Cass. Sez. III n. 44836 del 8 ottobre 2018 (UP 6 feb 2018)
Pres. Cavallo Est. Di Nicola Ric. Attolini ed altri
Urbanistica.Consumazione della lottizzazione materiale

Il reato di lottizzazione abusiva è un reato di durata ed ha natura di reato progressivo nell’evento. Nondimeno, nella lottizzazione abusiva cosiddetta “materiale”, non sempre il reato si risolve e si consuma con la sola realizzazione di opere, in quanto la condotta lottizzatoria può perdurare ininterrottamente nel tempo, alla stessa stregua del reato permanente, allorché, indipendentemente dall’avvenuto completamento delle opere programmate ed eseguite, o da ulteriori condotte criminose del lottizzatore o di terzi, essa consenta, come nel caso in esame, l’uso o lo sfruttamento del territorio da parte di terzi, correlativamente impedendo o rendendo più difficoltoso la concreta fruizione del bene da parte della collettività, privata del verde pubblico e del servirsi dei parcheggi, secondo la destinazione impressa alla zona dalla pubblica amministrazione.
In tale caso, la situazione antigiuridica innescata dall’iniziale condotta lottizzatoria si protrae nel tempo in considerazione del perdurante attentato al bene giuridico protetto dall’incriminazione, con la conseguenza che anche il solo mantenimento della situazione contra ius è, in tal caso, sufficiente a perpetuare e ad approfondire l’offesa.


RITENUTO IN FATTO

1. Sergio Attolini e Claudio Cavallo ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Lecce ha confermato la pronuncia emessa dal tribunale di Brindisi con la quale i ricorrenti erano stati condannati alla pena di mesi tre di arresto ed euro 25.000 di ammenda ciascuno per il reato di lottizzazione abusiva (articoli 110 codice penale e 44, comma 1, lettera c), d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380) perché, in Ceglie Messapica fino al 20 febbraio 2013, Sergio Attolini (in qualità di responsabile pro-tempore del settore Assetto del Territorio-Urbanistica del Comune di Ceglie Messapica e firmatario del permesso di costruire n. 6673 del 21 dicembre 2010) e Claudio Cavallo (in qualità di responsabile pro-tempore dell’Ufficio Tecnico Comunale del citato comune, subentrato all’Attolini, e firmatario della variante in corso d’opera finalizzata alla posa di un impianto di trattamento per le acque di dilavamento del piazzale n. 6673/A del 15 giugno 2011, della comunicazione del 4 luglio 2011 di avvio del Centro di Raccolta Materiali, del certificato di agibilità del 13 luglio 2011), con condotte indipendenti ed in cooperazione e concorso tra loro, eseguivano su terreno di proprietà del Comune di Ceglie Messapica interventi edili consistiti nella realizzazione di un Centro Raccolta Materiali, da collocarsi necessariamente all’interno di un’area qualificabile quale servizio tecnologico a carattere territoriale, determinando una trasformazione urbanistica dell’area, così modificando l’originaria destinazione impressa in forza della previsione contenuta nel piano particolareggiato (approvato Con Delibera di Giunta Regionale n. 5474 del 30 giugno 1980) e modificata dalla variante al piano attuativo (adottata in sede comunale con delibera di Consiglio Comunale n. 8 del 16 febbraio 2009) a verde pubblico e/o parcheggi, struttura edilizia realizzata in assenza di legittimo permesso di costruire e comunque in difformità rispetto agli strumenti urbanistici generali e particolareggiati.
    
