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Cass. Sez. III sent.. 41691 del 21-11-2005 (ud. 19 ottobre 2005)

Pres. Postiglione Est. De Maio Ric. Latini

Rifiuti – Rifiuti sanitari – Deposito preliminare

Il deposito preliminare è normativamente ricompresso nello stoccaggio; ne deriva che l’eventuale previsione di un limite quantitativo ai rifiuti oggetto dello stoccaggio ricomprende necessariamente, per definizione, anche i rifiuti oggetto di deposito preliminare.

La nozione giuridica di “stoccaggio provvisorio” configura una situazione statica di deposito di rifiuti in un luogo determinato, così che la quantità massima autorizzata coincida con quella conferita nell’ambito di una data unità temporale.

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Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con sentenza in data 15 febbraio 2005 la Corte d'Appello di Perugia ha confermato la sentenza 31 maggio 2004 del Tribunale di Terni, con la quale Mauro Latini era stato condannato alla pena di mesi tre di arresto ed euro 1.291 di ammenda, perché riconosciuto colpevole del reato di cui all'art. 51 co. 4 D.L.vo 22/97 (perché, quale Direttore del Servizio ASM di Terni, effettuava l'attività di stoccaggio, trattamento e smaltimento dei rifiuti sanitari a rischio infettivo in maniera difforme rispetto alle prescrizioni impartite nella relazione istruttoria allegata e richiamata nell'autorizzazione n. 11073 rilasciata in data 29 dicembre 2000 dalla Giunta Regionale dell'Umbria e in particolare: a) effettuava lo stoccaggio provvisorio in uno spazio a cielo aperto anziché all'interno di apposito locale; b) sottoponeva ad attività di stoccaggio una quantità di rifiuti sanitari superiore alla quantità massima giornaliera fissata in 5 T/g; c) depositava a cielo aperto i rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo; d) ometteva di predisporre un regolamento di servizio e dei corsi di qualificazione professionale improntati al conseguimento di livelli di sicurezza adeguati alla specificità dell'attività di smaltimento dei rifiuti sanitari pericolosi, acc. in Terni nel maggio 2001).

La sentenza di appello è stata impugnata con ricorso per cassazione dal difensore dell'imputato, il quale denuncia con il primo motivo erronea applicazione dell'art. 468 cpp nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al rigetto dell'eccezione preliminare sulla inammissibilità della lista dei testi del PM. Nella specie la lista mancava della indicazione delle circostanze su cui i testi avrebbero dovuto deporre e la Corte ha ritenuto infondata l'eccezione in quanto era "possibile dedurre per relationem che la persona indicata era tra i protagonisti dei fatti articolati nel capo di imputazione e le circostanze erano ricompresse in esso o in altri atti che dovevano essere noti alle parti"; secondo il ricorrente, invece, la giurisprudenza di legittimità ha affermato la necessità almeno del generico richiamo alle contestazioni di cui ai capi di imputazione. La censura è infondata, dovendo ritenersi il convincimento espresso dalla Corte d'Appello esatto e allineato con la consolidata interpretazione di questa Corte (cfr., in particolare, Sez. III, 3 settembre 1999 n. 10504, Cola, rv. 214444). E' stato infatti precisato che, poiché la ratio dell'art. 468 cpp è quella di tutelare le parti del processo contro l'introduzione di eventuali prove a sorpresa e di consentire loro la tempestiva predisposizione di proprie controdeduzioni, l'obbligo della indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame dei testimoni, imposto dal primo comma dell'art. 468 cpp, è necessario solo quando le circostanze si discostino dal capo di imputazione, ampliandone così la tematica che si intende proporre nell'istruttoria dibattimentale; ne deriva che l'obbligo stesso è rispettato non solo quando le circostanze sono indicate nella lista testimoniale con richiamo diretto al capo di imputazione, ma anche quando (come deve ritenersi nel caso in esame) sia possibile dedurre per relationem che la persona indicata è tra i protagonisti dei fatti articolati nel capo di imputazione e le circostanze sulle quali è chiamata a deporre sono ricompresse nello stesso o in altri atti che devono essere noti alle parti. A tali ipotesi devono essere ricondotte anche le circostanze sulle quali avrebbero dovuto deporre i testi Sechi e Ribescini, ai quali il ricorrente riferisce specificamente la doglianza, proprio perché il primo era inizialmente indagato nel medesimo procedimento (e non poteva, quindi, che riferire sui fatti di cui all'imputazione); relativamente al secondo, invece, è sufficiente rilevare che egli è l'ispettore che il 25 maggio 2001 eseguì il controllo che è all'origine del processo. A nulla, peraltro, rileva che lo stesso sia stato chiamato a deporre sulla mancata sanificazione dei contenitori (che non era esplicitamente indicata nella contestazione), proprio perché il capo di imputazione (come sarà meglio precisato in seguito) comprendeva tutte le prescrizione dell'autorizzazione e solo esemplificativamente quelle indicate in modo esplicito.

