Prime (principali) problematiche che emergono dalla caratteristica di pericolosita’ “H14” come introdotta nel d.lgs. 205/2010 e nel d.m. 27 settembre 2010: cenni

di Alberto Pierobon

 

 

Con il recepimento da parte del d.lgs. 3.12.2010, n. 205, della direttiva 2008/98/Ce ha trovato ora ingresso - tramite il nuovo allegato I alla parte IV del d.lgs. 152/2006 ss.mm. e ii. - la caratteristica di “pericolo per l’ambiente” (di cui alle classi “H” (1)), per il codice H14 “ecotossico” (2), dell’allegato III della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi (3).
Abbiamo quindi la necessità di valutare la pericolosità di un rifiuto anche agli effetti della classe di pericolosità “H14”.
Le norme per la classificazione dei rifiuti sembrano essere in contrasto con la richiamata (dal predetto allegato I, parte IV, del cit. d.lgs. 205/2010) direttiva 67/548/CEE (cosiddetta “etichettatura”), peraltro ora sostituita dal Regolamento 1272/08/CE (cosiddetta “CLP”) per le miscele, ovvero per preparati e composti (4).
Da una prima lettura sembra infatti che la classificazione della sostanza debba essere effettuata sia in base al criterio delle concentrazioni, sia in base alla direttiva “preparati”, facendo così coesistere questi due criteri, creando una grave confusione tra gli operatori del settore.
In tal senso una interpretazione “possibile” sarebbe quella di applicare per i rifiuti ivi indicati, la decisione 2000/532/CE istitutiva dell’elenco europeo dei rifiuti “CER” (in quanto ancora vigente) (5) e quindi i limiti di concentrazione previste per talune classi di pericolo, mentre per gli altri rifiuti potrebbe rinviarsi allo H14 (che nella suddetta decisione 2000/532/CE non ha “limiti”) da valutarsi come “preparato”.
Per meglio intenderci: il rifiuto non prescinde dalle sostanze, ma è un qualcosa di più complesso della loro semplice sommatoria, poiché nel processo di gestione il rifiuto le sostanze di partenza reagiscono tra di loro, con il che potremmo avere ulteriori sostanze e/o il rilascio di sostanze pericolose. Per limitarci ad un esempio, una vernice non è una sostanza, ma è considerata un composto o un preparato (e si chiamerà miscela) di “n” elementi, mentre un rifiuto di vernice è necessariamente diverso per quanto appena notato. Insomma, il rifiuto è obiettivamente più complesso della miscela di partenza. Quindi il riferirsi alla sola disciplina dell’etichettatura parrebbe essere limitativo, perché la decisione 2000/532/CE fornisce, per quanto appena considerato, ulteriori limiti rispetto alla direttiva 67/548/CEE.
Su questi aspetti, per quanto riguarda il d.m. 27 settembre 2010 “Definizione dei criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica, in sostituzione di quelli contenuti nel decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio 3 agosto 2005” (6), rivestono rilevante importanza gli allegati allo stesso, riferiti ai metodi di analisi, ai preparati per il campionamento, eccetera.  
Nel d.m. vengono stabiliti due metodi di cui alle norme “UNI”, i quali metodi nella loro applicazione sconvolgono l’attuale sistema organizzativo dei laboratori e degli operatori, comportando altresì (allorchè adottati) rilevanti oneri economici in capo ai soggetti obbligati.
Infatti, i criteri del cit. d.m. sembrano imporre per la loro efficacia, l’effettuazione di più analisi sullo stesso campione, inoltre si impone ai medesimi soggetti obbligati di comunicare tutti i dati e gli step parziali, certificando quindi tutte queste attività. Ne risulta che in queste moltiplicazioni di analisi, di certificazione e di ristrutturazione organizzativa, gli oneri sono rilevanti.
Più generalmente, poiché la metodica di applicazione della classe di pericolosità “H14” concerne molte tipologie di rifiuti si pongono problematiche operative (e prima ancora decisionali anche per i controllori e per gli autorizzatori) che riguardano, per esempio, le scorie da termodistruzione di rifiuti urbani, le scorie da acciaieria, taluni fanghi di depurazione di acque miste civili e industriali e così via.
Qualche operatore di impianti paventa che le scorie di acciaieria, prima qualificate come “inerti”, ora potrebbero essere considerate potenzialmente pericolose, salvo il ricorrere ad analisi evolute e costose che esaminino la dimensione delle particelle, eccetera (per esempio con la analisi difrattometrica, al microscopio elettronico a scansione o trasmissione) il che sembra porsi quale aggravamento ingiustificato in una attività aziendale, il che si esulcera nel rapporto (e nella competizione) con altre similari realtà comunitarie dove diversi (meno gravosi e meno complicati) sono i modus operandi e di controllo (pur essendo tutti sotto l’ombrello della nuova direttiva rifiuti).
Un altro elemento di preoccupazione deriva dal fatto che la normativa de qua, pur introducendo questo nuovo complicato scenario gestionale e di adempimenti, non ha previsto un periodo transitorio (o “ponte”) per l’adeguamento da parte degli operatori, limitandosi semplicemente ad abrogare (art. 11) la previgente normativa costituita dal d.m. 3.8.2005 e quindi creando obblighi “immediati”.
Vero è che dal punto di vista ambientale questa nuova disciplina sembra porsi in modo più corretto, però devesi osservare come siano stati alzati i limiti ambientali, che per gli impianti risultano essere meno restrittivi, con la conseguenza paradossale, tanto per fare un esempio, che essendo venuti meno i limiti stabiliti dal d.m. 25.10.1999, n. 471 (colonna 1B) per gli impianti di rifiuti inerti, questi impianti potrebbero ricevere i rifiuti con i limiti valevoli per gli impianti di rifiuti non pericolosi. Con una differenza di sostanza: gli impianti di trattamento dei rifiuti inerti solitamente hanno minori “difese” ambientali rispetto, per esempio, alle discariche dei rifiuti non pericolosi, le quali, invece, secondo la disciplina discariche debbono essere dotate di protezioni,seguire prescrizioni costruttive, eccetera.
Insomma, questo pressappochismo normativo sembra essere stato pensato sconoscendo la realtà gestionale (e le sue conseguenze in termini anche sociali ed economici) dei diversi impianti.
Rimane ferma, a nostro avviso, la possibilità per gli enti autorizzatori di adottare tutte le cautele e/o prescrizioni del caso in sede di adattamento, aggiornamento delle autorizzazioni in essere alla normativa di cui trattasi, evitando automatismi e/o applicazioni “piatte” della nuova disciplina, massimamente agitando superficialmente (non motivatamente), come ultima chance (o “barricata” giustificativa) il principio di precauzione, disconoscendone le sfumature (e i labirintici ragionamenti) ad esso sottesi (7).
Occorre, infine, evitare che si innesti (come pare essere in voga) una sorta di shopping autorizzativo, bensì che vengano, quanto prima, adottate chiare linee guida e di indirizzo da parte del Ministero, derivante da una lettura più concreta della disciplina e dei suoi effetti ambientali, economici e sociali.