2. Per l’annullamento della gravata sentenza i ricorrenti, tramite i rispettivi difensori, articolano i seguenti motivi di impugnazione, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Sergio Attolini affida il gravame a tre motivi.
2.1.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’articolo 157 del codice (articolo 606, comma 1, lettera b), codice di procedura penale).
Sostiene che la gravata sentenza merita di essere censurata laddove ha confermato la sentenza di primo grado omettendo di dichiarare l’intervenuta prescrizione dei reati in contestazione.
Osserva che la imputazione, così come formulata, appare certamente fuorviante perché indica come data e luogo del reato “Accertato in Ceglie Messapica, fino al 20 febbraio 2013” ma, ad un’attenta lettura del medesimo capo di imputazione, si evince che il 4 luglio 2011 venne firmata la comunicazione di avvio del Centro di Raccolta Materiali e il 13 luglio 2011 fu rilasciato il certificato di agibilità del medesimo centro.
Tale dato documentale è, incontrovertibilmente, fatto proprio, tanto dalla sentenza di primo grado, quanto da quella di secondo grado.
 Ne consegue che alla data del 13 luglio 2011 il centro in oggetto non solo era operante ma aveva ottenuto anche l’agibilità, pertanto se ne deve desumere la integrale realizzazione del reato alla data indicata; con tutto ciò che consegue in tema di cessazione della permanenza e decorrenza del termine prescrizionale, come da indirizzi giurisprudenziali citati nel ricorso.
2.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione della legge penale e processuale nonché la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione su punti decisivi per il giudizio e devoluti con l’atto di appello (articolo 606, comma 1, lettere b), c) ed e) codice di procedura penale).
Rileva che, sotto altro profilo, l’impugnata sentenza avrebbe omesso di motivare compiutamente in ordine alle puntuali eccezioni mosse con l’atto di appello, riportato, a tal fine, nel corpo del ricorso.
Secondo il ricorrente, appare evidente come, in primo luogo, la Corte territoriale abbia insistito nel qualificare la zona in oggetto come area destinata a verde pubblico e parcheggi omettendo di considerare che più correttamente la zona era destinata ad insediamenti industriali ed artigianali.
Sotto altro profilo, la gravata sentenza ha ritenuto configurarsi la lottizzazione indipendentemente dal fatto che la zona fosse già adeguatamente strutturata perché il CRM aveva carattere e dimensioni ultracomunali.
Invero tale dato è stato smentito dalle prove assunte perché, in concreto, i comuni limitrofi si erano adeguatamente dotati di CRM come attestato dal CT di della difesa arch. Fuzio.
Inoltre, alcun rilievo è stato dato in sentenza al fatto che ci si trovava innanzi ad un opera di evidente interesse pubblico.
2.1.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e l’erronea applicazione della legge penale e processuale nonché la mancanza, la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione (articolo 606, comma 1, lettere b), c) ed e), codice di procedura penale), sul rilievo che il vaglio omesso sulle censure sollevate nei confronti della prima sentenza sminuisce anche la valenza accusatoria dei pochi elementi emersi nell’istruttoria dibattimentale.
Tanto deve essere preso in considerazione, ad avviso del ricorrente, al fine di valutare l'impossibilità di affermare la responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio con particolare riferimento alla sussistenza dell'elemento psicologico ed in particolare della buona fede dell’architetto Attolini.
Tale criterio costituisce inequivocabilmente un monito per l'interprete volto a garantire la tutela della presunzione di innocenza.
Onere che non può dirsi assolto se non quando ogni altra diversa ipotesi ricostruttiva del fatto, se confrontata con le prove acquisite nel giudizio appare non ragionevole, in quanto ha una probabilità insignificante di corrispondere alla realtà delle cose.
2.2. Claudio Cavallo affida il gravame a due motivi.
2.2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce l’erronea applicazione della legge penale con specifico riferimento alla ritenuta ricorrenza degli elementi costitutivi dell’ipotesi criminosa di cui all’articolo 44, comma 1, lettera c), d.P.R. 380 del 2001, nonché la mancanza e/o la contraddittorietà e/o la palese illogicità della motivazione (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale).
Sostiene che la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Lecce merita di essere censurata in quanto caratterizzata da una errata qualificazione giuridica del fatto sotto il profilo degli elementi costitutivi del reato di cui all’articolo 44 lettera c), del d.P.R. 380 del 2001.
La Corte territoriale, infatti, condividendo pienamente l'itinerario motivazionale della sentenza di primo grado, ha dimostrato di aver errato nel sussumere la condotta contestata nella fattispecie astratta descritta dalla individuata norma incriminatrice.
Alla base di siffatta valutazione sussisterebbe, ad avviso del ricorrente, un macroscopico travisamento della prova operato dal Giudice territoriale che di fatto inficia l’intero iter motivazionale.