Con il secondo motivo viene censurata, sotto i profili dell'erronea applicazione dell'art. 51 co. 4 D.L.vo 22/97, nonché della manifesta illogicità della motivazione in relazione alla qualifica dell'imputato, l'argomento in base al quale i giudici di merito avevano rigettato il motivo di appello relativo all'erroneo riferimento del capo di imputazione al Latini quale direttore dell'ASM, la Corte -rileva il ricorrente - ha ritenuto non rilevante la qualifica del presunto responsabile, trattandosi di un reato comune e non di un reato proprio, mentre si tratterebbe di un reato proprio e il Latini non può essere identificato né come soggetto originariamente obbligato (dal momento che non ricopriva il ruolo di responsabile tecnico), né come soggetto delegato non essendosi in presenza di una delega valida (dal momento che non aveva alcun potere autonomo di spesa). Anche tale motivo è infondato, dovendosi condividere il convincimento dei giudici di merito circa l'irrilevanza dell'errore contenuto nel capo di imputazione (nel quale l'attività illecita viene riferita al Latini "quale direttore del Servizio ASM dì Terni"). Nel caso in esame la questione non consiste, o quanto meno non si esaurisce, nella natura, comune o propria, del reato contestato, dovendosi, comunque, condividere quanto osservato sul punto dai giudici di merito e cioè che la qualifica dell'agente "può essere utile per individuare il responsabile con particolare riferimento alle condotte emissive, ma non quando ci sono, come nella specie, delle condotte commissive"; e nella specie è stato accertato che "gli ordini venivano impartiti oralmente dal Latini, che seguiva la cosa"; ineccepibile è, quindi, la deduzione che "il Latini risponde della contravvenzione anche perché di fatto dirigeva l'inceneritore, con condotte commissive". Del tutto non pertinente è, poi, il rilievo del ricorrente circa l'insufficienza della delega rilasciata al Latini: il rilievo stesso comporterebbe che, in una ipotesi siffatta, il titolare della posizione di garanzia non possa, in conformità a una interpretazione giurisprudenziale consolidata da anni, invocare a sua discolpa la delega; ma è di tutta evidenza, che, nell'ipotesi stessa, del reato debba rispondere, in concorso con il delegante, il soggetto delegato a carico del quale sia stata accertata per l'appunto una attività commissiva. E tale condotta i giudici di merito hanno rilevato, come sopra precisato, nei confronti dell'attuale ricorrente, con accertamento di fatto sorretto da adeguata motivazione (le univoche dichiarazioni del teste Conti, assistente operativo addetto al forno di incenerimento), come tale insindacabile in sede di legittimità.