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(1) Vedi l’allegato III, parte A e B della direttiva 99/45/CE.
(2) “sostanze e preparati che presentano o possono presentare rischi immediati o differiti per uno o più settori dell’ambiente”.
(3) In generale sulla questione,  che è divenuta incandescente per la classificazione dei rifiuti contenenti idrocarburi di cui ai pareri dell’Istituto Superiore della Sanità ai quali facevano riferimento provvedimenti ministeriali e del Presidente del Consiglio dei Ministri, si rinvia al capitolo (e aggiornamenti) contenuti nel volume A. Lucarelli-A-Pierobon (a cura di), Governo e gestione dei rifiuti. Idee,  percorsi, proposte, ESI, 2009.
(4) Che abroga la direttiva 689/1991/CE al quale si riferiva l’allegato D della parte IV del d.lgs. 152/2006.
(5) Ricordiamo che la decisione 532/2000 riguarda i rifiuti (non le sostanze) e rinvia per i rifiuti pericolosi al riferimento delle sostanze, quindi alla direttiva 67/548. La decisione fornisce le concentrazioni limite a seconda delle classi di pericolo dei rifiuti.
(6) Il d.m. 3 agosto 2005 recepiva la decisione del Consiglio del 19 dicembre 2002 che definiva le procedure, i criteri di ammissibilità e i relativi modelli di campionamento e di analisi, prevedendo varie decorrenze.
(7) Da ultimo (come traduzione e diffusione editoriale nazionale, in quanto pubblicato nel 2005) si veda con un approccio “anglosassone” Cass R. Sunstein, Il diritto della Paura, Bologna, 2010.