consolida, così risolvendo il contemperamento degli interessi in gioco dando prevalenza a quello della collettività a veder eliminato nel concreto l’abuso edilizio.
Come ha recentemente osservato il Consiglio di Stato nella sentenza n° 3347/2021, la locuzione “titoli abilitativi” impiegata dal legislatore non è riferibile ai titoli in sanatoria perché l’abilitazione è riconducibile alla funzione autorizzatoria, volta a rimuovere un limite all’esercizio di facoltà giuridiche inerenti ad un diritto soggettivo già riconosciuto dall’ordinamento al privato; i titoli in sanatoria, invece, implicano l’esercizio di un potere avente distinta natura giuridica che rimuove gli effetti illeciti di comportamenti già tenuti nel passato. Invero, il legislatore ha dedicato ai titoli abilitativi il Titolo II (artt. 6-23 quater) della Parte I del Testo unico dell’edilizia, mentre l’accordata possibilità di ottenere il permesso a sanatoria è contenuta nel Titolo IV (artt. 27-51) dedicato alla vigilanza.
Si è dell’avviso che sia opportuno che la Corte costituzionale, nello scrutinare la rilevanza della questione prospettata, richiami gli operatori del diritto e le pubbliche amministrazioni ad una precisa lettura dell’art. 36 d.P.R. 380/2001 laddove stabilisce la perentorietà del termine per ottenere la sanatoria, giammai per richiederla, così ricordando che la preminenza dell’interesse pubblico è alla definizione celere degli accertati casi di abusivismo edilizio, rispetto alla quale non possono valere le disposizioni generali della L. 241/1990, tantomeno quelle dell’art. 20 d.P.R. 380/2001 del procedimento del permesso di costruire.
A chi viola le leggi non possono essere accordate le medesime garanzie di chi le rispetta.
Pubblicato il 22/07/2021
N. 08854/2021 REG.PROV.COLL.
N. 00448/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Bis)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 448 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da Vincenzo Affinito e Fiorella Carbone, rappresentati e difesi dagli avvocati Alberto Lapenna e Simona De Paola, con domicilio digitale PEC dai Registri di Giustizia;
contro
Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Cristina Montanaro, con domicilio digitale PEC dai Registri di Giustizia e domicilio eletto presso l’Avvocatura comunale in Roma, via del Tempio di Giove, 21;
per l'annullamento,
previa sospensione dell’efficacia,
dell’ordinanza di demolizione d’ufficio n.1347 del 10 ottobre 2019, dell’atto n.1344 del 10 ottobre 2019, di irrogazione di sanzione amministrativa pecuniaria,
del silenzio-diniego sull’istanza di sanatoria edilizia del 17 giugno 2020, impugnato con motivi aggiunti, con richiesta di declaratoria della sussistenza della doppia conformità urbanistico-edilizia.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2021 il dott. Silvio Lomazzi, in collegamento da remoto, in videoconferenza, ex art.25, comma 2 del D.L. n.137 del 2020 (conv. in Legge n.176 del 2020);
Con atto n.1347 del 10 ottobre 2019 Roma Capitale emetteva ordinanza di demolizione d’ufficio, ex art.31 del D.P.R. n.380 del 2001 e art.15 della L.R. n.15 del 2008, avente ad oggetto opere abusive realizzate in via Guglielmi, 39, interno 4/B, indirizzata ai Sigg.ri Vincenzo Affinito e Fiorella Carbone, quali proprietari non responsabili; con previo sopralluogo del 27 maggio 2019 l’Amministrazione accertava l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione n.837 del 21 giugno 2018, relativa al cambio di destinazione d’uso con opere del piano primo della predetta unità, disposto dal costruttore al momento dell’edificazione, da locali tecnici/servizi ad uso abitativo, con tamponatura del piano, in difformità essenziale rispetto al permesso di costruire rilasciato.
Con determina n.1344 del 10 ottobre 2019 veniva irrogata ai Sigg.ri Affinito e Carbone anche la sanzione pecuniaria di €2.000,00, ex art.15, comma 3 della L.R. n.15 del 2008 per detta inottemperanza.
