Registro di carico e scarico dei rifiuti.Sanzione per irregolare tenuta

di Marcello FRANCO


La Provincia di Macerata, avendo rilevato un “disallineamento” della più recente Cassazione (Cass., Sez. III Penale, 24.02.2017, n. 9132) rispetto a precedenti pronunciamenti ed alla prassi corrente, si è rivolta al Ministero con apposito interpello ex art. 3-septies del medesimo decreto per avere indicazioni in merito alla sanzione applicabile in caso di detenzione del registro di carico e scarico dei rifiuti in luogo diverso da quello prescritto dall’art. 190, comma 10, del d.lgs. n. 152/2006, e quindi in violazione di detto obbligo (interpello del 23.12.2022).
La competente (per materia) Direzione Generale Economia Circolare ha risposto in data 03.05.2023, esprimendo un parere che, al di là della conclusione alla quale si è ritenuto di potere/dovere pervenire, mi ha particolarmente stupito per la superficialità con la quale tale Direzione ministeriale ha ritenuto di poter smentire una chiara pronuncia di Cassazione.
Personalmente non ho mai considerato le sentenze di ogni ordine e grado, e quindi anche quelle della Cassazione come delle “verità rivelate”: il fatto che le sentenze vadano (sempre) rispettate non significa che il loro contenuto non possa essere (mai) messo in discussione; ma c’è modo e modo per criticarle.
In sintesi, secondo la sentenza n. 9132/2017 della Cassazione «L’obbligo di tenere i registri di carico e scarico presso ogni impianto di produzione, di stoccaggio, di recupero e di smaltimento dei rifiuti è previsto direttamente dalla legge (art. 190, [all’epoca] comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006) ma la loro tenuta in altro luogo (nel caso di specie presso la sede legale) non è sanzionata direttamente (l’art. 258, d.lgs. n. 152 del 2006, sanziona amministrativamente l’omessa tenuta dei registri tour court)». Per l’esattezza, è sanzionata non solo «l’omessa tenuta dei registri tour cour)», ma anche il fatto di tenerlo «in modo incompleto»; comunque non risulta sanzionata “la conservazione in luogo diverso da quello prescritto”, quanto meno non è espressamente prevista tra i comportamenti cui si applicano le sanzioni di cui al citato art. 258 del d.lgs. n. 152.
Per converso, la Direzione ministeriale, afferma che «l’art. 258, comma 2, D.lgs. 152/2006, non si limita a sanzionare la totale omissione del registro di carico e scarico, ma si estende, espressamente, anche ai casi in cui il citato registro risulta tenuto in modo incompleto ovvero in modo non conforme alla normativa vigente»: che vi sia una “estensione” «ai casi in cui il citato registro risulta tenuto in modo incompleto» e che tale estensione sia “espressa” nessuno ne ha mai dubitato, ma il passaggio dalla “incompletezza” alla “non conformità” mi risulta del tutto oscuro.
Già in varie altre occasioni ho censurato l’uso (e l’abuso) della congiunzione “ovvero”, che normalmente è un rafforzativo della congiunzione disgiuntiva “o”, nel senso di “oppure”, ma che può avere anche il significato esplicativo di “ossia”. Peraltro, qualunque sia in questo caso il significato da attribuire ad “ovvero”, nella sostanza poco cambia: con l’affermazione sopra riportata la Direzione ministeriale ha ravvisato una assolutamente improbabile equivalenza tra incompletezza e non conformità o l’estensibilità detta prima fino a coprire tutta la seconda.
In realtà non mi sembra che si possa negare che, se da un lato l’incompletezza può ben essere una non conformità, per certo non tutte le non conformità sono incompletezze. Conseguentemente non vedo come, a fronte di una norma – l’art. 258, comma 2 – che parla solo di «modo incompleto» (oltre che di totale omissione), ci si possa “allargare”, con un’estensione tutt’altro che espressa, fino a ricomprendere qualunque altra non conformità.
Certamente a tale risultato non si può pervenire sulla base del tenore letterale della norma e l’«espressamente» che si legge nel parere ministeriale risulta utilizzato del tutto a sproposito con riguardo alle non conformità in generale e a quella relativa al luogo di tenuta del registro in particolare.
Né meno inadeguate appaiono le motivazioni addotte per forzare l’interpretazione della norma oltre la lettera.
Secondo la Direzione ministeriale «La ratio [o meglio, per quanto si dice dopo: la finalità] della norma, prevedente la tenuta presso il luogo normativamente precisato, è [sarebbe] quella di consentire agli organi preposti al controllo, di svolgere un pronto ed efficace accertamento sulla correttezza delle annotazioni effettuate.».
Se così fosse, sarebbe assolutamente ragionevole e coerente l’osservazione che, come subito di seguito si legge nel parere ministeriale, «solo la presenza del registro di carico e scarico presso lo stabilimento può consentire all’organo di controllo di procedere alla verifica in tal senso, attività che implica la necessità di una pronta e non differibile esibizione per dimostrare la regolare tenuta del registro».
Ma dove starebbe scritto o comunque da dove sarebbe desumibile che la finalità della norma è quella ipotizzata nel parere ministeriale? nel medesimo parere non è assolutamente detto, né in qualche modo indicato. Viene solo apoditticamente affermato che questa sarebbe la “ratio” della norma perché è la «comune e condivisa» opinione.
Il fatto che sia un’opinione comune e condivisa, non significa che sia un’opinione corretta e non esime dal dimostrarne la fondatezza. Ed invece, senza alcuna allusione a Mozart, il ricorso al “così fan tutti” è molto più comodo e soprattutto deresponsabilizzante, ma spesso è anche sintomatico della più o meno consapevole assenza di argomentazioni a sostegno di quanto si dice e si fa.
In realtà anche se «comune e condivisa» non è affatto quella indicata nel parere ministeriale la “ratio” o la finalità della norma, come incontrovertibilmente si evince, al di là della sua pessima formulazione, dal primo periodo dell’ultimo comma dell’art. 258: «Le sanzioni di cui al presente articolo, conseguenti alla trasmissione o all’annotazione di dati incompleti o inesatti sono applicate solo nell’ipotesi in cui i dati siano rilevanti ai fini della tracciabilità, con esclusione degli errori materiali e violazioni formali.».
L’ho premesso: la norma non brilla certo per qualità letteraria – e sarebbe quanto mai opportuno che il legislatore italiano rimparasse a scrivere, non pretendo in stile manzoniano, ma almeno in modo da farsi capire senza creare equivoci e soprattutto senza dar adito a letture capziose –, ma, letta senza pregiudizi, mi sembra indiscutibile come da un lato individui nella tracciabilità l’obiettivo, quanto meno primario, dell’intero apparato di adempimenti documentativo-contabili costituito da “registi-formulari-MUD” – finalità evidentemente conseguibile anche senza velleitari tentativi di informatizzazione tipo SISTRI e RENTRI –, dall’altro – e comunque – sancisca l’irrilevanza delle violazioni solo formali.
D’altra parte, anche da un punto di vista sistematico risulta assolutamente irragionevole e sperequato, come si vorrebbe nel parere ministeriale, punire chi conserva il registro in luogo diverso da quello indicato dalla legge con la stessa pena prevista per chi il registro non lo tiene affatto, soprattutto se si considera che nell’ambito del medesimo sistema sanzionatorio è prevista un pena assai minore – da 260 a 1.550 euro contro quella da 2.000 a 10.000 a euro per l’omessa tenuta o compilazione incompleta o inesatta del registro, che sale da 10.000 a 30.000 se si tratta di rifiuti pericolosi – non solo «ove le informazioni, pur formalmente incomplete o inesatte, siano rinvenibili in forma corretta dai dati riportati nella comunicazione al catasto, nei registri cronologici di carico e scarico, nei formulari di identificazione dei rifiuti trasportati e nelle altre scritture contabili tenute per legge», vale a dire: qualora quanto riportato nel registro sia completabile o correggibile sulla base di altra documentazione prodotta dal soggetto obbligato (MUD, formulari, altre scritture prescritte dalla legge), ma anche «nei casi di (…) e di mancata conservazione dei registri».
Col che, seguendo l’opinione espressa nel parere ministeriale, si ha che per la violazione dell’obbligo di tenere il registro presso l’impianto ove i rifiuti sono prodotti, stoccati, recuperati o smaltiti, o presso la sede del trasportatore, del commerciante o dell’intermediario la sanzione è da 2.000 a 10.000 a euro, o addirittura da 10.000 a 30.000 se i rifiuti sono pericolosi, perché, secondo il Ministero, «solo la presenza del registro di carico e scarico presso lo stabilimento può consentire all’organo di controllo di procedere alla verifica in tal senso, attività che implica la necessità di una pronta e non differibile esibizione per dimostrare la regolare tenuta del registro», mentre per la violazione dell’obbligo di conservarlo per almeno tre anni (a tempo indeterminato, se relativo ad una discarica) la sanzione è solo da 260 a 1.550 euro, sanzione ridotta che si applica anche nel caso di registro incompleto o inesatto, ma completabile e correggibile sulla base di altri documenti – tra i quali non meglio precisate e quindi non delimitate «altre scritture contabili tenute per legge» non necessariamente detenute nel sito ove debbono trovarsi i registri – e quindi anche ove non sia assicurata la presunta «necessità di una pronta e non differibile esibizione».
Assolutamente incomprensibile mi risulta infine l’affermazione che «Il collegamento tra le due norme è [sarebbe] reso evidente (…) dall’utilizzo del medesimo verbo, il quale racchiude l’insieme dei comportamenti a cui sono sottoposti i soggetti interessati».
Se le «due norme» alle quali si riferisce il parere ministeriale sono il comma 10 dell’art. 190 e il comma 2 dell’art. 258 – e non sembra possa essere altrimenti –, il verbo in entrambe utilizzato è “tenere”. Se così è, mi sembra alquanto bizzarro che l’utilizzo dello stesso verbo, peraltro di plurimi significati (es.: tenere in mano una mela; tenere la destra guidando l’automobile; tenere una conferenza; tenere gli occhi chiusi; tenere a mente un appuntamento), possa essere ritenuto di per sé sufficiente per «racchiudere l’insieme dei comportamenti».
Nello specifico, premesso che “tenere” un registro significa “registrare” determinati fatti, accadimenti, documenti, oggetti, ecc., quando si dice che il registro deve essere “tenuto” in un determinato modo, che deve essere “tenuto” in un determinato luogo, che deve essere “tenuto” per un determinato tempo, che deve essere “tenuto” da determinate persone e “tenuto” a disposizione di determinate altre, si usa lo stesso verbo, ma per comportamenti alquanto diversi in cui elemento che li “racchiude” è il registro e non certo il verbo.
Del tutto inconsistente, quindi, mi pare anche quest’ultimo argomento addotto nel parere ministeriale per contraddire l’orientamento espresso dalla Cassazione nella sentenza n. 9132/2017.
Con tutto ciò non intendo certo affermare che non sussista l’obbligo di “tenere” fisicamente e materialmente i registri (o di renderli accessibili per via telematica) «presso ogni impianto di produzione, di stoccaggio, di recupero e di smaltimento di rifiuti, ovvero per le imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto e per i commercianti e gli intermediari, presso la sede operativa»: l’obbligo c’è e, come tutte le prescrizioni di legge, va comunque rispettato per dovere civico e non per il solo timore di incorrere in possibili sanzioni.
Intendo quindi stigmatizzare non tanto il contenuto, ma il metodo con il quale in questo caso – ma non è affatto l’unico – è stata affrontata la questione, essendo assolutamente evidente come nel percorso valutativo/decisionale sia assolutamente prevalso il risultato da raggiungere (ossia l’applicabilità della sanzione) rispetto all’adeguatezza, conferenza e pertinenza delle motivazioni di supporto, per non dire che prima si è deciso dove si voleva arrivare e poi ci si è arrampicati sugli specchi per (cercare di) arrivarci.
Marcello Franco – Venezia