Cass. Sez. III sent. 20454 del 25 maggio 2007 (Ud. 27 mar. 2007)
Pres. Onorato Est. Marini Ric. Zaccheo
Rifiuti. Ammendanti e disciplina dei rifiuti

Il "compost" costituisce un prodotto che può essere utilizzato come ammendante soltanto nel caso che subisca un trattamento e presenti caratteristiche in linea con le specifiche autorizzazioni, cosi da garantirne la non dannosità o pericolosità. L'assoggettamento delle attività di compostaggio a forme di autorizzazione (o di autorizzazione-comunicazione), ai sensi della normativa sui rifiuti risponde ai principi in tema di rifiuti adottati dalla normativa europea, ed in particolare all'esigenza che la salute dell'uomo e dell'ambiente sia tutelata attraverso misure che rispondano a logiche di "precauzione" ed alla "azione preventiva", così come indicate dall'art.174, n.2 del Trattato CE e secondo quanto prescritto dalla Direttiva 75-442 (come modificata dalla Direttiva 91-156 e dalla decisione 96-350).
Deve allora concludersi che allorché risulti accertato che un materiale non risponda alle caratteristiche previste ed autorizzate e, ciò nonostante, risulti destinato ad utilizzazione da parte di terzi quale ammendante, si è in presenza di un fatto che va ricompresso nella gestione illecita. La difformità del prodotto rispetto a quanto specificato nella dichiarazione, infatti, non assume rilievo formale in sé, ma in quanto implica una difformità rispetto alle caratteristiche che il prodotto stesso deve garantire per poter essere qualificato come ammendante e non assumere la qualifica di "rifiuto".

Svolgimento del processo

Con sentenza in data del 15 novembre 2005, emessa a seguito di giudizio di opposizione a decreto penale di condanna, il Tribunale di Udine, Sezione distaccata di Palmanova, ha condannato il Sig. Zaccheo - quale socio accomandatario della soc. “Zaccheo Ambiente Sas di Zaccheo Sandrino & C.” - alla pena di Euro 9.000,00 di ammenda per il reato previsto dall’art. 51, comma 4, in relazione alla lett. a) del comma 1 della medesima disposizione del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22. La sentenza ha ritenuto fondata l’accusa di avere il Sig. Zaccheo effettuato un’attività di smaltimento di rifiuti non rispettando le prescrizioni contenute nella autorizzazione-comunicazione ex art. 33 del citato decreto legislativo n. 22 del 1997. In particolare sarebbero stati superati i limiti e le prescrizioni previsti per la produzione di “compost”, destinando all’utilizzo quali ammendanti in agricoltura e giardinaggio ca mc. 400 di rifiuti (verde ornamentale, materie plastiche e materiali ferrosi) provenienti da raccolta non separata.

Fatto accertato il 2 luglio 2003.

Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Sig. Zaccheo con un duplice ordine di motivi.

Primo motivo: violazione riconducibile all’art. 606, lett. b) c.p.p. per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 6, lett. a) del decreto legislativo n. 22 del 1997, così come interpretato in forma autentica dall’art. 14 della legge n. 178 del 2002, nonché dell’art. 33 del citato decreto legislativo n. 22 del 1997, dell’art. 3 del D.M. 5 febbraio 1998 e della legge n. 7684 del 1984 e relative tabelle.

Secondo motivo: violazione riconducibile all’art. 606, lett. a) ed e) c.p.p. in relazione all’art. 192 c.p.p. ed illogicità della sentenza.

 

Motivi della decisione

1. Il secondo motivo è manifestamente inammissibile e deve essere esaminato preliminarmente. Esso si concentra, infatti, sulla ricostruzione fattuale operata dal giudice di prime cure, lamentando che le conclusioni in punto di fatto e di responsabilità del Sig. Zaccheo sarebbero state raggiunte violando il principio, fissato dall’art. 192 c.p.p., che richiede ai giudice di accertare che in atti sussistano elementi univoci in ordine agli elementi della fattispecie. A parere del ricorrente, invece, sussisterebbero all’interno della stessa motivazione elementi contraddittori che avrebbero giustificato conclusioni diverse in punto ricostruzione del fatto e affermazione di responsabilità.