Non essendo pervenuta alcuna risposta all’istanza di sanatoria, gli interessati impugnavano i suddetti atti n.1347 del 2019 e n.1344 del 2019, censurandoli per violazione degli artt.29, 31, 38 del D.P.R. n.380 del 2001, dei principi di proporzionalità e sussidiarietà nonché per eccesso di potere sotto il profilo della contraddittorietà.
I ricorrenti in particolare hanno fatto presente che i provvedimenti non erano stati notificati a Bonidea srl, società costruttrice, quale soggetto responsabile degli abusi; che l’acquisizione dell’immobile e dell’area di sedime poteva avere luogo solo in caso di inottemperanza da parte dei proprietari responsabili dell’abuso; che era invece maturato un affidamento incolpevole circa la permanenza delle opere, senza che venisse valutata la possibilità della sola sanzione pecuniaria; che la posizione dei proprietari non responsabili andava dunque differenziata.
Roma Capitale si costituiva in giudizio per la reiezione del gravame, depositando documentazione a supporto dell’assunto.
Il successivo 17 giugno 2020 gli interessati presentavano istanza di sanatoria edilizia, ai sensi dell’art.36 del D.P.R. n.380 del 2001, relativa all’aumento della volumetria, pari al 3,50% rispetto a quella originaria, con modifica della sagoma.
Con memoria l’Amministrazione capitolina illustrava l’infondatezza nel merito del gravame.
I ricorrenti impugnavano con motivi aggiunti il silenzio dell’Amministrazione, pur non motivato, valendo lo stesso come diniego, ex art.36 del D.P.R. n.380 del 2001, deducendo la violazione di legge e l’eccesso di potere per contraddittorietà.
Gli interessati hanno sostenuto al riguardo che sussisteva la conformità urbanistico-edilizia dell’intervento, sia al momento di sua realizzazione che all’epoca di presentazione dell’istanza di sanatoria; che non vi era una variazione essenziale rispetto al progetto originario assentito e che l’intervento poteva essere qualificato come di ristrutturazione edilizia.
Veniva quindi chiesto l’annullamento del silenzio-diniego, con dichiarazione della sussistenza della doppia conformità urbanistico-edilizia.
Roma Capitale depositava ulteriore documentazione a confutazione delle impugnative.
Nell’udienza del 17 febbraio 2021 la causa veniva discussa e quindi trattenuta in decisione.
Il Collegio ritiene di dover sollevare d’ufficio questione di legittimità costituzionale, ex art.1 della Legge Cost. n.1 del 1948 e art.23 della Legge n.87 del 1953, sull’art.36, comma 3 del D.P.R. n.380 del 2001, secondo cui “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni”, nella parte ove è previsto che “decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.”, per contrasto con gli artt.3, 97 e, in via mediata, 24 e 113 Cost., trattandosi di norma a carattere sostanziale, ma con effetti processuali.
In linea generale e in prima battuta, con riferimento ai profili di ragionevolezza di cui all’art.3 Cost., può premettersi che il riconnettere all’inerzia dell’Amministrazione sull’istanza di sanatoria un effetto di diniego, introduce un sicuro elemento di incertezza nel rapporto tra cittadino e Soggetto pubblico, impedendo al primo di poter comprendere le ragioni della reiezione, e costringendolo, ove non presti adesione, a ricorrere ad una tutela giurisdizionale “al buio”, con aggravamento della propria posizione processuale.
Del pari per il medesimo aspetto non può non considerarsi che l’evoluzione normativa, sembra dirigersi quantomeno verso una marginalizzazione dell’istituto del silenzio-diniego, sia in ambito sostanziale (cfr. artt.19, 20 della Legge n.241 del 1990), che processuale (cfr. artt.31, 117 c.p.a.), favorendo le tipologie del silenzio-accoglimento o del silenzio-inadempimento, con più efficiente sistema di tutela processuale.
In relazione all’art.24 Cost., occorre segnalare che, laddove l’interessato si rivolga al Giudice, lo stesso è costretto a impugnare un silenzio qualificato dal legislatore come provvedimento negativo, dunque del tutto sprovvisto di motivazione, dovendo, senza apprezzabili punti di riferimento, da un lato tentare di individuare i possibili motivi di rigetto, dall’altro cercare di affermare le ragioni di doppia conformità urbanistico-edilizia dell’abuso.
