Cass. Sez. III n.37280 del 1 ottobre 2008 (Ud. 12 giu. 2008)
Pres. De Maio Rel. Onorato Ric. Picchioni
Rifiuti. Terre e rocce da scavo

L\'art. 186 del D.Lgs. 3.4.2006 n. 152 esclude dall\'applicazione della disciplina sui rifiuti le terre e rocce da scavo a determinate condizioni. Poiché la norma costituisce direttamente una deroga alla nozione di rifiuto definita dall\'art. 183 1ett. a), e indirettamente configura una causa di esclusione della punibilità dei reati che hanno come oggetto o come presupposto i rifiuti (v. rispettivamente da una parte gli artt. 256, 259 e 260, e dall\'altra art. 258, comma 4), grava sull\'imputato l\'onere di provare le condizioni positive per l\'applicabilità della deroga (riutilizzazione delle terre e rocce da scavo secondo progetto ambientalmente compatibile), mentre resta compito del pubblico ministero la prova della circostanza di esclusione della deroga (concentrazione di inquinanti superiore ai massimi consentiti).
1 - Con sentenza del 22.1.2008 il Tribunale monocratico di L’Aquila ha dichiarato Antonio Picchioni colpevole:
a) del reato di cui agli artt. 192 e 256, comma 2, in relazione al comma 1, lett. a) del D.Lgs. 152/2006, perché — quale titolare dell’omonima impresa individuale esercente attività di movimento terra ed edile — aveva illecitamente abbandonato o depositato in modo incontrollato in area compresa nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga rifiuti speciali non pericolosi, consistenti in inerti da demolizione di edifici;
b) del reato di cui all’art, 734 c.p., perché, nella qualità e con la condotta suddette, aveva alterato la bellezza naturale del luogo, soggetto a speciale protezione dell’autorità, in quanto compreso nel Parco Naturale del Gran Sasso e dei Monti della Laga:
accertati in Campotosto, località Mascioni, il 25.10.2006;
e per l’effetto lo ha condaimato alla pena di 2.500 euro di ammenda, col beneficio della non menzione della condanna, e ha disposto la restituzione dell’area sequestrata subordinatamente alla bonifica della stessa a spese e a cura del Picchioni sotto il controllo della competente stazione del Corpo Forestale dello Stato.
In particolare. il giudice monocratico ha accertato e osservato che:
- in esito alla demolizione di un fabbricato appartenente a tale Benedetto Antonelli, il Picchioni aveva ricevuto da questi l’incarico di smaltire il materiale risultante dalla demolizione;
- il Picchioni. senza alcuna autorizzazione amministrativa, aveva trasportato e smaltito il materiale in un’area di proprietà di un terzo, ricadente nel Parco Naturale del Gran Sasso, dove i rifiuti giacevano da circa un mese quando il Corpo Forestale dello Stato aveva proceduto al sequestro (in data 25.10.2006);
- i rifiuti. accatastati in modo disordinato e disomogeneo, alteravano indubbiamente la bellezza del luogo paesaggisticamente tutelato.

2 - Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di annullamento.
In particolare, denuncia:
2.1 - erronea applicazione degli artt. 256 e 257 D.Lgs. 152/2006, nonché esercizio di potestà riservata all’autorità amministrativa, laddove la sentenza impugnata ha subordinato la restituzione dell’area alla bonifica della stessa a carico dell’imputato.
Richiama al riguardo l’art. 239 del D.Lgs. 152/2006, secondo il quale le disposizioni relative alla bonifica dei siti contaminati non si applicano alla ipotesi di abbandono di rifiuti; e l’art. 192 dello stesso decreto, secondo cui colui che si è reso responsabile di abbandono, di deposito incontrollato o di immissione nelle acque superficiali o sotterranee di rifiuti, è tenuto a procedere alla rimozione, al recupero o allo smaltimento dei rifiuti stessi in solido col proprietario o con i gestori dell’area. Secondo il difensore, si tratta di procedure nelle quali per legge interviene l’autorità amministrativa (regione, provincia e comune), con la conseguenza che l’autorità giudiziaria non ha competenza in materia;
2.2 - erronea applicazione degli artt. 186 e 256 D.Lgs. 152/2006, nonché illogicità della motivazione sul punto.
Sostiene al riguardo che gli inerti da demolizione contestati nel capo di imputazione consistevano in terra, sassi, paglia e coppi, ovverosia dei materiali di cui era composto il fabbricato demolito, con la conseguenza che rientravano nella categoria di “terre e rocce da scavo” che l’art. 186 citato sottrae alla disciplina dei rifiuti, ove ricorrano precise condizioni. Il giudice di merito, prima di qualificarli come rifiuti, doveva verificare che non ricorressero le condizioni previste nella norma predetta.