Il motivo di impugnazione, illustrato in modo ampio e dettagliato, si fonda su una lettura del materiale probatorio diversa da quella fatta propria dal giudice di prime cure. Le argomentazioni difènsive si concentrano sulla possibilità di una diversa ricostruzione dei fatti (si veda pag. 17-18: “il prodotto finito ben poteva...”; “in quell’area ben poteva essere presente anche...”; “benché il teste abbia riferito che.. .nondimeno rilevava pure... nel senso che non escludeva ...“; pag. 21: “smentendo con ciò il rilievo di inattendibilità contenuto nella sentenza gravata, si pongono le testimonianze di...”), tanto che, si afferma, “si sarebbe posta una diversa ricostruzione di fatto sottesa alla sentenza” e si conclude che alcuni elementi assunti dalla sentenza a sostegno delle conclusioni dovrebbero qualificarsi come indizio e non come prova.

Come appare evidente, il motivo di ricorso attiene alla pretesa contraddittorietà della valutazione probatoria operata dal giudice.

Secondo un ormai consolidato indirizzo di questa Corte, il giudice di legittimità non può essere chiamato ad un controllo sulla decisione che consista nella rivalutazione del materiale probatorio legittimamente acquisito ed utilizzato dalla decisione impugnata, ma deve limitare la propria analisi alla coerenza e alla logicità della motivazione nei sensi indicati dalla lett. e) dell’art. 606 c.p.p.

La modifica apportata dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, all’art. 606, lett. e) c.p.p., infatti, non ha trasformato la natura essenziale del giudizio avanti la Corte di cassazione, che resta ancorato al controllo sulle violazioni di legge.

Tale conclusione emerge con chiarezza da numerosi precedenti, ed in particolare dall’ampia motivazione, che viene condivisa da questo Giudice, della sentenza della Seconda Sezione Penale della Corte, 5 maggio-7 giungo 2006, n. l9584, Capri ed altra (rv 233773, rv 233774, rv 233775) e della sentenza della Sesta Sezione Penale, 24 marzo-20 aprile 2006, n. 14054, Strazzanti (rv 233454).

Osserva la sentenza Capri che prima delle novella del 2006 la giurisprudenza pacificamente affermava che l’art. 606, lett. e) c.p.p. non affidava alla Corte “il compito di accertare l’intrinseca adeguatezza dei risultati dell’interpretazione delle prove, ma quello ben diverso di stabilire se i giudici di merito avessero esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se avessero dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se nell’interpretazione delle prove avessero esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione della prova... “. Tali principi sono rimasti fermi anche dopo la legge n. 46 del 2006, e la natura del vizio denunciabile resta attinente alla correttezza del discorso giustificativo della decisione e non al suo contenuto valutativo.

Ciò non toglie importanza alla circostanza che il nuovo testo del citato art. 606, lett. e) sottolinea il Valore decisivo che la valutazione del fatto ha con riferimento alla corretta applicazione della disposizione che si attaglia al caso concreto, posto che un’errata applicazione delle regole sulla valutazione della prova si trasforma in una non coerente applicazione della legge al fatto realmente accaduto ed alle conseguenti responsabilità.

Tuttavia, resta fuori dubbio che il giudizio avanti la Corte di cassazione risponde a logiche e finalità sue proprie, che non ripetono quelle del giudizio avanti i giudici di merito. Una dimostrazione di questa differenza la si ricava, tra l’altro, dalla motivazione della sentenza n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, là dove (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica apportata dalla legge n. 46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la possibilità di ricorso avanti la Corte di cassazione è “rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito (invece) dall’appello”.

Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha “la pienezza del riesame di merito” che è propria del controllo operato dalle corti di appello, ben si comprende come il riferimento del nuovo testo dell’art. 606, lett. e) agli “altri atti del processo” su cui il ricorso può fondare la richiesta di annullamento della sentenza di merito non significa affatto che il giudice di legittimità sia chiamato, attraverso l’esame di tali atti, a ripercorre l’intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.