Con il terzo motivo il ricorrente prende le mosse dalle nozioni di deposito permanente e di deposito preliminare, per censurare - sotto i profili della erronea applicazione dell’art. 6 co. l lett. e) ed l) in relazione alla nozione di deposito preliminare, nonché della mancanza di motivazione in ordine a uno specifico motivo di ricorso - la sentenza impugnata per aver fatto "rientrare nello stoccaggio provvisorio, soggetto alla limitazione delle 5 tonnellate al giorno da immagazzinare, tutte le quantità di rifiuti in ingresso nell'impianto (invece di limitare la fase dello stoccaggio provvisorio, con il limite quantitativo, alle sole quantità giacenti nel sito, mentre i rifiuti vengono man mano avviati all'inceneritore, nel periodo temporale considerato nell'autorizzazione)"; in altri termini, secondo il ricorrente, "lo stoccaggio provvisorio si differenzia da quello definitivo in quanto non presuppone un confinamento stabile dei rifiuti nell'unità temporale contemplata nell'autorizzazione". Il motivo è infondato, avendo i giudici di merito sul punto - relativo al limite stabilito dall'autorizzazione allo stoccaggio giornaliero dei rifiuti in questione nella quantità massima di 5 t - fatto esattamente riferimento alla nozione di presa in carico, l'unica che, oltre a essere in linea con i dati normativi, può dare ragione della citata prescrizione di limite. Infatti, l'interpretazione dei giudici di merito è rispettosa della definizione di stoccaggio data dall'art. 6 lett. l) D.L.vo 22/97 ("le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell'allegato B, nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di materiali di cui al punto R 13 dell'allegato C"). Tale nozione (dal ricorrente stranamente ritenuta "non esistente", pag. 9 ric.) rende chiaro che il deposito preliminare è normativamente ricompreso nello stoccaggio, ne deriva, per quanto riguarda il caso in esame, che la previsione di un limite quantitativo ai rifiuti oggetto dello stoccaggio, ricomprende necessariamente (per definizione, appunto) anche i rifiuti oggetto di deposito preliminare. E', quindi, esatto far rientrare nello stoccaggio provvisorio - soggetto, nel caso in esame, alla limitazione delle 5 tonnellate al giorno da immagazzinare - tutte le quantità di rifiuti in ingresso nell'impianto; esatto anche è che "la nozione giuridica di stoccaggio provvisorio configura una situazione statica di deposito di rifiuti in un luogo determinato, così che la quantità massima autorizzata coincida con quella conferita nell'ambito di una data unità temporale". Per contro, significa porsi contro il dato normativo limitare, come sostiene il ricorrente, "la fase dello stoccaggio provvisorio, con il limite quantitativo, alle sole quantità giacenti nel sito, mentre i rifiuti vengono man mano avviati all'inceneritore -, nel periodo temporale considerato dall'autorizzazione". L'opinione in tal senso del ricorrente prende le mosse da una improprietà in cui sono incorsi i giudici di merito nella definizione di stoccaggio provvisorio, locuzione con cui "deve intendersi la raccolta e l'immagazzinamento dei rifiuti in attesa della loro eliminazione". Tale definizione è solo parzialmente inesatta - in quanto effettivamente le attività di raccolta (art. 6 lett. e), al pari di quelle del deposito temporaneo (art. 6 lett. c), avvengono nel luogo di produzione dei rifiuti e precedono lo stoccaggio - ma tale improprietà, mentre non ha avuto le implicazioni negative di cui parla il ricorrente stesso (avendo la sentenza impugnata inteso riferirsi alle attività di presa in carico, ovvero anche di deposito preliminare), ha in un certo senso fuorviato le critiche del ricorrente (alle pagg. 9-10, in particolare), il quale, ritenendo di doverla confutare, ha fatto il riferimento sopra esaminato alle nozioni di deposito temporaneo e di deposito preliminare.

Inoltre, aderendo alla tesi sostenuta dal ricorrente, la fissazione del limite in discorso, come esattamente rilevato dai giudici di merito, non avrebbe avuto senso alcuno, essendo sempre possibile ipotizzare, e quindi sostenere, che la maggior quantità stazionante sul sito fosse solo provvisoria e destinata ad essere avviata allo smaltimento. Quindi, è esatto quanto ritenuto dai giudici di merito e cioè che la previsione del massimo delle 5 tonnellate giornaliere non può essere considerato ed interpretato come il dato effettivo di presenza in loco in differenza di calcolo tra quanto entrato e quanto smaltito, ma in senso assoluto ed integrale. E' opportuno ribadire che, aderendo alla tesi prospettata dal ricorrente, di fatto il limite non esisterebbe, il flusso di stoccaggio sarebbe potenzialmente infinito e lo stoccaggio senza limite fisso; ciò in aperto contrasto con la ratio stessa del limite e con la sua necessità in relazione alle esigenze di tutela ambientale (non si dimentichi che si trattava di rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo). Né, a contrario, è sostenibile che "accettando la tesi della sentenza sussisterebbe un insanabile contraddizione tra la capacità di smaltimento autorizzata (20 t/g) e la capacità di stoccaggio (5 t/g), dal momento che il limite di accesso dei rifiuti all'impianto risulterebbe di 4 volte inferiore alla capacità di smaltimento". Risulta evidente l'insussistenza della contraddizione (per cui va ritenuta irrilevante l'omissione di motivazione sul punto): la prescrizione relativa alla capacità di smaltimento è funzionale, sempre nell'ottica della sicurezza, da un lato a definire la necessaria capacità strutturale dell'impianto e dall'altro a garantire che l'impianto stesso non funzioni al limite delle sue possibilità.