Quanto ai parametri di buon andamento, imparzialità e trasparenza, di cui all’art.97 Cost., va detto che gli stessi, per come declinati dal legislatore ordinario, in primo luogo con la Legge n.241 del 1990, impongono all’Amministrazione di rispondere alle istanze dei privati in tempi certi, previo adeguato contraddittorio procedimentale, e con provvedimenti espressi e motivati.
Con riferimento in ultimo all’art.113 Cost., occorre rilevare che l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale avverso gli atti della pubblica amministrazione è reso più gravoso dall’assenza in sostanza di un vero e proprio atto amministrativo - sussistente solo come fictio iuris -, a cui rivolgere le proprie censure, oltre che, come visto, dalla mancata evidenziazione delle ragioni a supporto.
Tutto ciò altererebbe anche la struttura dell’ordinamento, articolata secondo il principio della separazione dei poteri, richiedendosi al Giudice di intervenire pressochè in veste di Organo di amministrazione attiva.
Nello specifico, sussiste la rilevanza della questione.
Va al riguardo evidenziato che per la definizione della controversia occorre fare applicazione dell’art.36 del D.P.R. n.380 del 2001, in quanto l’eventuale doppia conformità degli abusi contestati dall’Amministrazione porrebbe nel nulla i gravati provvedimenti sanzionatori, determinandone l’inefficacia; che inoltre da un lato i ricorrenti deducono l’assenza di motivazione dell’Amministrazione, dall’altro gli stessi sono costretti a prendere atto del valore di diniego a carattere provvedimentale che assume il silenzio del Soggetto pubblico protratto per 60 giorni, con conseguente onere di impugnativa; che gli stessi altresì includono nel petitum la dichiarazione della sussistenza della doppia conformità urbanistico-edilizia; che tali circostanze sono strettamente correlate per l’appunto all’attuale formulazione dell’art.36, comma 3 del D.P.R. n.380 del 2001, strutturato come silenzio-diniego.
Di contro, con un provvedimento espresso di rigetto motivato della domanda di sanatoria, i ricorrenti avrebbero impugnato l’atto, cercando, in causa petendi, di confutare le esplicite ragioni di diniego e chiedendone, come petitum, l’annullamento, incombendo di nuovo all’Amministrazione il riscontro dell’istanza di sanatoria, tenuto conto di quanto statuito dal Giudice di merito.
Né poteva essere richiesto al Tribunale in via diretta, nell’ipotesi in trattazione - ovvero in sede sì di giurisdizione esclusiva, ex art.133, comma 1f c.p.a., ma con l’invocata tutela di un interesse legittimo, a fronte di un diniego di sanatoria edilizia - la spettanza del “bene della vita” e, dunque, la sanatoria, trattandosi in ogni caso di giudizio impugnatorio e non di accertamento (cfr., in ultimo, tra le altre, TAR Lombardia-Brescia, I, n.17 del 2021, n.688 del 2020, TAR Lazio, II quater, n.3258 del 2020, TAR Lombardia, II, n.2052 del 2019, TAR Puglia-Lecce, III, n.1389 del 2019).
Il Collegio non ignora l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale favorevole all’accertamento dei requisiti di cosiddetta “doppia conformità” urbanistico-edilizia, ma tale accertamento è stato condotto, almeno da questo Tribunale, nei casi di impugnativa di un provvedimento espresso di segno negativo (cfr., tra le altre, TAR Lazio, II bis, n.5704 del 2021, n.6094 del 2021).
Nell’ipotesi in trattazione di silenzio-diniego invece l’Amministrazione risulta aver provveduto solo fittiziamente, risultando così in sostanza demandato al Giudice l’esercizio per la prima volta del potere di riscontro dell’istanza di sanatoria edilizia, in sostituzione dell’Amministrazione.
In sostanza il giudizio amministrativo in tal modo non mantiene la funzione di verifica della legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, ma diventa il luogo in cui viene esercitata in prima battuta la funzione amministrativa, in sostituzione dell’Amministrazione a ciò istituzionalmente deputata.
Ne discenderebbe anche, come meglio esposto in seguito in tema di non manifesta infondatezza, un depotenziamento della funzione amministrativa e dunque del ruolo istituzionale dell’Amministrazione, oltre che delle sue responsabilità, con evidente compromissione dell’assetto costituzionale che regola i rapporti tra funzione amministrativa e giurisdizionale.