Come giustamente osservato dalla citata sentenza Capri ed altra, il rapporto tra il disposto degli artt. 544 e 546 c.p.p., e cioè tra completezza e concisione della motivazione, comporta che la motivazione del giudice di merito non deve dare conto di tutti gli elementi di prova esaminati, ma concentrarsi su quelli che assumono valore decisivo ai fini della decisione, posto che la finalità della motivazione resta quello di rendere edotte le parti delle ragioni essenziali della decisione stessa e del percorso logico seguito. E’ all’interno di questa prospettiva di ordine generale che deve essere inteso il riferimento agli specifici atti del processo, con la conseguenza che il giudice di legittimità è chiamato a valutare l’incidenza di eventuali violazioni commesse dalla decisione impugnata sul risultato finale. Restano pertanto escluse dal controllo della Corte “non soltanto le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza degli elementi di prova, ma anche le incongruenze logiche che non siano assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate in altri passaggi argomentativi adottati dai giudici; cosicché non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti adottata dai ricorrenti né su altre spiegazioni fornite dalla difesa per quanto plausibili, ma comunque inidonee ad inficiare la decisione di merito. Al di là di questi limiti finirebbe per accreditarsi la Corte di cassazione di poteri rivalutativi che, come tali, appartengono alla sola cognizione del giudice di merito.”.

In altri e conclusivi termini, questa Corte ritiene che il giudizio sulla completezza e correttezza della motivazione della sentenza impugnata non possa confondersi “con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporsi a quella fornita dal giudice di merito”, con la conseguenza che una motivazione esauriente nell’affrontare i temi essenziali e coerente nella valutazione degli elementi probatori si sottrae al sindacato di legittimità. Conservano, dunque, piena validità anche dopo la novella del 2006 i principi essenziali fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n. 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (iv 203767).

Nel caso dì specie, la sentenza del Tribunale di Udine non presenta alcuno dei vizi lamentati dal ricorrente. La motivazione dà ampio conto del materiale probatorio raccolto ed esamina con particolare attenzione le prove testimoniali, illustrando in modo coerente il percorso logico che ha condotto il giudice, nel contrasto anche solo parziale tra le diverse dichiarazioni (significativo appare, tra l’altro, l’approfondimento sulla testimonianza De Marchi alla pagina ottava della parte motiva), a privilegiare una ricostruzione dei fatti, così giungendo anche a disporre la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero perché valuti la sussistenza del reato di cui all’art. 372 c.p. a carico di alcuni dei testimoni assunti nel corso del dibattimento. Contrariamente a quanto esposto al punto 4.2.5 dei motivi di impugnazione, la Corte ritiene del tutto corretto che il giudice del merito operi un giudizio di prevalenza degli elementi probatori raccolti, posto che gli elementi potenzialmente contrari alla ricostruzione effettuata sono stati nella loro sostanza esaminati e valutati secondo un percorso logico coerente che non può essere oggetto di censure in questa sede.

2. Più articolato si presenta l’esame del primo motivo di ricorso. Il motivo di ricorso si compone di plurimi livelli di argomentazione, alcuni attinenti la ricostruzione dei fatti (quali la collocazione del prodotto sull’area di stoccaggio; l’avvenuta conclusione del ciclo di trasformazione; la disponibilità del prodotto alla vendita), altri, invece, alla non corretta qualificazione del prodotto come “rifiuto”, con conseguente violazione dell’art. 6 del decreto legislativo n. 22 del 1997 (punti 4.1.1 e 4.1.2).

2.1 - Per quanto riguarda le censure che attengono alla ricostruzione dei fatti, la Corte non può che ribadire il giudizio di inammissibilità esposto con riferimento al motivo di ricorso in precedenza esaminato. Ancora una volta, infatti, il ricorrente nelle proprie doglianze si limita, in realtà, a proporre una ricostruzione dei fatti alternativa a quella che la sentenza impugnata ha adottato al termine di una valutazione logica e intrinsecamente coerente.

2.2 - Venendo adesso al punto essenziale del ricorso, e cioè alla assunta non correttezza della qualificazione come “rifiuto” dei prodotti oggetto della contestazione, la Corte osserva quanto segue.

Afferma il ricorrente che non risultano rispettate le norme in tema di campionamento ed analisi di prodotti “fertilizzanti” (art. 8, comma 3, punto 2 della legge n. 784 del 1984) e che dagli atti processuali dovrebbe concludersi che i prodotti in esame erano in concreto “ammendanti vegetali, in quanto degli stessi veniva ad essere riscontrata la loro trasformazione chimico-fisica potendo parlarsi di ammendante vegetale per l’effettuazione di un processo di trasformazione”. Di qui l’applicabilità agli stessi della disciplina contenuta nella legge n. 784/l984, con il relativo regime sanzionatorio amministrative delle eventuali violazioni.