3 - Il secondo motivo di censura, relativo alla sussistenza del reato (n. 2.2), è destituito di fondamento giuridico.
L’art. 186 del D.Lgs. 3.4.2006 n. 152 esclude dall’applicazione della disciplina sui rifiuti le terre e rocce da scavo, quando siano utilizzate senza trasformazioni preliminari per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, purché la utilizzazione avvenga secondo un progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale o secondo altro progetto corredato da parere positivo dell’A.R.P.A., e sempreché la composizione della intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti.
In quanto la norma costituisce direttamente una deroga alla nozione di rifiuto definita dall’art. 183 lett. a), e indirettamente configura una causa di esclusione della punibilità dei reati che hanno come oggetto o come presupposto i rifiuti (v. rispettivamente da una parte gli artt. 256, 259 e 260, e dall’altra art. 258, comma 4), grava sull’imputato l’onere di provare le condizioni positive per l’applicabilità della deroga (riutilizzazione delle terre e rocce da scavo secondo progetto ambientalmente compatibile), mentre resta compito del pubblico ministero la prova della circostanza di esclusione della deroga (concentrazione di inquinanti superiore ai massimi consentiti).
Peraltro, non bisogna confondere le terre e rocce da scavo con i materiali di risulta da demolizione. Lo scavo infatti ha per oggetto il terreno (es. per ricavare una galleria, un cunicolo, una trincea, una fossa), mentre la demolizione ha per oggetto un edificio o comunque un manufatto costruito dall’uomo.
Nel caso di specie, il reato contestato all’imputato consisteva nell’abbandono o nel deposito incontrollato di inerti derivanti da demolizione di edifici, che sono sostanze ontologicamente diverse dalle terre e rocce da scavo. Mancava quindi lo stesso requisito preliminare per l’applicabilità del predetto art. 186.

4 - E’ invece fondato il primo motivo (n.2.l), con cui il ricorrente censura la subordinazione della restituzione dell’area sequestrata alla previa bonifica della stessa.
Non è dato sapere a questo giudice se il sequestro dell’area era stato disposto a fini probatori ex art. 253 c.p.p. o a fini preventivi ex art. 321 c.p.p.. Ma in ogni caso la restituzione della cosa sequestrata non poteva essere sottoposta a condizione.
Infatti, nel caso di sequestro probatorio. l’art. 262 c.p.p. prevede che con la sentenza di merito il giudice deve ordinare la restituzione delle cose sottoposte a sequestro, essendo venute meno le esigenze probatorie che l’aveva giustificato, a meno che, su apposita istanza di parte, decida di convertire il sequestro a fini di garanzia dei crediti indicati nell’art. 316 c.p.p. o a fini dì prevenzione ex art. 321 c.p.p., ovvero disponga la confisca nelle ipotesi consentite (commi 2, 3 e 4 del citato art. 262).
Analogamente, nel caso di sequestro preventivo, a norma dell’art. 323 c.p.p. il giudice che pronuncia la sentenza di condanna deve ordinare la restituzione delle cose sequestrate, a meno che non ne disponga la confisca o che, sempre su apposita istanza della parte legittimata, decida di mantenere il sequestro a fini di garanzia conservativa.
In entrambe le ipotesi, quindi, la restituzione è atto dovuto e incondizionato, sul presupposto che sono tipicamente venute a mancare le esigenze che legittimavano il sequestro, salva la possibilità di convertire il sequestro per gli altri fini determinati dalla legge o di sostituirlo con la confisca.

5 - In caso di reati in materia di rifiuti, per perseguire lo scopo di ripristinare ecologicamente le aree inquinate, l’ordinamento offre al giudice penale una sola possibilità., che è quella di concedere, ove possibile, la sospensione condizionale della pena, e di subordinarla alla bonifica del sito.
In particolare - come questa Corte ha già avuto modo di chiarire - in caso di condanna (o sentenza di patteggiamento della pena) per il reato di inquinamento previsto dall’art. 257 D.Lgs. 152/2006, il giudice può subordinare la concessione del predetto beneficio alla bonifica del sito inquinato secondo le procedure regolamentate dallo stesso decreto legislativo, in virtù della norma specifica prevista dal terzo comma del medesimo art. 257. Mentre, in caso di condanna (o di sentenza di patteggiamento della pena) per gli altri reati in materia di gestione dei rifiuti, o per altri reati che cagionino danni ambientali, il giudice può subordinare la sospensione condizionale della pena al ripristino ambientale o a una bonifica del sito non legislativamente regolamentata, e tuttavia soggetta al controllo dell’autorità giudiziaria o di un organo tecnico appositamente delegato, in virtù del principio generale consacrato nell’art. 165 c.p., secondo il quale il detto beneficio può essere subordinato alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (per una più articolata motivazione sul punto, alla quale si rimanda, cfr. Sez. III, n. 13456,del 20.11.2006, Gritt, rv. 236328, nonché Sez. III, n. 35501 del 30.5.2003, Spadetto, rv. 225881).

6 - Nel caso di specie. il giudice non ha ritenuto di concedere la sospensione condizionale della pena. Non poteva quindi — ovviamente — subordinare il beneficio alla bonifica del sito inquinato; ma neppure poteva condizionare a tale bonifica la restituzione (dovuta) dell’area sequestrata.
In conclusione, la sentenza va annullata senza rinvio limitatamente alla condizione apposta alla restituzione, con la conseguenza che resta l’ordine incondizionato di restituire l’area sequestrata.