La legge delega n. 308 del 2004 in materia ambientale e le materie prime secondarie per l’industria metallurgica: una nuova norma paradossale ?
di Luca PRATI
La legge
15
dicembre 2004, n. 308 - Delega
al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione
in materia ambientale e misure di diretta applicazione -
prevede alcune disposizioni direttamente applicabili relative alle “materie
prime secondarie” per l’industria metallurgica, riferite ai rottami ferrosi
e non ferrosi, che, nei primi lanci di stampa, hanno portato all’affermazione
secondo cui questi ultimi sarebbero ora “fuoriusciti” dal regime dei
rifiuti.
In realtà, una
analisi puntuale del dettato normativo evidenzia come la legge delega abbia
invece introdotto una disciplina contraddittoria ed involuta, la cui
interpretazione (ed applicabilità) risulta, a dir poco, problematica; in
effetti, per il modo in cui è stata formulata, la nuova disposizione rischia
di creare più problemi di quanti, forse, non intendesse risolverne. La
disciplina presenta inoltre profili
di potenziale illegittimità che vanno ben oltre la
nota e dibattuta questione relativa alla introduzione, a livello
nazionale, di disposizioni dirette a “interpretare” la nozione europea di
rifiuto, ma che coinvolgono anche aspetti relativi alla libera circolazione
delle merci nel territorio comunitario.
I commi da 25 a 29
dell’articolo 1 della L. 308/2004 prevedono infatti un regime speciale per i
rottami ferrosi e non ferrosi destinati ad essere impiegati nei cicli produttivi
siderurgici e metallurgici; il comma 25, in particolare, prevede che
“In
attesa di
una revisione
complessiva della normativa
sui rifiuti che
disciplini in modo organico la materia, alla lettera a) del comma 29,
sono individuate le caratteristiche e le tipologie dei rottami che, derivanti
come scarti di lavorazione oppure originati da cicli
produttivi o
di consumo, sono definibili
come materie prime secondarie per
le attività siderurgiche e metallurgiche, nonché le modalità
affinché gli
stessi siano
sottoposti al regime delle
materie prime e non a quello dei rifiuti”.
Il primo punto da
evidenziare è che in base al comma 25 della L. 308/2004 i
rottami sarebbero (potenzialmente) equiparabili a materie prime secondarie sia
quando siano scarti di lavorazione (eventualmente anche sottoprodotti),
sia quando derivino da altri cicli di produzione o di consumo. La norma riguarda
quindi, in pratica, tutti
i rottami, a prescindere dal modo in cui gli stessi si sono originati.
Ciò detto, il comma
26 dell’art. 1, dopo prosegue poi specificando che
”Fermo restando quanto disposto
dall'articolo 14 del decreto-legge 8 luglio
2002, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto
2002, n. 178[1],
sono sottoposti al regime delle
materie prime e non a quello dei
rifiuti, se rispondenti alla definizione di
materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche di cui al
comma 1,
lettera q-bis),
dell'articolo 6 del decreto legislativo 5, febbraio
1997, n.
22, introdotta dal comma 29, i rottami di cui al comma
25 dei quali il detentore non si disfi, non abbia deciso o non abbia
l'obbligo di disfarsi e che quindi non conferisca a sistemi di raccolta
o trasporto
di rifiuti
ai fini
del recupero
o dello smaltimento, ma
siano destinati
in modo
oggettivo ed effettivo all'impiego nei cicli produttivi siderurgici o
metallurgici”.
Il comma 29
dell’art. 1 della legge delega modifica quindi, a sua volta, l’art. 6 del
Ronchi, introducendo la definizione di “materia
prima secondaria
per attività
siderurgiche e
metallurgiche”: rottami ferrosi e
non ferrosi derivanti da operazioni di recupero
e rispondenti a specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad
altre specifiche nazionali e
internazionali, nonché i rottami scarti di
lavorazioni industriali
o artigianali o provenienti
da cicli produttivi o di consumo,
esclusa la raccolta differenziata, che possiedono
in origine
le medesime caratteristiche
riportate nelle specifiche sopra menzionate”.
In sintesi, quindi,
sembrerebbe potersi affermare, dalla lettura dei commi 25 e 29 dell’articolo 1
della legge, che non sarebbero
tendenzialmente sottoposti al regime dei rifiuti, ma a quello delle materie
prime tout court, tutti
i rottami, comunque generati, a condizione che possano essere considerati materie
prime secondarie per l’industria metallurgica, nel caso in cui:
1)
il detentore non
se ne disfi, non abbia deciso o non abbia l'obbligo di disfarsene;
2) non
siano – quindi - conferiti a
sistemi di raccolta o trasporto ai fini
del recupero o dello smaltimento;
3) siano conformi
alle specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad
altre specifiche
nazionali e internazionali, sia in quanto derivanti da cicli di
recupero, sia in quanto “scarti”(sic!)
già in
origine conformi alle predette
specifiche;
4) siano
destinati in
modo oggettivo ed effettivo
all'impiego nei
cicli produttivi siderurgici o metallurgici.
In realtà, può osservarsi facilmente che, in base alle regole generali, basterebbe già la sola condizione di cui al punto 1) per escludere che i rottami abbiano la natura di rifiuti, posto che, come noto, l’art. 6, n. 1, lett. a), del decreto legislativo n. 22/97 definisce il «rifiuto» come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi».
Premesso quindi che la norma fa - necessariamente
- riferimento al concetto di “disfarsi” come prima fondamentale
condizione per stabilire se i rottami siano o meno rifiuti, per
assurdo, le altre condizioni (che si riducono, in pratica, alla conformità dei
materiali alle specifiche nazionali e internazionali) sembrerebbero
addirittura venire ad ampliare la nozione di rifiuto; ciò in
quanto, se per non essere assoggettati al regime dei rifiuti fosse sempre
necessaria la conformità delle MPS a specifiche nazionali ed internazionali, a
contrario i rottami sarebbero sempre da considerarsi rifiuti, pur quando il
detentore non se ne disfi, non abbia deciso o non abbia l’obbligo di
disfarsene, ogni volta in cui essi non siano conformi ad alcuna specifica (!).
Si tratta,
all’evidenza, di una soluzione inaccettabile, in quanto in contrasto con il
principio cardine della definizione di italiana ed europea di rifiuto; pertanto,
sembra si possa continuare ad affermare che i rottami non potranno comunque
essere considerati rifiuti, anche ove non conformi ad alcuna specifica, ove
il detentore non se ne disfi o non intenda disfarsene (ad esempio, nel caso
di residui di produzione, o sottoprodotti, riutilizzati in modo certo ed
oggettivo nel medesimo ciclo produttivo)[2].
Inoltre, la norma
lascia aperto un nodo cruciale, determinato da un equivoco di fondo:
il comma 26, per escludere la natura di rifiuto dei rottami, pone infatti, al
contempo, due condizioni tra loro evidentemente contraddittorie, e cioè: 1) che
i rottami non siano conferiti a fini di
recupero; 2) che, tuttavia, siano
destinati all'impiego nei cicli produttivi siderurgici o
metallurgici.
A questo proposito, permane però l’impossibilità, dal punto di vista sia pratico che concettuale, di distinguere tra “recupero” e “impiego in un ciclo produttivo siderurgico o metallurgico”, posto che la distinzione tra attività di recupero ai sensi dell’allegato II B della direttiva 75/442 e ogni altro “impiego in un ciclo produttivo” non rientrante in detta definizione postula che sia già stato preventivamente risolto il problema se la sostanza in questione sia da qualificarsi come “rifiuto”. Ogni operazione, infatti, può essere classificata o meno come “recupero” a seconda del fatto che, a sua volta, essa venga fatta su una sostanza classificata o meno come rifiuto[3].
Coerentemente a ciò, va ricordato come il punto 3 del DM 5 febbraio 1998 elenchi tra le attività di recupero dei rottami “il recupero diretto in impianti metallurgici [R4]”, considerando quindi l’impiego in un impianto metallurgico una operazione di recupero se (e solo se) effettuata su un bene qualificato come “rifiuto”.
La Corte di
Giustizia, nella causa Mayer Parry Recycling, ha altresì affermato che i
rottami metallici sottoposti a trattamento di frantumazione e smistamento non
perderebbero il loro carattere di rifiuti, in quanto solo attraverso la fusione
in fornace per produrre lingotti, lamiere o bobine di acciaio, il rifiuto
diverrebbe un nuovo prodotto[4].
Non esiste quindi alcuna distinzione sostanziale tra “recupero” e “impiego
in un ciclo produttivo”, se non sotto il profilo di ciò che viene utilizzato.
Ciò detto, è chiaro
che la norma lascia completamente aperti tutti i
problemi relativi alla nozione di rifiuto, rispetto a quello di materia prima
secondaria, proprio in relazione al concetto di “disfarsi”; essa infatti non
introduce alcun criterio (e, del resto, ben difficilmente avrebbe potuto
introdurlo) atto a distinguere ciò che si debba intendere per “recupero” e
ciò che invece sia “impiego in un ciclo produttivo”; tuttavia, la nuova
norma aggiunge come ulteriore condizione perché una sostanza (il rottame) sia
da qualificarsi “materia prima secondaria” la conformità della stessa alle
“specifiche nazionali ed internazionali”.
In realtà, si
potrebbe dedurre che con il combinato disposto dei commi da 25 a 29 dell’art.
1 si debba intendere che i rottami non debbano – tendenzialmente
- costituire rifiuti, se ed in quanto utilizzati direttamente nei cicli produttivi siderurgici e
metallurgici, senza necessità di
trattamento preliminare, in quanto già in possesso di caratteristiche (le
specifiche nazionali ed internazionali) che rendono tale trattamento non
necessario per l’impiego in un ciclo produttivo del tipo in questione[5].
La conformità alle
specifiche nazionali ed internazionali costituirebbe quindi solo un indice
probatorio (e non una condizione legale) della diretta utilizzabilità dei
rottami, sintomatico della assenza di volontà del detentore di
“disfarsene”, elemento, quest’ultimo, che, necessariamente, resta sempre
il vero cardine intorno a cui ruota qualsiasi problematica interpretativa
relativa alla nozione di rifiuto[6].
A supporto di questa
possibile lettura va anche ricordato che la stessa Corte di Giustizia ha più
volte affermato che “…la direttiva 75/442 non suggerisce alcun criterio determinante per
individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o
di un determinato materiale. In mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati
membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi
definiti nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi
l’efficacia del diritto comunitario” [7].
Del resto, come ha sempre ribadito la stessa Corte, la definizione di rifiuto passa necessariamente per il vaglio soggettivo del singolo giudice nazionale, e non può, per sua natura, soggiacere a definizioni astratte e precostituite; si tratta di una valutazione da farsi "caso per caso", operata dal giudice nazionale, in base alle norme del proprio ordinamento, ed escludendo la legittimità di presunzioni legali che possano limitare il giudice nazionale in tale valutazione[8].
In definitiva, una
lettura che sia compatibile con l’interpretazione comunitaria della nozione di
rifiuto, comporta che la conformità a specifiche tecniche dei rottami debba
essere intesa come uno tra i diversi elementi probatori a cui ricorrere, alla
luce di tutte le altre circostanze presenti nel caso concreto, per decidere
circa la volontà o meno del
detentore di “disfarsi” del rottame stesso.
Dove la norma si
presenta più problematica sotto il profilo operativo, oltre che in probabile
violazione dei principi del Trattato relativi alla libera circolazione delle
merci, è ai commi 27 e 28, in cui si
precisa che “I rottami
ferrosi e
non ferrosi provenienti dall'estero sono riconosciuti
a tutti
gli effetti
come materie
prime secondarie derivanti da
operazioni di
recupero se
dichiarati come tali da
fornitori o
produttori di
Paesi esteri che si
iscrivono all'Albo nazionale delle
imprese che effettuano la gestione dei rifiuti con le modalità
specificate al comma 28”.
Il comma 28 aggiunge
poi che “E' istituita
una sezione
speciale dell'Albo nazionale delle imprese
che effettuano la gestione dei rifiuti, di cui all'articolo 30, comma 1,
del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, alla quale
sono iscritte le imprese di
Paesi europei ed extraeuropei che effettuano
operazioni di recupero di
rottami ferrosi e non ferrosi, elencate nell'allegato C annesso al medesimo
decreto legislativo, per la produzione di materie prime secondarie per
l'industria siderurgica e metallurgica, nel rispetto delle condizioni e delle
norme tecniche riportate nell'allegato
1 al decreto del Ministro
dell'ambiente 5 febbraio 1998,
pubblicato nel
supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale
n. 88
del 16
aprile 1998. L'iscrizione è effettuata a seguito
di comunicazione all'Albo
da parte
dell'azienda estera
interessata, accompagnata
dall'attestazione di
conformità a tali condizioni e norme
tecniche rilasciata
dall'autorità pubblica
competente nel
Paese di appartenenza. Le modalità di funzionamento della
sezione speciale
sono stabilite
dal Comitato
nazionale dell'Albo; nelle more di tale definizione l'iscrizione e'
sostituita a tutti gli effetti
dalla comunicazione corredata dall'attestazione di conformità dell'autorità
competente”.
In sintesi, perché i
“rottami” importati dall’estero possano essere considerati come “materie
prime secondarie” per l’industria siderurgica e metallurgica, occorre che
gli stessi:
1) siano riconosciuti
e dichiarati, dai fornitori
o produttori
di Paesi
esteri, come “MPS” derivanti
da operazioni
di
recupero;
2) tali fornitori o
produttori siano iscritti ad una nuova sezione dell'Albo nazionale
dei gestori dei rifiuti, in cui dovranno iscriversi le imprese di
Paesi europei ed extraeuropei che effettuano
operazioni di recupero di
rottami ferrosi e non ferrosi, elencate nell'allegato C del Ronchi; nelle more
dell’istituzione, sarà sufficiente l’attestazione di cui al punto 4),
rilasciata dalla autorità estera;
3) la
“produzione” delle MPS sia stata effettuata nel
rispetto delle condizioni e delle norme
tecniche riportate nell'allegato
1 al
decreto del Ministro dell'ambiente 5 febbraio
1998;
4) l’autorità
competente estera abbia attestato la conformità del recupero (nel paese di
provenienza) alle condizioni e alle norme
tecniche (rectius: a condizioni e
norme tecniche equivalenti) a
quelle previste dall’allegato 1 al DM 5 febbraio
1998.
In questi termini, la
norma comporta che: 1) in mancanza
delle condizioni predette, i rottami non potrebbero essere considerati MPS, anche
se già sottoposti a preventive operazioni di recupero nel paese di provenienza;
2) le MPS per l’industria metallurgica formate da rottami potrebbero essere
importate in Italia, sia dall’Europa che da fuori dell’Europa, al di fuori
del regime dei rifiuti, solo se siano state “generate” tramite attività di
recupero “certificate” dalle autorità estere come rispettose delle
condizioni e norme tecniche previste nel DM 5 febbraio 1998.
La norma, se interpretata letteralmente, finisce quindi per prevedere, per i rottami “MPS”, condizioni per l’importazione più restrittive di quelle previste per “i rifiuti diretti al recupero”, dato che ai sensi del Regolamento CE 93/259, il legislatore comunitario ha previsto che i rifiuti destinati al recupero possano circolare liberamente tra gli Stati membri per esservi trattati, tanto che ad essi non si applicano neppure i principi della vicinanza e dell’autosufficienza[9].
La legge Delega, inoltre, prevede che una autorità estera sia chiamata ad attestare la conformità ad una normativa italiana di una operazione svolta sul territorio estero; a parte la considerazione che, sotto il profilo pratico, ben difficilmente ciò potrà avvenire in tempi ragionevoli, ci si limita qui a ricordare che i principi del Trattato CE non consentono agli Stati membri di restringere la circolazione delle merci (inclusi i rifiuti destinati al recupero, qualificabili o meno come MPS) in base a norme che costituiscono un ostacolo alle esportazioni e che non siano giustificate né da una misura imperativa relativa alla tutela dell'ambiente, né da una delle altre deroghe previste dal suddetto Trattato.
Anche in questo caso, la norma presenta pertanto
aspetti di forte criticità, e necessiterà quindi, per poter essere
legittimamente applicata, di una interpretazione che si presenti coerente con i
principi comunitari in tema di libera circolazione delle merci.
Luca Prati
[1]
Si tralasciano, in questa sede, i noti problemi relativi ai
rapporti tra norma italiana e legislazione europe, resi più evidenti dalla
citata sentenza della Corte di Giustizia, C.
457/02, Niselli, che si è pronunciata nel senso di ritenere
sostanzialmente contrastante con le direttive europee in materia l’art.
14 del citato decreto legge n. 138/2002.
[3]
Si legge in proposito ai punti 36 e 37 della sentenza Niselli, cit.,
che “…tale interpretazione subordina la qualifica come rifiuto ad
un’operazione che, a sua volta, può essere qualificata come smaltimento o
recupero solo ove applicata ad un
rifiuto. Quest'interpretazione non contribuisce pertanto minimamente a
precisare la nozione di rifiuto (….) In proposito, occorre ricordare che
dal fatto che su una sostanza venga eseguita un’operazione menzionata
negli allegati II A o II B della direttiva 75/442 non discende
necessariamente che l’operazione consista nel disfarsene e che quindi
tale sostanza vada considerata rifiuto (sentenza Palin
Granit, cit., punto 27). In effetti, se l’interpretazione di cui
trattasi fosse applicata nel senso che ogni sostanza o materiale oggetto di
uno dei tipi di operazioni menzionati agli allegati II A e II B della
direttiva 75/442 deve essere qualificato come rifiuto, essa condurrebbe a
qualificare come tali sostanze o materiali che non lo sono ai sensi della
detta direttiva. … “.
[6]
La Corte di Giustizia è
costante nell’affermare che l'ambito di applicazione della nozione di
rifiuto dipende dal significato del termine «disfarsi» (sentenza 18
dicembre 1997, C-129/96, Inter-Environnement Wallonie,
punto 26).
[7] Corte di Giustizia, sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97; più recentemente, cfr. Niselli, cit.