Espungendo dunque dall’ordinamento la norma in questione, risultante dall’attuale formulazione dispositiva, ne risulterebbe, a fronte dell’istanza di sanatoria edilizia, una differente fattispecie di silenzio non tipizzato, ovvero di silenzio-inadempimento; al ricorrente potrebbe quindi essere assicurata la dovuta tutela, mediante la conversione del rito, ex combinato disposto artt.32, 117 c.p.a..
Occorre aggiungere, parimenti in punto di rilevanza, che, secondo la giurisprudenza di merito, i termini di presentazione dell’istanza di sanatoria edilizia non vengono considerati perentori e che detta domanda può utilmente essere presentata, come avvenuto nel caso di specie, fino a quando la misura demolitoria non è eseguita, permane l’opera e il soggetto interessato ne conserva la titolarità (cfr. Cons. Stato, VI, n.7601 del 2019, TAR Lazio-Latina, n.187 del 2019); che parimenti in base agli orientamenti giurisprudenziali prevalenti, il procedimento di sanatoria pendente priva temporaneamente di efficacia, fino alla sua definizione, la previa ordinanza di demolizione (cfr. Cons. Stato, VI, n.3308 del 2017 e n.5669 del 2020) o finanche rende definitivamente inefficace la misura demolitoria, costringendo l’Amministrazione a riemettere l’ordinanza, in caso di rigetto dell’istanza (cfr. TAR Campania, VIII, n.3631 del 2017, TAR Puglia-Lecce, III, n.2863 del 2015).
Ne consegue che l’eventuale accoglimento dei motivi aggiunti avverso il silenzio-diniego inciderebbe anche sulla lite introdotta col ricorso avverso l’ordinanza di demolizione d’ufficio n.1347 del 2019 e la correlata sanzione pecuniaria irrogata con atto n.1344 del 2019.
Ciò renderebbe inefficace anche l’ordinanza di demolizione originaria n.837 del 21 giugno 2018, sebbene impugnata con gravame definitivamente respinto (cfr. TAR Lazio, II bis, n.10753 del 2019 e Cons. Stato, VI, n.1064 del 2020).
Sussiste anche la non manifesta infondatezza della questione.
Va in primo luogo evidenziato che la perentorietà della formulazione della disposizione, suffragata poi da giurisprudenza sostanzialmente unanime sul punto, a valere come “diritto vivente” (cfr. sulla nozione, tra le altre, Corte Cost., n.32 del 2020) - anche se appena prima è precisato che occorrerebbe un’adeguata motivazione - non appare consentire un’interpretazione che si discosti dalla ritenuta formazione di un silenzio-diniego provvedimentale e che valga dunque a fugare i dubbi di legittimità costituzionale di seguito prospettati; risulta in altri termini una tipizzazione ex lege di un atto autoritativo a valenza di reiezione, senza possibilità di configurare ad esempio la differente fattispecie del silenzio-inadempimento (cfr., sull’onere di verifica da parte del Giudice a quo di un’interpretazione costituzionalmente orientata, in ultimo, Corte Cost., n.145 del 2020).
Nel merito il parametro costituzionale di raffronto è rappresentato dal combinato disposto di cui agli artt.3, 97, comma 2 Cost. e quindi dai principi di ragionevolezza, imparzialità, buon andamento e trasparenza agli stessi riconducibili oltre che, in via mediata, dagli artt.24 e 113 Cost..
Orbene tali principi vengono tradotti a livello legislativo, tra le altre, in particolare, dalla Legge n.241 del 1990, recante norme generali in tema di procedimento e di provvedimento amministrativo, oltre che di accesso documentale.