Sempre in relazione alla questione posta con il motivo in esame, il ricorrente, in riferimento all'ipotesi che questo Collegio non ritenga di condividere quanto dedotto, "chiede formalmente che venga presentata alla Corte di Giustizia la seguente domanda di pronuncia pregiudiziale a norma dell'art. 77 del Trattato vigente della Comunità Europea: se la disciplina del deposito preliminare di rifiuti stabilisca che la misura massima di rifiuti depositati nell'impianto nell'unità temporale indicata dall'autorità competente debba coincidere con la quantità che è stata ammessa al conferimento, ovvero debba essere presa in considerazione (per sottrazione) anche la quantità che viene concretamente avviata allo smaltimento del medesimo, così che la quantità per la quale il deposito temporaneo deve ritenersi autorizzato è rappresentata dalla giacenza dei rifiuti in effettivo deposito, avendo aggiunto i conferimenti e sottratto gli smaltimenti". La richiesta è inammissibile perché l'interpretazione pregiudiziale può riferirsi solo al Trattato o agli atti delle istituzioni della Comunità e non agli atti del legislatore nazionale (anche se attuativi di una direttiva CEE, così, Sez. III, 13 novembre 2002, Passerotti, rv. 223532); anche in base alla giurisprudenza precedente la richiesta stessa non poteva essere accolta perché nel caso concreto le specifiche previsioni delle prescrizioni hanno un senso chiaro ed univoco, così da superare, rendendola irrilevante, la questione posta (ed. teoria dell'atto chiaro, in presenza del quale non è obbligatorio l'interpello alla Corte di Giustizia, sent. causa 283/81, CILFIT c. Ministero della Sanità).

A conclusione della lunga discussione, va, peraltro, ricordato - al fine di precisare, comunque, la non decisività della questione - che l'inosservanza del limite quantitativo rappresenta una soltanto delle numerose prescrizione che si assumono violate.

Con il quarto motivo viene denunciato che la sentenza impugnata non si è pronunciata sullo specifico motivo di appello con cui si contestava che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo Giudice, la fattispecie incriminatrice "potesse risultare integrata attraverso una formale equiparazione della relazione istruttoria a un complesso di prescrizioni analiticamente indicate in ogni elemento, con conseguente violazione del principio di legalità"; il ricorrente sostiene che "le prescrizioni devono essere formulate in modo esplicito, inequivoco, analitico e non già in forme discorsive, come avviene, appunto, in una relazione istruttoria". Anche tale censura è infondata, in quanto nessuna violazione può essere ravvisata in riferimento alla contestazione di aver esercitato l'attività di stoccaggio, trattamento e smaltimento dei rifiuti a rischio infettivo in maniera difforme rispetto alle prescrizioni impartite nella relazione istruttoria citata. Infatti, tale relazione era allegata e richiamata alla conseguita autorizzazione; di questa, quindi, la relazione costituiva parte integrante e doveva essere ben conosciuta dai soggetti cui le prescrizioni erano indirizzate. D'altra parte, è chiaro che in tanto si potrebbe parlare di inadeguatezza delle prescrizioni in quanto le stesse fossero espresse in modo insufficiente, generico o inadeguato, così da comportare l'impossibilità di uniformarvisi, ma di tali ipotetiche carenze manca qualsiasi indicazione; la censura va, pertanto, su tale punto, ritenuta, oltre tutto, generica, con le conseguenze di cui all'art. 591 cpp e alla irrilevanza del mancato esame da parte della Corte di merito.

Con l'ultimo motivo viene denunciata erronea applicazione dell'art. 51 co. 4 D.L.vo 22/97 nonché mancanza di motivazione in relazione alle singole violazioni delle prescrizioni. Sotto tale profilo il ricorrente lamenta "la superficialità con cui sono state risolte le questioni di fatto concernenti le singole violazioni; inoltre, che "nella contestazione non si faceva alcun riferimento alla violazione dell'obbligo di sottoporre a sanificazione i contenitori svuotati, mentre la sentenza ha pronunciato anche sul punto; tali inconvenienti sarebbero - secondo il ricorrente - derivati dall'avere la C.A. ritenuto che "l’elencazione delle singole violazioni delle prescrizioni non può essere intesa in senso tassativo" e che detta elencazione rappresenta "una mera aggiunta che avrebbe potuto anche non esservi". Il motivo è inammissibile per manifesta infondatezza e perché si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata. Questa, infatti, affrontando il relativo motivo di appello (alla seconda e terza pag. della motivazione), al pari del giudice di primo grado, ha dimostrato, mediante puntuali richiami alla testimonianza dell'ispettore Ribescini e ai rilievi fotografici acquisiti, le singole violazioni alle prescrizioni (v., in particolare nella sent. di primo grado, la descrizione - anche se alquanto confusa - delle molteplici e clamorose violazioni, tale da giustificare in pieno la conclusione di "situazione di approssimazione gestionale totale"). Le deduzioni di segno contrario del ricorrente attengono a una diversa valutazione delle risultanze processuali, non consentita in sede di legittimità. Irrilevante è poi che la violazione dell'obbligo di sanificazione non fosse ricompresso nel capo di imputazione, proprio perché, come già precisato, l'attività difforme era contestata "rispetto alle prescrizioni impartite nella relazione istruttoria" e, tra queste, ne erano esplicitamente descritte alcune o perché ritenute più rilevanti ovvero anche a titolo di esemplificazione.

Sulla base dei rilievi che precedono il ricorso va rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese.