Cass. Sez. III n. 8026 del 20 febbraio 2018 (Ud 27 set 2018)
Presidente: Cavallo Estensore: Renoldi Imputato: Masciotta
Rifiuti.Terre e rocce da scavo

La sentenza ricostruisce l’evoluzione normativa in tema di terre e rocce da scavo considerando alcuni criteri applicativi del d.lgs. 120/2017


RITENUTO IN FATTO
1. Ferdinando Masciotta, Luigi Masciotta e Fabio Vargiu erano stati tratti a giudizio davanti al Tribunale di Palermo per rispondere, i primi due nelle rispettive qualità di Presidente del Consiglio di amministrazione e di amministratore delegato della Ge.Co.Pre. S.p.A. ed il terzo in quella di direttore di cantiere dei lavori di costruzione del parcheggio di Piazza Orlando a Palermo e del termovalorizzatore di Bellolampo, del delitto previsto dall’artt. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, per avere trasportato e ceduto abusivamente alla società PEA (associazione di imprese che comprendeva anche la citata Ge.Co.Pre.), la quale gestiva il cantiere di Bellolampo, ingenti quantitativi di rifiuti (ammontanti a circa 5000 m³) costituiti da terre e rocce da scavo provenienti dai lavori di sbancamento, scavo e movimento terra presso il cantiere del parcheggio di piazza Vittorio Emanuele Orlando, provvedendovi attraverso l’allestimento di mezzi (sette autocarri della IGM S.r.l.), lo svolgimento di attività continuative ed organizzate (attraverso la stipula di contratti di nolo per lo svolgimento delle attività di trasporto e movimento terra e l’esecuzione di circa 250 viaggi) ed il coinvolgimento di più persone e società (capo a); nonché della contravvenzione prevista dagli artt. 256, comma 3 e 186 del d.lgs. n. 152 del 2006, per avere realizzato e gestito una discarica non autorizzata di rifiuti in un’area sita in loc. Bellolampo, destinata alla realizzazione di un termovalorizzatore (capo b).
1.1. Con sentenza del Tribunale di Palermo in data 2/10/2013, i tre imputati erano stati riconosciuti colpevoli per il solo delitto contestato al capo a) e, per l’effetto, erano stati condannati alla pena di otto mesi di reclusione ciascuno, condizionalmente sospesa; sospensione subordinata, per il solo Vargiu, alla prestazione di 30 giorni di attività non retribuita a favore della collettività, con obbligo di rimessione in pristino dello stato dei luoghi. Con lo stesso provvedimento, i tre imputati erano stati, invece, prosciolti in relazione alla contravvenzione contestata al capo b), per essersi la stessa estinta per prescrizione.
2. Con sentenza emessa in data 11/03/2015, la Corte d’appello di Palermo confermò, nei confronti di Ferdinando Masciotta, Luigi Masciotta e Fabio Vargiu, le statuizioni principali della sentenza di primo grado, revocando l’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi e la confisca degli autocarri.
3. Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione i tre imputati a mezzo dei rispettivi difensori fiduciari, deducendo una serie di articolati motivi di impugnazione, solo in parte comuni a ciascuno dei ricorrenti, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
3.1. L’avv. Giovanni Rizzuti, per conto di Ferdinando Masciotta, ha affidato la sua impugnazione a cinque motivi di doglianza.
3.1.1. Con il primo motivo, peraltro comune agli altri imputati (v. infra), il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. B) e C), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge processuale penale nonché di norme processuali stabilite a pena di nullità in relazione alla mancata dichiarazione di contumacia all’udienza del 4/07/2014 e alla conseguente mancata notifica del verbale di udienza contenente il rinvio alla successiva udienza dibattimentale del 19/11/2014.
3.1.2. Con il secondo motivo, la difesa di Ferdinando Masciotta censura, ex art. 606, comma 1, lett. B), C) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge processuale penale e di disposizioni stabilite a pena di nullità nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla nullità, assoluta e insanabile, della notifica del decreto che dispone il giudizio eseguita in un luogo diverso dal domicilio eletto, costituito dallo studio del difensore di fiducia, avv. Irene Vitale, poi revocato. Sul punto, dinnanzi alla affermazione della Corte territoriale secondo la quale l’imputato sarebbe, comunque, comparso all’udienza del 12/01/2011 senza formulare alcuna eccezione in merito, il ricorrente deduce che, in realtà, la sanatoria si realizzerebbe soltanto qualora la comparizione sia avvenuta all’udienza per la quale egli era stato citato e non in una udienza successiva.
3.1.3. Con il terzo motivo, Ferdinando Masciotta deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla erronea affermazione di responsabilità dell’imputato con riguardo al delitto contestato al capo a), il quale sarebbe scaturito da una autonoma iniziativa del responsabile del cantiere.
Sotto un primo profilo, infatti, la difesa rileva come la Ge.Co.Pre. S.p.A. fosse una impresa di grandi dimensioni, con circa 500 dipendenti e cantieri sparsi per l’Italia. Per tale motivo, l’imputato sarebbe stato presente in cantiere solo sporadicamente in ogni caso avrebbe incaricato della gestione del cantiere, con delega notarile, il geom. Papa. Sotto altro aspetto, si censura il fatto che le sentenze di merito abbiano sottovalutato il ruolo decisionale dell’ing. Ciarrocca, in posizione sovraordinata rispetto allo stesso Vargiu, il quale avrebbe riferito che sarebbe stato proprio Ciarrocca a decidere nel senso del deposito temporaneo degli inerti nel cantiere di Bellolampo nelle more dell’autorizzazione.
Ancora, la difesa censura che le sentenze abbiano affermato la responsabilità di entrambi i Masciotta e non soltanto, in ipotesi, di uno di essi, considerato che Ferdinando aveva firmato soltanto il contratto di subappalto dei lavori di movimento terra e di conferimento della discarica alla società IGM, sicché non avrebbe avuto conoscenza delle decisioni concernenti le questioni operative; e che Luigi avrebbe firmato soltanto il contratto di nolo a caldo in vista del conferimento in discarica e una generica nota rivolta alla PEA dopo il sequestro nella quale si sarebbe assunto una generica responsabilità, sinché anche nei suoi confronti mancherebbe la dimostrazione del dolo.
3.1.4. La difesa di Masciotta ha, poi, articolato una serie di censure in ordine alla configurabilità del delitto previsto dall’art. 260 del T.U.A.. In primo luogo, si opina che le terre e rocce da scavo non siano qualificabili come rifiuti, quanto piuttosto come sottoprodotti utilizzabili per reintegri, riempimenti e altro ai sensi dell’art. 186 del T.U.A., in quanto destinati all’effettivo utilizzo senza trasformazione preliminari e con una composizione media con sostanze inquinanti non superiore ai limiti tabellari, secondo quanto era emerso dagli esami di laboratorio eseguiti dalla Gesind su richiesta di Vargiu, ciò che avrebbe imposto in ogni caso di escludere il dolo; composizione in relazione alla quale, in ogni caso, la Corte avrebbe omesso di rispondere. E del resto nell’atto di appello sarebbe stato evidenziato il dato relativo alla composizione media dei materiali (berillio e selenio), inferiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti, tale da escluderne l’idoneità a inquinare il terreno, che gli stessi giudici di merito avrebbero descritto in termini meramente potenziali. Né potrebbe condividersi l’affermazione secondo la quale il materiale trasportato avrebbe dovuto essere qualificato come rifiuto in considerazione della “violazione delle procedure”, considerato il carattere puramente formale della asserita violazione.
Sotto altro profilo, non ricorrerebbero gli elementi di fattispecie richiesti dall’art. 260, non essendo configurabile alcuna organizzazione (tale non essendo qualificabile l’utilizzo di sette camion per il conferimento in discarica, attesa l’assoluta liceità della finalità perseguita) anche per la brevità del tempo in cui i conferimenti sarebbero stati effettuati, ovvero per circa 10 giorni, e tenuto conto del quantitativo non ingente di materiali e della qualità degli stessi, su cui la Corte territoriale non si sarebbe pronunciata, nonostante la specifica censura in sede di appello. Infine, quanto al fine di profitto sarebbe censurabile la tesi secondo la quale esso sia identificabile nel risparmio di circa 18.000 euro e sarebbe stato conseguito rispetto al corrispettivo da versare in caso di conferimento in discarica del materiale di risulta, atteso che il contratto con la IGM avrebbe contemplato un prezzo forfettario.
3.1.5. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. B), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla mancata riqualificazione del delitto contestato al capo a) quale contravvenzione ex art. 256 del d.lgs. n. 152 del 2006, essendo state le fotografie che ritraevano lo stato dei luoghi sopravvalutate rispetto alle dichiarazioni dei testi (in particolare Cirelli e Sanna): dichiarazioni dalle quali avrebbe potuto evincersi la presenza di un mero deposito temporaneo e non autorizzato di rifiuti, connotato da una assoluta assenza di dolo, sì da potersi alla fine configurare una gestione non autorizzata di rifiuti.
3.1.6. Con il quinto motivo, peraltro comune anche agli altri due imputati, il ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. B) ed E), cod. proc. pen., dell’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché del vizio di motivazione in relazione alla mancata assoluzione nel merito per la contravvenzione contestata al capo b), sottolineandosi, in primo luogo, la non definitività della allocazione nell’area del materiale di risulta, depositatovi solo temporaneamente, e la non eterogeneità dello stesso; in secondo luogo, l’assenza di un tendenziale degrado dell’area con alterazione permanente dello stato dei luoghi e, infine, l’impossibilità di configurare una condotta di “realizzazione” della discarica in assenza delle attività per l’allestimento dell’area. Ancora una volta, i giudici di merito avrebbero fondato il proprio convincimento sulla documentazione fotografica acquisita in fase di indagini preliminari, senza tenere in adeguata considerazione le testimonianze di opposto tenore rese nel corso del dibattimento, peraltro senza spendere alcun argomento sulla mancanza di eterogeneità dei rifiuti, sulla inesistenza di un degrado dell’area nonché sull’inesistenza di opere di allestimento della stessa.
3.2. Venendo, quindi, al ricorso per cassazione presentato dall’avv. Luigi Rizzuti per conto di Luigi Masciotta, deve rilevarsi la sostanziale corrispondenza tra i quattro motivi di doglianza articolati in tale impugnazione e i motivi del ricorso per cassazione proposto nell’interesse di Ferdinando Masciotta (v. in particolare i motivi primo, terzo, quarto e quinto), sicché può farsi sicuro rinvio alla illustrazione che precede.
3.3. Infine, quanto al ricorso per cassazione formulato dall’avv. Giovanni Di Benedetto per conto di Fabio Vargiu, l’impugnazione si articola in sette distinti motivi di doglianza.
3.3.1. Con i primi tre motivi e con il quinto, il ricorrente propone censure identiche a quelle svolte nel primo, nel terzo, nel quarto e nel quinto motivo di ricorso di Ferdinando Masciotta, sicché, anche in questo caso, appare opportuno farvi un integrale rinvio, per ovvie ragioni di sintesi.
3.3.2. Con il quarto motivo, la difesa di Vargiu censura, ex art. 606, comma 1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge processuale penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale formulata ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen. ai fini dell’esame dell’ing. Ciarrocca; rigetto motivato dalla Corte territoriale con il fatto che, dalla documentazione agli atti, risultasse che quest’ultimo avesse la qualità di responsabile unico del procedimento con il compito di curare esclusivamente i rapporti amministrativi tra il comune e la Ge.co.pre.. Tale decisione, tuttavia, sarebbe frutto del travisamento del dato documentale, nel quale, in realtà, si sarebbe dato atto della nomina dell’ing. Ciarrocca quale responsabile del procedimento “per la realizzazione dell’intervento di cui alla Convenzione” e non solo per curare i predetti rapporti amministrativi. Per tale motivo, il mancato accoglimento della richiesta sarebbe “totalmente ingiustificato”.
3.3.3. Con il sesto motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla commisurazione della durata del lavoro di pubblica utilità al quale è stata subordinata la sospensione condizionale della pena, che la Corte territoriale avrebbe giustificato, del tutto genericamente, con la gravità dei fatti, omettendo di prendere in considerazione i rilievi difensivi, attinenti al ruolo concretamente svolto dall’imputato.
3.3.4. Infine, con il settimo motivo, la difesa di Vargiu lamenta, ex art. 606, comma 1, lett. B), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge processuale penale in relazione all’art. 592 del codice di rito, dal momento che l’imputato sarebbe stato condannato al pagamento delle spese processuali relativa al grado di appello nonostante l’accoglimento di uno dei motivi di impugnazione, relativo alla revoca dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
4. In data 29/03/2017, gli avv.ti Contrada e Rizzuti, nell’interesse di Luigi e Ferdinando Masciotta, hanno depositato una memoria contenente “motivi nuovi” ai sensi dell’art. 585, comma 4, cod. proc. pen..
4.1. Con il primo motivo, essi hanno ribadito l’erronea affermazione della responsabilità penale dei due imputati, fondata sul mero dato della loro posizione giuridica all’interno della società e indipendentemente dalla possibilità di configurare, a loro carico, condotte attive o omissive idonee ad integrare la fattispecie concorsuale agli stessi contestata.
4.2. Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono l’avvenuta prescrizione del delitto di cui al capo a) della rubrica, già nel febbraio 2015 e, dunque, prima della pronuncia della sentenza di appello in data 11/03/2015; tesi argomentata a partire da una analitica disamina delle vicende sospensive occorse durante il giudizio di merito. In particolare, quanto al rinvio disposto dall’udienza del 23/6/2010 a quella del 17/11/2010, si opina che sia stato rinvenuto il legittimo impedimento nel semplice impegno lavorativo dell’imputato e, soprattutto, che sia stata riconosciuta l’efficacia sospensiva della prescrizione in relazione ad un rinvio in realtà motivato da esigenze istruttorie, attesa l’assenza del testimone Greco. Inoltre, quanto al rinvio disposto all’udienza del 17/11/2010, anche in tal caso sarebbe stato attribuito effetto sospensivo della prescrizione ad un differimento disposto su richiesta del termine a difesa formulata dall’avv. Rizzuti, nominato difensore di fiducia di Ferdinando Masciotta soltanto due giorni prima; ciò in violazione della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la concessione di un termine difesa non consentirebbe il riconoscimento degli effetti sospensivi della prescrizione.
5. Con nuova memoria depositata il 26/09/2017, i difensori di Luigi e Ferdinando Masciotta hanno chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, sottolineando come a seguito dell’entrata in vigore del d.P.R. 13/06/2017, n. 120 (recante il “Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164), l’art. 186 del d.lgs. n. 152 del 2006 sarebbe stato “di fatto” abrogato. Pertanto, dal momento che le rocce e terre da scavo non sarebbero più qualificabili come “rifiuti” e che per le relative attività di gestione non sarebbero più necessarie le autorizzazioni in precedenza previste, le condotte di gestione de quibus sarebbero state, in definitiva, ormai depenalizzate.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è parzialmente fondato e, pertanto, deve essere accolto per quanto di ragione.
2. Osserva, innanzitutto, il Collegio che prima di esaminare la doglianza relativa alla avvenuta maturazione della prescrizione, deve essere affrontata la questione pregiudiziale concernente la attuale rilevanza penale del fatto ascritto ai tre imputati (così Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, dep. 15/05/2008, Niccoli, Rv. 239400; più recentemente Sez. 4, n. 27081 del 9/06/2016, dep. 1/07/2016, Emris, Rv. 267445). Ciò sull’ovvio rilievo secondo il quale l’eventuale sopravvenire di una norma di depenalizzazione determina, anche nel giudizio di legittimità, l’obbligo per il giudice di prosciogliere l’imputato, ai sensi dell’art. 129, comma 2 cod. proc. pen., con la formula “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, ovviamente più favorevole rispetto a quella di una estinzione del reato per prescrizione.
2.1. L’art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, rubricato “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, stabilisce, al comma 1, che “chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni”. Centrale, ai fini della qualificazione di una determinata condotta ai sensi della citata disposizione incriminatrice, è, dunque, la nozione di “rifiuto”, atteso che soltanto ove, per quanto qui di interesse, le rocce o le terre da scavo possano essere in tal modo qualificate, la relativa gestione illecita potrà integrare, ricorrendone gli ulteriori requisiti, la fattispecie dettata dall’art. 260 dello stesso decreto. Ciò anche in virtù della regola posta dall’art. 186, comma 5, secondo cui “le terre e rocce da scavo, qualora non utilizzate nel rispetto delle condizioni di cui al presente articolo, sono sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti di cui alla parte quarta del presente decreto”.
Ora, l’art. 183, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 152 del 2006 definisce il concetto di “rifiuto” nei termini di “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione ovvero l’obbligo di disfarsi”. Nel caso delle rocce e terre da scavo, tuttavia, il legislatore ha adottato un regime speciale, nel tempo sottoposto a plurimi rimaneggiamenti, che è possibile riassumere nei termini che si riportano di seguito, non prima di avere ribadito, in estrema sintesi, i fatti oggetto di contestazione, onde pervenire ad un indispensabile definizione del perimetro dell’analisi, altrimenti destinata ad una defatigante e solo parzialmente utile ricostruzione di sistema.
2.2. La contestazione elevata nei confronti dei tre imputati concerne l’avere gestito, mediante la predisposizione, con modalità continuative, di una organizzazione di uomini e mezzi, la cessione, a beneficio di una società che stava realizzando un termovalorizzatore in loc. Bellolampo, di ingenti quantitativi di materiale da scavo ottenuto dai lavori di sbancamento eseguiti per la realizzazione di un parcheggio nella Piazza Vittorio Emanuele Orlando di Palermo. Secondo la ricostruzione accolta dai giudici di merito, il materiale in questione doveva essere qualificato come “rifiuto” e non come “sottoprodotto”, dal momento che non erano state osservate, da parte degli imputati, le procedure previste dall’art. 186 per il riutilizzo e per il successivo trasporto del materiale da scavo; e, inoltre, in quanto nel suddetto materiale erano risultate presenti sostanze inquinanti, in particolare berillio e selenio, in misura eccedente i limiti di legge. In particolare, secondo quanto ammesso dallo stesso Vargiu, la Ge.co.pre. non aveva attestato, con idoneo allegato al progetto dell’opera, sottoscritto dal progettista, la sussistenza dei requisiti necessari per procedere al riutilizzo delle terre e rocce da scavo; né al comune di Palermo era stata rivolta alcuna richiesta di riutilizzo, quantomeno fino al 9/02/2007, data del sequestro, nonostante che il contratto di appalto prevedesse che i materiali fossero conferiti in discarica. Inoltre, sia nella relazione dell’Arpa, sia in quella dell’ing. Li Calsi, coordinatore del gruppo di progettazione e progettista della struttura, era stata indicata la presenza, negli strati più superficiali del suolo, di sostanze altamente nocive in misura superiore ai limiti di legge, sì da non consentire il riutilizzo delle sostanze. Infine, era stato accertato che il contratto di appalto stipulato tra la Ge.co.pre. e il comune di Palermo concerneva la realizzazione di un lavoro pubblico non soggetto né a VIA, né a permesso di costruire o a denuncia di inizio di attività ai sensi del comma 4 dell’art. 186 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Sulla base di tali presupposti, dunque, i giudici di merito avevano ritenuto che, nel caso di specie, non potesse farsi luogo all’applicazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo di cui al citato art. 186, non avendo gli imputati assolto all’onere di fornire la prova positiva della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività, richiesta in ragione della sua natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (ex plurimis Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, dep. 17/04/2015, Fortunato, Rv. 263336). Ed in presenza degli ulteriori requisiti di fattispecie era stata ritenuta integrata la fattispecie di reato contestata al capo a) della rubrica.
2.3 Tanto premesso, giova ricordare che la disciplina delle rocce e terre da scavo si è sempre atteggiata con tratti di marcata specialità, onde attribuire ai soggetti che svolgono attività edilizia una più ampia possibilità di riutilizzo del materiale di risulta delle operazioni di costruzione. E, nel corso del tempo, il relativo regime giuridico è stato sottoposto a ripetuti interventi di riforma.
Ora, la normativa vigente ratione temporis (ovvero nel periodo, cui si riferisce la contestazione, compreso tra il maggio 2006 e il febbraio 2007) e, in particolare, la originaria previsione dell’art. 186, comma 1 del d.lgs. n. 152 del 2006, così stabiliva: “le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione della pietra destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati non costituiscono rifiuti e sono, perciò, esclusi dall’ambito di applicazione della parte quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale ovvero, qualora il progetto non sia sottoposto a valutazione di impatto ambientale, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente, ove ciò sia espressamente previsto, previo parere delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell’ambiente, sempreché la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3”.
Dunque, affinché le rocce e le terre da scavo fossero sottratte al regime proprio dei rifiuti, per essere sottoposte a quello dei cd. sottoprodotti di cui all’originaria formulazione dell’art. 183, comma 1, lett. m), era necessario, in sintesi: 1) che il materiale fosse stato effettivamente utilizzato per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati; 2) che ciò avvenisse “senza trasformazioni preliminari”; 3) che le relative modalità fossero indicate nel progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale ovvero, in assenza di valutazione di impatto ambientale, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente; 4) che la composizione media dell’intera massa non presentasse una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti. Alla luce di quanto osservato al § 2.2. è, dunque, evidente, con riferimento ai requisiti indicati ai nn. 3 e 4, che secondo la normativa vigente all’epoca dei fatti, il materiale di risulta di cui si discute fosse da qualificare come “rifiuto” e non come sottoprodotto.
2.3.1 La disciplina testé sommariamente riassunta è stata, nel tempo, sottoposta a ulteriori modifiche.
Dapprima, il d.lgs. 16/01/2008, n. 4 (recante “Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale”) ha previsto, nel modificare l’art. 186, requisiti ancora più puntuali e stringenti per ricondurre le rocce e terre da scavo nella nozione di “sottoprodotti”, ovvero che esse: a) siano impiegate direttamente nell’ambito di opere o interventi preventivamente individuati e definiti; b) sin dalla fase della produzione vi sia certezza dell’integrale utilizzo; c) l’utilizzo integrale della parte destinata a riutilizzo sia tecnicamente possibile senza necessità di preventivo trattamento o di trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e, più in generale, ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli ordinariamente consentiti ed autorizzati per il sito dove sono destinate ad essere utilizzate; d) sia garantito un elevato livello di tutela ambientale; e) sia accertato che non provengono da siti contaminati o sottoposti ad interventi di bonifica ai sensi del titolo V della parte quarta del presente decreto; f) le loro caratteristiche chimiche e chimico-fisiche siano tali che il loro impiego nel sito prescelto non determini rischi per la salute e per la qualità delle matrici ambientali interessate ed avvenga nel rispetto delle norme di tutela delle acque superficiali e sotterranee, della flora, della fauna, degli habitat e delle aree naturali protette. In particolare deve essere dimostrato che il materiale da utilizzare non è contaminato con riferimento alla destinazione d’uso del medesimo, nonché la compatibilità di detto materiale con il sito di destinazione; g) la certezza del loro integrale utilizzo sia dimostrata. Fermo restando che, quando, come nel caso di specie, la produzione di terre e rocce da scavo fosse avvenuta nel corso di lavori pubblici non soggetti né a VIA, né a permesso di costruire o denuncia di inizio di attività, la sussistenza dei requisiti di cui al comma 1, nonché i tempi dell’eventuale deposito in attesa di utilizzo, che non potevano superare un anno, dovevano risultare da idoneo allegato al progetto dell’opera, sottoscritto dal progettista.
In ogni caso, le disposizioni sommariamente riassunte, in quanto più restrittive e, come tali, destinate ad ampliare l’ambito della nozione di “rifiuto” e, con essa, delle fattispecie incriminatrici che la richiamavano, dovevano ritenersi non suscettibili di applicazione retroattiva.
2.3.2 Anche tale disciplina, peraltro, è stata superata, avendo il legislatore stabilito, all’art. 39, comma 4, del D.Lgs. 3/12/2010, n. 205, l’abrogazione dell’art. 186 del d.lgs. n. 152 del 2006, condizionatamente all’adozione del “Regolamento recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo” con decreto attuativo del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, da emanarsi di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, avvenuta il 6/10/2012, con l’emanazione del D.M. di attuazione n. 161 del 2012, che ha definito come “sottoprodotto” le rocce e terre da scavo che presentino il materiale da scavo i seguenti requisiti: a) il materiale da scavo è generato durante la realizzazione di un’opera, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale materiale; b) il materiale da scavo è utilizzato, in conformità al Piano di Utilizzo: 1) nel corso dell’esecuzione della stessa opera, nel quale è stato generato, o di un’opera diversa, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, ripascimenti, interventi a mare, miglioramenti fondiari o viari oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali; 2) in processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava; c) il materiale da scavo è idoneo ad essere utilizzato direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale secondo i criteri di cui all’Allegato 3; d) il materiale da scavo, per le modalità di utilizzo specifico di cui alla precedente lettera b), soddisfa i requisiti di qualità ambientale di cui all’Allegato 4. Ed ancora che “la sussistenza delle condizioni di cui al comma 1 del presente articolo è comprovata dal proponente tramite il Piano di Utilizzo” (comma 2). Fermo restando che, a mente dell’art. 15, comma 3 del medesimo D.M., “in caso di inottemperanza alla corretta gestione dei materiali di scavo secondo quanto disposto dal presente regolamento il materiale scavato verrà considerato rifiuto ai sensi del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni”.
Nondimeno, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 186 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, a seguito della suddetta abrogazione ad opera del D.Lgs. n. 205 del 2010, ha assunto la natura di norma temporanea, destinata ad applicarsi ai fatti commessi fino all’entrata in vigore del prescritto D.M. di attuazione n. 161 del 2012, non essendo possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a materiali sulla base di disposizioni amministrative non ancora vigenti al momento della loro produzione (Sez. 3, n. 17380 del 16/12/2014, dep. 27/04/2015, Cavanna, Rv. 263348). Ciò anche tenuto conto di quanto stabilito dall’art. 15, rubricato “disposizioni finali e transitorie”, secondo il quale al fine di garantire che non vi fosse alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa prevista dall’art. 186 del d.lgs. n. 152 del 2006 e successive modificazioni a quella prevista dal regolamento n. 210/2012, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del medesimo, è stato previsto che i progetti per i quali era in corso una procedura ai sensi e per gli effetti del citato art. 186, potessero essere assoggettati alla disciplina prevista dal presente regolamento con la presentazione di un Piano di Utilizzo ai sensi e dell’art. 5. Decorso il predetto termine senza che fosse stato presentato un Piano di Utilizzo ai sensi del citato art. 5, i progetti devono ritenersi portati a termine secondo la procedura prevista dall’art. 186.
2.3.3 Da ultimo, si è giunti all’approvazione del citato d.P.R. 13/06/2017, n. 120, con il quale è stata introdotta, ai sensi dell’art. 8 del d.l. 12/09/2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11/11/2014, n. 164, una nuova disciplina della gestione delle terre e rocce da scavo con particolare riferimento ai seguenti ambiti: 1) alla gestione delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti, ai sensi dell’art. 184-bis, del d.lgs. n. 152 del 2006, provenienti da cantieri di piccole dimensioni, di grandi dimensioni e di grandi dimensioni non assoggettati a VIA o a AIA, compresi quelli finalizzati alla costruzione o alla manutenzione di reti e infrastrutture; 2) alla disciplina del deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate rifiuti; 3) all’utilizzo nel sito di produzione delle terre e rocce da scavo escluse dalla disciplina dei rifiuti; 4) alla gestione delle terre e rocce da scavo nei siti oggetto di bonifica.
In particolare, per quanto qui di interesse, è stato stabilito, all’art. 4, comma 2 del nuovo d.P.R., rubricato “Criteri per qualificare le terre e rocce da scavo come sottoprodotti”, che le terre e rocce da scavo per essere qualificate come sottoprodotti devono soddisfare i seguenti requisiti: a) sono generate durante la realizzazione di un’opera, di cui costituiscono parte integrante e il cui scopo primario non è la produzione di tale materiale; b) il loro utilizzo è conforme alle disposizioni del piano di utilizzo di cui all’articolo 9 o della dichiarazione di cui all’articolo 21, e si realizza: 1) nel corso dell’esecuzione della stessa opera nella quale è stato generato o di un’opera diversa, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, miglioramenti fondiari o viari, recuperi ambientali oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali; 2) in processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava; c) sono idonee ad essere utilizzate direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) soddisfano i requisiti di qualità ambientale espressamente previsti dal Capo II o dal Capo III o dal Capo IV del presente regolamento, per le modalità di utilizzo specifico di cui alla lettera b)”.
2.4. La esposizione che precede consente di affermare che le ricordate modifiche del regime giuridico delle rocce e terre da scavo, attinenti alla loro classificazione come sottoprodotto, pur avendo inciso su una serie di profili attinenti alle procedure di classificazione ed ai relativi requisiti, non hanno comunque inciso, in maniera decisiva o comunque rilevante, con riferimento ai due specifici profili che, secondo l’accertamento in fatto compiuto dai giudici di merito, avevano imposto di qualificare come rifiuto”, e non come “sottoprodotto”, il materiale da scavo prodotto attraverso i lavori di costruzione del parcheggio e conferito nel sito di Bellolampo; ovvero: 1) la totale inosservanza delle procedure previste per il successivo riutilizzo del materiale e per il suo trasporto in un sito diverso da quello di produzione; 2) la presenza, nel materiale di risulta ottenuto dalle operazioni di scavo, di sostanze inquinanti.
2.3.3. Infatti, quanto al primo profilo, deve certamente darsi atto della significativa semplificazione delle procedure di gestione delle rocce e terre da scavo. E tuttavia, nessun dubbio ricorre in ordine alla circostanza che, pur dopo la recente modifica introdotta dal d.lgs. n. 120 del 2017 sia comunque obbligatorio che si proceda: a) per le terre e rocce da scavo derivanti da opere sottoposte a VIA o ad AIA con produzione maggiore di 6.000 m3 secondo un regime simile a quello previsto dal D.M. n. 161/2012, attraverso la redazione del Piano di Utilizzo che deve comunque contenere l’autocertificazione dei requisiti di sottoprodotto (all. 6); b) per le terre e rocce da scavo da riutilizzare prodotte in misura inferiore ai 6.000 m3, in cantieri riguardanti opere sottoposte o meno a VIA o ad AIA, nonché in siti di grandi dimensioni (con produzione superiore ai 6000 m3, non sottoposti a VIA o AIA), è invece prevista una procedura semplificata attraverso una dichiarazione di autocertificazione attestante il rispetto dei requisiti di cui all’art. 4 presentata dal produttore all’Arpa territorialmente competente e al Comune del luogo di produzione (autorità competente nel caso di “cantieri di grandi dimensioni”) utilizzando i modelli previsti dagli allegati 6-7-8 del D.P.R..
Tuttavia, secondo la previsione dell’art. 27, comma 1 del d.P.R. n. 120 del 2017, rubricato “Disposizioni intertemporali, transitorie e finali”, “i piani e i progetti di utilizzo già approvati prima dell’entrata in vigore del presente regolamento restano disciplinati dalla relativa normativa previgente, che si applica anche a tutte le modifiche e agli aggiornamenti dei suddetti piani e progetti intervenuti successivamente all’entrata in vigore del presente regolamento. Resta fermo che i materiali riconducibili alla definizione di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), del presente regolamento utilizzati e gestiti in conformità ai progetti di utilizzo approvati ai sensi dell’articolo 186 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ovvero ai piani di utilizzo approvati ai sensi del decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela e del territorio e del mare 10 agosto 2012, n. 161, sono considerati a tutti gli effetti sottoprodotti e legittimamente allocati nei siti di destinazione”.
Ora, in disparte la circostanza, già ricordata, che la Ge.co.pre. non aveva provveduto né alla redazione del progetto previsto dalla normativa del 2006 e del 2008, applicabile, in quanto disciplina temporanea, ai fatti oggetto del presente processo (v. supra), né alla richiesta di riutilizzo del materiale de quo, anche i successivi interventi, pur in una prospettiva di semplificazione, hanno previsto una serie di adempimenti, volti a realizzare un adeguato regime di controlli, che, nella specie, non erano stati neanche abbozzati dalla società appaltatrice. Ne consegue che, già sotto tale primo profilo, la mancata osservanza delle disposizioni prescritte per la qualificazione del materiale da scavo come “sottoprodotto” non consentisse, né all’epoca dei fatti, né attualmente, di assoggettare al regime di favore la movimentazione del materiale da scavo in questione.
Inoltre, quanto al secondo aspetto, anche secondo la vigente normativa, come già sotto la vecchia disciplina, la eventuale presenza, nel materiale di risulta, di sostanze inquinanti in misura superiore ai limiti tabellari (v. la tabella 4.1 del d.lgs. n. 210 del 2012 e l’art. 2, comma 1, lett. C del d.lgs. 120 del 2017) non consente di qualificare il predetto materiale come sottoprodotto, imponendone, ancora una volta, la sussunzione entro la cornice giuridica dei rifiuti e la sottoposizione al relativo assetto regolativo.
Pertanto, anche secondo tale profilo, la ricordata modifica normativa non può ritenersi idonea a determinare il sostanziale venire meno della
2.3. Ricostruito, nei termini che precedono, il quadro normativo di riferimento, deve dunque conclusivamente ritenersi che le condotte attribuite ai tre imputati mantengano, tuttora, rilevanza penale, sicché la questione dedotta dalle difese in occasione della memoria depositata in data 26/09/2017 è infondata.
3. Venendo, poi, all’analisi del primo motivo di ricorso, comune a tutti gli imputati, deve osservarsi che l’omesso avviso del rinvio dell’udienza all’imputato non comparso, che non abbia allegato alcun legittimo impedimento e rispetto al quale non sia stata dichiarata la contumacia, comporta, secondo l’orientamento di questa Suprema Corte, la sanzione di nullità. Nondimeno, mentre secondo un primo, preferibile, orientamento la violazione della norma processuale è presidiata da una nullità di ordine generale a regime intermedio che deve essere eccepita dal difensore nella prima occasione utile, ai sensi dell’art. 182, comma 2 cod. proc. pen. e non, invece, una nullità assoluta, non essendo configurabile, in una simile ipotesi, un’omessa citazione dell’imputato (Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015, dep. 7/07/2016, Bonomelli e altri, Rv. 267046; Sez. 1, n. 18147 del 2/04/2014, dep. 30/04/2014, Messina, Rv. 261995; Sez. 5, n. 13283 del 17/01/2013, dep. 21/03/2013, Bucca, Rv. 255188; N. 92567 del 2009 Rv. 524417), secondo altro, minoritario indirizzo la nullità deve essere qualificata come assoluta, come tale insanabile e rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, atteso che l’omessa dichiarazione di contumacia dell’imputato non comparso all’udienza nella quale sia disposto il rinvio ad udienza fissa comporterebbe che egli non possa considerarsi formalmente presente (Sez. 5, n. 45127 del 28/05/2013, dep. 7/11/2013, De Vecchi, Rv. 257557; Sez. 4, n. 47791 del 22/11/2011, dep. 22/12/2011, Cravana e altro, Rv. 252461; Sez. 1, n. 15814 del 19/03/2009, dep. 15/04/2009, Calandi, Rv. 243733).
4. Tanto premesso, dalle considerazioni che precedono si evince che i ricorsi, quantomeno con riferimento al motivo di doglianza da ultimo esaminato, non sono manifestamente infondati.
Deve, quindi, rilevarsi che il reato per il quale gli imputati sono stati condannati è ormai prescritto, trattandosi di fatto commesso fino al 9/02/2007, data di esecuzione del sequestro, in relazione al quale trova applicazione la disciplina dettata dalla legge 5/12/2005, n. 251; con la conseguenza che, trattandosi di delitto, il termine massimo di prescrizione per, tale reato deve ritenersi stabilito in sette anni e sei mesi, in virtù del combinato disposto degli artt. 157, 160, comma 3, e 161, comma 2, cod. pen.. Va, infatti, osservato che è venuto a maturare il termine massimo prescrizionale previsto dalla legge per il reato contestato, compiutosi in data successiva alla pronuncia della sentenza di appello.
Non sussistono, inoltre, ipotesi evidenti di assoluzione ex art. 129 cod. proc. pen.. Va, infatti, ricordato che in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione ictu oculi, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, dep. 15/09/2009, Tettamanti, Rv. 244274).
Nel caso di specie, nondimeno, le due sentenze di merito hanno puntualmente ricostruito l’insieme degli elementi di fatto rilevanti ai fini della integrazione della fattispecie incriminatrice: dalla natura di rifiuto del materiale di risulta movimentato (conseguente al mancato rispetto della procedura di riutilizzo e alla presenza di sostanze inquinanti in concentrazione superiore ai limiti legali), alla predisposizione di una significativa organizzazione per la realizzazione del trasporto (stimato in ben 220 carichi), dal ruolo svolto dagli imputati nella illecita gestione del materiale, conseguente al ruolo di responsabile dei due cantieri svolto da Vargiu e a quello di figure apicali della Ge.Co.Pre. degli altri due imputati, come tali certamente a conoscenza delle operazioni di illecita movimentazione.
Pertanto, alla stregua di tale ricostruzione in fatto da parte delle due sentenze di merito, deve escludersi che ricorra la situazione più sopra descritta al fine di addivenire ad una pronuncia di assoluzione nel merito.
5. La sentenza impugnata deve, quindi, essere annullata, senza rinvio, per essere il residuo reato estinto per prescrizione.

PER QUESTI MOTIVI
annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il residuo reato è estinto per prescrizione.
Così deciso in Roma, il 27/09/2017