L’istituto del silenzio-diniego appare in contrasto con molteplici dei dettami normativi in essa contenuti: con l’art.2 laddove è previsto l’obbligo generale di concludere il procedimento attivato a istanza di parte con un provvedimento espresso, mentre nell’ipotesi in trattazione l’Amministrazione è solo facoltizzata a fornire un riscontro (persino nelle ipotesi tipizzate di silenzio-accoglimento, quale quella di cui all’art.20, comma 8 del D.P.R. n.380 del 2001, in tema di istanza di permesso di costruire ordinario, è emerso un orientamento giurisprudenziale che ritiene giuridicamente apprezzabile l’interesse del privato a conseguire un atto esplicito - cfr., tra le altre, TAR Lazio, II quater, n.7161 del 2017, II bis, n.10227 del 2019 -); con l’art.3, ove è fissato un obbligo generale di esporre la motivazione in fatto e in diritto del provvedimento, salvo che per gli atti normativi e a contenuto generale, vicenda estranea a quella di presente trattazione, mentre nel caso in esame nessuna motivazione viene fornita dal Soggetto pubblico; con l’art.7 e ss. di procedimentalizzazione delle fasi antecedenti alla decisione amministrativa, mentre nel caso de quo nessun procedimento ha luogo e nello specifico di detta sede, con l’art.10 bis, concernente l’obbligo di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza del privato, al fine di garantirne la fattiva partecipazione.
Ne discende che il predetto istituto non sembra aderire nemmeno ai suindicati superiori principi: al principio di imparzialità, non avendo il privato modo di conoscere le ragioni di rigetto della propria istanza, in relazione magari alla domanda similare di altro soggetto; al principio di buon andamento, perché l’assenza del contraddittorio procedimentale non consente una definizione più agevole e meditata delle questioni, discendente dal confronto, anche all’esito di una più completa istruttoria; al principio di trasparenza, non essendo dato sapere perché l’Amministrazione ha assunto la determinazione di segno negativo e come sia maturato il suo convincimento.
A tutto ciò va aggiunto, in senso contrario al principio di ragionevolezza e al ridetto principio di buon andamento, che l’Autorità potrebbe non rispondere per ragioni - che non emergono - per nulla attinenti all’infondatezza della domanda, legate ad esempio alla scarsità contingente delle proprie risorse o all’eccessivo numero delle istanze; che un provvedimento lesivo, ma del tutto privo di motivazione, rischia poi di alimentare un contenzioso evitabile, laddove il privato fosse a conoscenza delle ragioni ostative all’accoglimento della propria domanda, con conseguente possibile nuova attività amministrativa; che inoltre detta situazione crea difficoltà al privato che decide di agire in giudizio nel presentare ricorso, non conoscendosi i motivi di diniego, e anche se il diritto di difesa non è pregiudicato nel complesso, ne è reso più gravoso l’esercizio, dovendosi allargare la causa petendi alle varie possibili ipotesi di diniego, tenuto conto poi che non è comunque possibile per l’Amministrazione integrare la motivazione in corso di lite con memorie e senza emettere un nuovo provvedimento (cfr., tra le altre, TAR Veneto, I, n.768 del 2010); che anche la vicenda processuale in se rischia di prolungarsi con all’occorrenza necessarie appendici istruttorie.
Tale meccanismo del silenzio-diniego rischia di produrre effetti pregiudizievoli irragionevoli anche in ambito penalistico, laddove il Giudice penale dell’esecuzione, nel respingere l’istanza di sospensione o revoca dell’ordine di demolizione, fa riferimento proprio alla disposizione di cui all’art.36, comma 3 del D.P.R. n.380 del 2001, circa l’esito infausto dell’istanza di sanatoria (cfr., Corte Cass., Sez.III penale, n.35182 del 2020).
Come noto poi nell’attuale ordinamento la regola generale vigente è quella diametralmente opposta del silenzio-assenso, fissata nell’art.20 della cennata Legge n.241 del 1990.
Ed è anche proprio con riferimento al contrapposto istituto del silenzio-assenso che possono essere apprezzati i potenziali ulteriori profili di irragionevolezza della norma oggetto del presente scrutinio, laddove si consideri che per le ipotesi relative alle domande di condono è previsto, ex art.35, comma 18 della Legge n.47 del 1985, sia pure previo pagamento del dovuto e produzione della documentazione per l’accatastamento, il meccanismo del silenzio-assenso.
In sostanza nei casi di istanza di sanatoria, di cui all’art.36 del D.P.R. n.380 del 2001, dove alla base vi è una violazione di carattere formale della normativa, perché si è realizzata l’opera senza il titolo edilizio, è previsto il silenzio-diniego; nelle ipotesi invece di domanda di condono, di cui all’art.31 della Legge n.47 del 1985, all’art.39 della Legge n.724 del 1994 e all’art.32 del D.L. n.269 del 2003 (conv. in Legge n.326 del 2003), dove trattasi già all’origine di violazioni di carattere sostanziale, quindi più gravi, è applicato il meccanismo ben più favorevole del silenzio-assenso.
Non sembra convincente poi l’orientamento secondo cui l’obbligo di motivazione sorgerebbe solo in ipotesi di accoglimento dell’istanza di sanatoria edilizia, perché in tal caso potrebbero emergere ragioni di tutela di eventuali controinteressati e, comunque, della collettività, a fronte della determinazione amministrativa di sanare un abuso edilizio.
Invero oltre a tali esigenze, che peraltro andrebbero tutelate anche in caso di silenzio-accoglimento su istanza di permesso di costruire ordinaria, ex art.20, comma 8 del D.P.R. n.380 del 2001, occorrerebbe considerare parimenti anche quelle che implicano una distinzione di ruoli e di funzioni tra Amministrazione e Giudice, apprezzabili sia in caso di assenso che di diniego.
In altri termini il Giudice, secondo il principio di separazione dei poteri, ricavabile dal complesso delle disposizioni di cui alla Parte II della Costituzione e riconducibile in particolare anche agli artt.97, 113 della stessa, non potrebbe sostituirsi all’Amministrazione, provvedendo in prima battuta in luogo dell’Autorità amministrativa, procedendo anche a valutazioni in varia misura discrezionali, di carattere tecnico e/o amministrativo (cfr., in ultimo, Corte Cass., SS.UU., n.2604 del 2021).
In ambito processuale detto dato è poi confermato dalla disposizione contenuta nell’art.34, comma 2 c.p.a., laddove è icasticamente statuito che “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”, senza dunque possibilità per lo stesso di procedere all’attribuzione del bene della vita, quando a tale attribuzione debba pervenirsi attraverso l’esercizio della funzione autoritativa.
Ulteriore precipitato processuale del suddetto principio appare contenuto nell’art.31, comma 3 c.p.a., ove è lasciata la possibilità all’Organo giurisdizionale di pronunciarsi eventualmente anche sulla fondatezza della pretesa, ma solo quando si tratti di attività vincolata, non vi siano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori a carico dell’Amministrazione.
E’ ben vero che le ultime argomentazioni spese in tema di non manifesta infondatezza, con riferimento all’ipotizzata sostituzione del Giudice nelle funzioni istituzionalmente demandate all’Amministrazione, potrebbero essere rapportate anche alle ipotesi ex lege di silenzio-accoglimento.
Può tuttavia segnalarsi in tema - oltre al fatto che l’istituto del silenzio accoglimento risulta allo stato generalizzato dal legislatore, ex art.20 della Legge n.241 del 1990, diversamente da quanto accade, come meglio esposto in seguito, per il silenzio-diniego, che le esigenze di tutela del controinteressato, a fronte di un silenzio-accoglimento, possono emergere in linea generale meno frequentemente rispetto a quelle del soggetto istante direttamente inciso dal silenzio-diniego e che i motivi a supporto del silenzio-accoglimento potrebbero inoltre ricavarsi più agevolmente dalla stessa domanda del privato, in quanto fatta propria dall’Amministrazione che presta assenso tacito, rispetto alla contrapposta fattispecie del silenzio-diniego - che nel contenzioso in esame viene in rilievo un’ipotesi normativa di silenzio-diniego e non di silenzio-accoglimento e che dunque è con riferimento a tale prima fattispecie che dette osservazioni vengono formulate.
Giova quindi passare in rassegna le varie fattispecie di silenzio presenti nell’ordinamento, a cui il legislatore ha in qualche misura attribuito significato di reiezione.
Orbene in base all’art.6 del D.P.R. n.1199 del 1971 il silenzio protratto per 90 giorni dalla presentazione del ricorso gerarchico vale come suo rigetto e contro il provvedimento originario è possibile presentare ricorso all’Autorità giurisdizionale; secondo l’art.10 della Legge n.1185 del 1967, decorso il termine di 30 giorni dalla presentazione del ricorso gerarchico avverso un provvedimento in materia di passaporto, è possibile impugnare il provvedimento stesso dinanzi al Giudice competente; ai sensi dell’art.17 del D.Lgs. n.340 del 1949, trascorsi 30 giorni dall’opposizione avverso la graduatoria per l’assegnazione di alloggi, l’opposizione si intende respinta e può presentarsi ricorso all’Autorità giurisdizionale (cfr. Cons. Stato, V, n.2391 del 2020).