Il ricorrente afferma, altresì, che risulterebbe coerente con tale impostazione la disciplina prevista dall’art. 6, lett. a) del decreto legislativo n. 22 del 1997 che, nell’interpretazione autentica dell’art. 14 del decreto legislativo (rectius decreto legge) n. l38 del 2000, convertito con legge n. l78 del 2000, stabilisce un legame inscindibile fra la nozione di rifiuto e il concetto di smaltimento, che presuppone a sua volta l’esistenza di una volontà o di obbligo per l’imprenditore di disfarsi del prodotto. Di qui la conclusione che il prodotto destinata ad essere successivamente utilizzato senza ulteriori trasformazioni va escluso dal novero dei “rifiuti”. La sentenza impugnata avrebbe, dunque, erroneamente qualificato come rifiuti i prodotti oggetto della contestazione.

Sul punto la sentenza impugnata osservava: a) la società di cui il ricorrente è legale rappresentante svolge, all’interno di un’“area ecologica” l’attività di raccolta, trasporto e recupero rifiuti; b) nel corso di un controllo, gli operanti rilevavano che nel prodotto in lavorazione per la sua trasformazione in “compost” (che la società provvedeva, secondo convenzione, a cedere gratuitamente ai privati) erano presenti materiali plastici e altri corpi estranei; c) accertata la presenza di due grandi cumuli di materiale uscito dal capannone di compostaggio in un’area (“A2”) definita sulla planimetria come luogo di “vagliatura del compost maturo”, veniva fatta intervenire l’ARPA, che procedeva a] campionamento ed all’analisi dei materiali; d) dalle analisi risultava la presenza di materie plastiche e inerti in quantità superiore a quanto consentito dalla Legge 19 ottobre 1984, n. 74 per “l’ammendante composto misto”; e) a conclusioni analoghe conducevano le analisi effettuate su un terzo cumulo di materiale rinvenuto in occasione di un secondo accesso dei verbalizzanti. Alla luce di questi elementi di fatto la sentenza conclude che la presenza di materiale plastico e di altro materiale non degradabile che le analisi hanno accertato essere, secondo la motivazione (pag. 2) “in quantitativo superiore a quello ammesso dalla l. 748 del 19 ottobre 1984”, andava riferito a materiale ormai definitivamente lavorato e destinato a terzi.

Una volta escluso, come sopra motivato, che questa Corte abbia motivo di censurare le conclusioni della sentenza impugnata in ordine alla destinazione a terzi del prodotto stoccato nella zona “A2” ed oggetto della contestazione, non sembra alla Corte possa mettersi in dubbio la qualifica del prodotto stesso come “rifiuto”.

Il “compost” costituisce un prodotto che può essere utilizzato come ammendante soltanto nei casi che subisca un trattamento e presenti caratteristiche in linea con le specifiche autorizzazioni, così da garantirne la non dannosità o pericolosità.

A tal proposito è opportuno ricordare che l’assoggettamento delle attività di compostaggio a forme di autorizzazione (o di autorizzazione-comunicazione), ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. n. 22 del 1997, risponde ai principi in tema di rifiuti adottati dalla normativa europea, ed in particolare all’esigenza che la salute dell’uomo e dell’ambiente sia tutelata attraverso misure che rispondano a logiche di “precauzione” ed alla “azione preventiva”, così come indicate dall’art. 174, n. 2 del Trattato CE e secondo quanto prescritto dalla Direttiva 75/442 (come modificata dalla Direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350).

Deve allora concludersi che allorché risulti accertato che il materiale reperito in loco non risponde alla caratteristiche previste ed autorizzate e, ciò nonostante, risulta destinato ad utilizzazione da parte di terzi quale ammendante, si è in presenza di un fatto che va ricompresso nella previsione dell’art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997. La difformità del prodotto rispetto a quanto specificato nella dichiarazione, infatti, non assume rilievo formale in sé, ma in quanto implica una difformità rispetto alle caratteristiche che il prodotto stesso deve garantire (e sul punto della difformità gli accertamenti tecnici compiuti sono risultati univoci) per poter essere qualificato come ammendante e non assumere la qualifica di “rifiuto”.

Alla luce di quanto esposto il ricorso deve essere respinto.