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LA COSTRUZIONE DI UN IMPIANTO PER LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI NON E’ UN FATTO PENALMENTE RILEVANTE (nota a Cass., III sez. pen., n.26854)

di Cristiano BRUNELLI

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Il Tribunale di Udine, in funzione di giudice del riesame, in accoglimento del ricorso proposto dalla parte, ha annullato il decreto di sequestro preventivo di un impianto chimico – fisico specializzato al trattamento di percolato emesso dal giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale nell’ambito della fase investigativa per il reato di cui all’art. 51, comma 1, DLgs 22/97.

Le motivazioni addotte a sostegno della decisione specificano che dall’informativa resa dalla polizia giudiziaria, sulla quale il sequestro è stato fondato, risulta che l’impianto oggetto della misura cautelare non è ancora in funzione affermandosi così l’insussistenza di sufficienti elementi idonei a configurare il reato oggetto di indagine.

Al riguardo la Procura della Repubblica proponeva ricorso avverso tale ordinanza deducendo che la costruzione non autorizzata di un impianto per lo smaltimento dei rifiuti integra la fattispecie criminosa indicata e disciplinata dall’articolo 51, comma 1, DLgs 22/97 poiché il contenuto normativo della norma sanziona anche la realizzazione, oltre che la gestione, di una discarica; di poi si deve ritenere che l’elencazione descrittiva delle condotte afferenti alla gestione dei rifiuti, contenuta nel citato comma primo, sia solo esemplificativa e non tassativa e dunque le condotte vietate dalla norma devono essere individuate con riferimento alle singole autorizzazioni previste dalle disposizioni precettive.

Inoltre l’assunto del ricorrente evidenziava come i giudici del riesame non avessero ravvisato la sussistenza del comportamento contra legem degli indagati in relazione a quanto disposto dall’art. 20 lettera b) della legge 47/85, attualmente sostituito dall’art. 44, lettera b) del Dpr 380/01, derivando dalla consulenza tecnica ordinata che le varianti dell’impianto sono state eseguite in assenza dell’autorizzazione prevista all’art. 27 del D.Lgs 22/97.

Il ricorso è stato giudicato non fondato innanzitutto perché la norma citata e della quale viene ipotizzata la violazione configura come reato comportamenti che presuppongono necessariamente una concreta attività di gestione dei rifiuti; nel caso di specie la condotta può configurarsi semplicemente come un tentativo nei confronti del quale per di più non emergono elementi di giudizio in sede di legittimità.

Di conseguenza l’esigenza di disporre misure cautelari al fine di evitare la successiva commissione di altri reati risulta destituita di ogni fondamento e legittimità mancando gli elementi del fumus.

Di poi la doglianza del ricorrente con la quale si censura il provvedimento impugnato per non avere rilevato di ufficio la configurabilità nel caso in esame della fattispecie criminosa dell’art. 44, lettera b) del Dpr 380/01 è stata ritenuta inammissibile non essendo possibile, in sede di legittimità, indagare sulla configurabilità di una fattispecie criminosa fondata su rilievi diversi da quelli proposti al giudice di merito.

La pronuncia della Suprema Corte esclude dunque ogni forma possibile di risarcimento, con l’impossibilità di perseguire tale obiettivo attraverso la speciale azione di risarcimento del danno ambientale dettata dal legislatore a favore dello Stato ex art. 18 l. n. 349/86 (in questo caso sono legittimati ad agire in giudizio anche gli Enti territoriali); per essere risarcibile il danno deve essere diretta conseguenza di fatti commissivi o omissivi, dolosi o colposi, in violazione della legge o di provvedimenti adottati in base ad essa.

La responsabilità per danno ambientale è solo formalmente di tipo riparatorio, ma in realtà è sanzionatorio, perché per la sua determinazione vengono utilizzati parametri propri al diritto penale per la graduazione della pena.

Infine la Cassazione ha emesso una tipologia di giudicato propria del delitto ammettendo il tentativo mentre, al contrario, alle contravvenzioni, e quindi alla condotta oggetto della sentenza in epigrafe, non è applicabile quanto previsto e disposto dall’art. 56 del codice penale.

Invero nel vigente ordinamento penale l’ammissibilità del tentativo è esclusa soltanto con riguardo a tre categorie di reati: a) i reati contravvenzionali, riferendosi l’art. 56 c.p. solo ai “delitti”; b) i reati a consumazione anticipata, nei quali, consistendo la condotta tipica nel compiere atti o usare mezzi diretti all’offesa del bene giuridico, ciò che costituisce il minimum per l’esistenza del tentativo da già luogo a consumazione; c) i reati colposi, mancando in essi l’intenzione (senza la quale il tentativo non può esistere) di realizzare l’evento previsto dalla norma incriminatrice.

Dott. Cristiano Brunelli