Trattasi dunque di tutte ipotesi differenti da quella in esame, perché attinenti a silenzi-rigetti su ricorsi all’Autorità amministrativa, che consentono poi in ogni caso di impugnare il provvedimento espresso originario dinanzi al Giudice competente.
In altri casi, come per l’art.20 della Legge n.1034 del 1971, parimenti relativo al silenzio sul ricorso gerarchico, o per l’art.33 della Legge n.426 del 1971, di previsione di silenzio-rigetto avverso i ricorsi amministrativi in tema di autorizzazioni allo svolgimento di attività commerciale, le relative disposizioni sono state abrogate, rispettivamente mediante l’art.4, comma 1 n.10, all.4 del D.Lgs. n.104 del 2010 e l’art.26, comma 6 del D.Lgs. n.114 del 1998.
(L’art.13, comma 2 della Legge n.47 del 1985, riferito al silenzio-diniego sull’istanza di sanatoria edilizia, è stato soppresso e sostituito con l’art.36, comma 3 del D.P.R. n.380 del 2001, oggetto del presente scrutinio).
La previsione di cui all’art.59 del R.D. n.1016 del 1939, sulla richiesta di rinnovo della concessione della riserva di caccia sui propri terreni, trascorsi i termini ivi previsti, può invece ben essere intesa come fattispecie di mero silenzio-inadempimento, limitandosi il legislatore a precludere la caccia, nelle more della decisione sul ricorso ministeriale.
Quanto poi all’ipotesi di cui all’art.55, comma 3 cod.nav., relativa alla richiesta di autorizzazione all’esecuzione di nuove opere in prossimità del demanio marittimo, la stessa è stata tramutata da silenzio-diniego in silenzio-accoglimento, per effetto del D.P.R. n.300 del 1992, tabella C, attuativo del summenzionato art.20 della Legge n.241 del 1990 (cfr. anche Corte Cass., Sez.III pen., n.39868 del 2014).
Residuerebbe il caso di cui all’art.25, comma 4 della Legge n.241 del 1990, di silenzio-rigetto sull’istanza di accesso agli atti.
A ben vedere però anche tale fattispecie appare differente da quella in trattazione, giacchè, in disparte la previsione dell’obbligo di motivazione del diniego di accesso, di cui al precedente comma 3, trattasi, come noto, di posizione giuridica soggettiva a carattere strumentale, ovvero funzionalmente collegata ad altra posizione giuridica soggettiva (cfr., tra le altre, TAR Campania, VI, n.1970 del 2019), e in ogni caso di diritto soggettivo, come tale a tutela piena, assicurata dall’esame e dall’estrazione di copia dei documenti richiesti, ex art.25, comma 1 della Legge n.241 del 1990, ben diversa dunque da quella di interesse legittimo che viene in rilievo a fronte del diniego di sanatoria edilizia.
In conclusione pertanto il giudizio deve essere sospeso e gli atti vanno trasmessi alla Corte Costituzionale, apparendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art.36, comma 3 del D.P.R. n.380 del 2001, di previsione del silenzio-diniego sull’istanza di sanatoria edilizia, dopo 60 giorni dalla sua presentazione, in relazione agli artt.3, oltre che 24 e 113 in via mediata, e 97 della Costituzione.
Ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e in ordine alle spese resta riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Non definitivamente pronunciando sul ricorso n.448/2020 indicato in epigrafe, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art.36, comma 3 del D.P.R. n.380 del 2001, di previsione del silenzio-diniego sull’istanza di sanatoria edilizia, dopo 60 giorni dalla sua presentazione, in relazione agli artt.3, oltre che 24 e 113 in via mediata, e 97 della Costituzione.
Dispone la sospensione del presente giudizio.
Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che a cura della Segreteria del Tribunale la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri nonché comunicata ai Presidenti della Camera e del Senato.
Riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e in ordine alle spese.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2021, tenutasi mediante collegamento da remoto, in videoconferenza, ex art.25, comma 2 del D.L. n.137 del 2020 (conv. in Legge n.176 del 2020), con l'intervento dei magistrati:
Elena Stanizzi, Presidente
Silvio Lomazzi, Consigliere, Estensore
Ofelia Fratamico, Consigliere