Premesso che in tema di lottizzazione abusiva si  è inteso reprimere, non il semplice abusivismo edilizio ma, il più grave fatto consistente nella trasformazione edilizia od urbanistica di  terreni, in una zona non adeguatamente urbanizzata, ai fini della configurazione del reato de quo è necessario che si realizzino condotte materiali che conferiscano ad una porzione di territorio comunale un assetto differente e tale da poter determinare l’insediamento di abitanti o lo svolgimento di attività, con conseguente necessità di predisporre od integrare le opere di  urbanizzazione.
Dottrina e Giurisprudenza, infatti, sarebbero concordi nel ritenere che caratteristica indefettibile del fenomeno della lottizzazione risiede, proprio, nel disegno di conferire un nuovo assetto ad una porzione di territorio comunale ancora non inglobata nel contesto urbano, proposito che si perfeziona nella realizzazione di uno o più complessi edilizi di interesse privato con opere di urbanizzazione di interesse collettivo (strade, parcheggi, rete idrica e fognaria, ecc..) idonee a conferire tutte le necessarie infrastrutture per l’assetto definitivo di quella zona.
Se così è, l’esame attento e puntuale della pratica edilizia relativa alla realizzazione del Centro Raccolta Materiali sul terreno di proprietà comunale sito in agro di Ceglie Messapica nella Zona Industriale dimostra ampiamente come nel caso di specie manchino del tutto i presupposti essenziali costituenti l’elemento materiale del reato in contestazione.
Infatti, nel caso di specie, l’intera operazione non presenta affatto quelle caratteristiche, edilizie e/o urbanistiche, tali da creare una nuova porzione di tessuto urbano, utili a conferire un nuovo e diverso assetto a quella parte di territorio comunale, snaturandone l'originaria vocazione.
Occorre infatti evidenziare che l'intervento edilizio assentito con permesso di costruire n. 6673 del 21 dicembre 2010 è stato realizzato in un’area industriale già interamente urbanizzata, situata all'interno del perimetro urbano ed a suo tempo progettata e pianificata per consentire l’insediamento di unità produttive anche di dimensioni importanti e perciò già servita da ampie arterie stradali, dotate di pubblica illuminazione e munita di tutti i servizi, compresi gli allacciamenti alla rete idrica, elettrica e del gas.
Non vi è stata, pertanto, nessuna necessità di predisporre od integrare le opere di urbanizzazione mediante un piano attuativo in funzione della realizzazione del CRM.
Il Centro di Raccolta Materiali, infatti, è sorto come struttura temporalmente limitata alla durata novennale della concessione in essere tra l'ATO BR/2 e l’ATI Monteco - Cogeir Costruzioni e Gestioni S.r.l., con assunzione dell’ATI dell'espresso obbligo di riduzione in pristino dello stato dei luoghi al termine del rapporto contrattuale. Circostanza di non poco conto ove si consideri che per costante giurisprudenza affinché ricorra l’ipotesi di lottizzazione abusiva la trasformazione del territorio deve essere, oltre che significativa e radicale, anche definitiva.
Ne deriva, pertanto, che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, nel caso di specie non solo il carico insediativo non risultava assolutamente mutato a seguito del C.R.M., in quanto nessuna modifica era stata apportata alla viabilità e alle reti idriche, fognanti ed elettriche, che risultavano essere quelle preesistenti all’insediamento dell’opera, emergendo inoltre come l’opera stessa fosse temporanea e pertanto non avrebbe mai realizzato una trasformazione irreversibile del territorio.
2.2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’erronea applicazione dell’articolo 157 del codice penale, essendo intervenuta la prescrizione del reato prima della pronuncia di secondo grado (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale).
Si osserva che i Giudici d’appello hanno completamente omesso di dedurre e rilevare l’intervenuta prescrizione dei reati contestati.
Nessun dubbio, infatti, che entrambi i reati contestati (abusivismo edilizio e lottizzazione), alla luce di quelle che sono state le risultanze probatorie acquisite nel corso dell'attività istruttoria, già prima dell'udienza del 7 aprile 2017 innanzi alla Corte di appello di Lecce, risultavano abbondantemente estinti per decorso del tempo.
Da qui l’obbligo (nel caso concreto disatteso) per il Giudice procedente di riconoscerla ed applicarla perché la realizzazione del Centro di Raccolta Materiali, in virtù del permesso di costruire n. 6673/10 e della variante in corso d’opera n. 6673/A, alla data del 13 luglio 2011, risultava ultimata e senza che vi fossero in corso ulteriori interventi edilizi.
D'altra parte, in pari data, il Centro di Raccolta Materiali riceveva – all’esito della comunicazione di fine lavori e del parere favorevole rilasciato dall'ASL BR/1 in data 7 luglio 2011- il certificato di agibilità iniziando la propria attività.
Dunque, sulla base degli stessi elementi che il P.M. ha posto alla base della contestazione mossa all'odierno ricorrente è pacifico che almeno dal 13 luglio 2011 le opere edilizie risultavano ultimate e che al momento del sopralluogo operato dalla Guardia di Finanza non erano in corso ulteriori lavori edilizi.
Ciò significa che a fare data dal 13 luglio 2016 risulta decorso l’ordinario termine di prescrizione della contravvenzione edilizia, ma anche quello di lottizzazione abusiva posto che, come ampiamente riconosciuto dalla Corte territoriale, nessuna opera di urbanizzazione è stata posta in essere nella realizzazione del Centro di Raccolta Materiali che ha utilizzato le infrastrutture già presenti e realizzate sul lotto.

CONSIDERATO IN DIRITTO
    
1. I ricorsi non sono fondati sulla base delle seguenti considerazioni.

2. Il secondo ed il terzo motivo del ricorso Attolini ed il primo motivo del ricorso Cavallo, in quanto tra loro strettamente connessi, possono essere congiuntamente esaminati.
Essi sono infondati e, per come sarà più chiaro in seguito, anche parzialmente inammissibili.

3. Per rendersene conto, è opportuno preliminarmente sintetizzare il doppio e conforme ragionamento svolto dai Giudici del merito.
3.1. Il Tribunale di Brindisi, e la Corte di appello ha convalidato tale convincimento, ha ritenuto configurabile il reato di lottizzazione abusiva commesso dagli imputati per effetto della trasformazione del territorio determinata, anche in termini di carico urbanistico,  dall’insediamento di un centro Centro Raccolta Materiali, sul rilievo che l’intervento era stato eseguito in un’area urbanisticamente non compatibile, trattandosi di lotto ove era consentita solo la realizzazione di “verde pubblico e parcheggi”, con la conseguenza che, nel caso in esame, detto intervento era stato realizzato in contrasto con gli strumenti urbanistici, senza la preventiva approvazione di un piano di lottizzazione ovvero di un altro piano attuativo che si ponesse in linea con i piani urbanistici generali e non vi contrastasse.
3.2. La Corte di appello ha ricordato come l’Autorità per la Gestione dei rifiuti urbani nel bacino BR2 aveva previsto nel Capitolato prestazionale e disciplinare che fosse l’Autorità destinataria del servizio, e dunque il Comune di Ceglie Messapica, a mettere a disposizione i luoghi dove realizzare il Centro di Raccolta Materiali (CRM). Sennonché il contratto sottoscritto tra il Consorzio ATO BR/2 e la Società Monteco s.r.l. avente ad oggetto l’appalto della gestione dei rifiuti urbani avviati allo smaltimento e provenienti dai nove comuni facenti parte del consorzio stesso prevedeva termini perentori per individuare l’area da destinare a Centro Raccolta Materiali.
Pertanto, attraverso un complesso iter procedimentale amministrativo di cui ha dato atto la sentenza di primo grado, fu individuata dapprima l’area dell’ex depuratore in contrada Mesola e poi l’area in zona PIP alla Via del Lavoro.
In via genetica, gli atti amministrativi (delibera n. 250 del 2009 della Giunta Comunale e la nota 26 luglio 2010 della ATO BR/2), nell’individuare quale sito definitivo l’area in zona PIP Via del Lavoro, facevano salve tutte le procedure necessarie per conferire all’area in questione la destinazione urbanistica necessaria.
3.3. Senza che fossero completate le predette procedure, Sergio Attolini, responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale, rilasciò il permesso di costruire n.6673 del 21 dicembre 2010, relativo alla realizzazione del Centro di raccolta.
Dal testo della sentenza impugnata si apprende che ciò costituì il frutto di una iniziativa del tutto personale del ricorrente, giustificata (come il medesimo ebbe modo di riferire in sede di risposta all’interrogazione urgente di un Consigliere Comunale) dalla necessità di evitare richieste di danni per inadempimento contrattuale da parte dell’impresa (la Società Monteco), cosicché egli optò per la scelta di quell'area perché a suo giudizio più idonea e conseguentemente rilasciò un permesso, sempre a suo giudizio, provvisorio e temporaneo.
Successivamente seguirono le varianti in corso d’opera autorizzate dal Cavallo (nel frattempo subentrato all’Attolini) per l’ampliamento dell'impianto con la realizzazione di una fascia di metri 6 destinata all’installazione dell’impianto di trattamento delle acque di dilavamento del piazzale ed altro, fino al rilascio del certificato di agibilità, donde il coinvolgimento anche di tale secondo tecnico comunale nella vicenda amministrativa de qua.
3.4. Il Tribunale ritenne tutto ciò in contrasto con la normativa edilizia vigente nel Comune di Ceglie Messapica, perché non erano state osservate le procedure necessarie per conferire all’area in questione la destinazione urbanistica necessaria, come pure era stato inizialmente previsto, essendo il sito collocato in zona che il Piano Particolareggiato aveva destinato, nell’ambito dell'area di insediamenti industriali ed artigianali, a verde pubblico, ed inoltre la zona era stata oggetto di una variante di piano attuativo per essere destinata a parcheggi.
3.5. Messa al corrente dell’iniziativa, la Regione Puglia comunicò all’amministrazione comunale che l’area in questione – vuoi che  fosse destinata a verde pubblico o vuoi fosse destinata a parcheggi – non era conforme, così come individuata, alla normativa urbanistica vigente ed occorreva una variante del Piano Urbanistico da adottarsi dal consiglio comunale, chiarendo che la gestione dei rifiuti, in quanto servizio tecnologico a carattere territoriale, non poteva essere esercitata in spazi pubblici e destinati ad attività collettive, anche perché non riconducibile al servizio della stessa zona produttiva.

4. Passando ad esaminare compiutamente i rilievi che sono stati mossi nei confronti della sentenza impugnata, va innanzitutto chiarito come sia del tutto generico, oltre che manifestamente infondato, il profilo di doglianza  del primo motivo dl ricorso Attolini, secondo il quale il giudice di appello non avrebbe fornito risposta a tutti motivi devoluti con l’atto di impugnazione.
 Al riguardo, deve ritenersi che è inammissibile, per difetto di specificità, il motivo di ricorso per cassazione con cui si deduca la violazione di legge, per omessa motivazione, su un punto decisivo per il giudizio devoluto al giudice d’appello, se l’atto non procede alla specifica indicazione della doglianza devoluta e della sua rilevanza, avuto riguardo alle argomentazioni contenute nella motivazione a sostegno della decisione, in modo da prospettare che la censura, se esaminata, sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento.
Occorre infatti considerare che, qualora il giudice dell’impugnazione abbia omesso di motivare su una questione rilevante che gli è stata specificamente devoluta con i motivi di gravame, il ricorrente non può limitarsi genericamente ad affermare che il giudice d’appello sia incorso in un tale vizio, ma – tenuto conto dell’onere di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, imposto dall’articolo 581, comma 1, lettera c), codice di procedura penale – costituisce onere per la parte, che denunci il vizio di omessa motivazione, di fornire al giudice del gravame, con il ricorso per cassazione, gli elementi specifici dai quali si desume il particolare profilo devoluto e il corrispondente obbligo motivazionale che, in relazione ad esso, sia stato disatteso, dovendosi, in mancanza, ritenere la genericità del motivo di ricorso.
Nel caso di specie, il ricorrente ha eccepito che il giudice d’appello (il quale, a sua volta, aveva invece proceduto in sentenza a riepilogare specificamente i motivi di impugnazione devolutigli, esaminandoli compiutamente, e da ciò si ricava anche la manifesta infondatezza della censura) non ha risposto a tutte le doglianze sollevate ed ha trascritto, nel ricorso per cassazione, l’atto di appello, senza tuttavia indicare rispetto a quale precisa doglianza l’obbligo motivazionale sarebbe stato eluso e senza specificare le ragioni per le quali la censura, se esaminata, sarebbe stata suscettibile di accoglimento, fermo restando che, se trattasi di questione di diritto, all'omissione può porre rimedio, ai sensi dell’articolo 619 codice di procedura penale, la Corte di cassazione quale giudice di legittimità, con la conseguenza che il motivo di ricorso è in parte qua inammissibile anche perché generico.

5. Ciò posto, la Corte distrettuale ha ritenuto ininfluente, ai fini della configurazione del reato  di lottizzazione, che la zona fosse già destinata ad insediamenti industriali ed artigianali, stimando perciò irrilevante che detta zona fosse già adeguatamente strutturata, con la conseguenza che ciò non incideva sul giudizio di incompatibilità urbanistica tra gli interventi eseguiti, per realizzare il Centro di raccolta, e la destinazione urbanistica impressa alla zona dalla pubblica amministrazione.
Per altro verso, la Corte del merito ha ritenuto di alcuna rilevanza il fatto che l’intervento, realizzato in difformità dalla destinazione urbanistica della zona, fosse di interesse pubblico e che fosse o meno di carattere temporaneo.
5.1. In particolare,  con riferimento ai predetti punti, la Corte d’appello, con accertamento di fatto adeguatamente e logicamente motivato e pertanto insuscettibile di essere sindacato in sede di giudizio di legittimità, ha sottolineato come l’incompatibilità degli interventi con la destinazione urbanistica dell’area fosse talmente evidente da rendere necessaria, proprio in conseguenza dei rilievi mossi dalla Regione Puglia, la delibera del consiglio comunale di Ceglie Messapica del 29 novembre 2011.
A questo proposito, già nella fase cautelare, questa Sezione ha affermato il principio di diritto, che va qui ribadito ed al quale occorre dare continuità, secondo cui, ai fini dell’integrazione del reato di lottizzazione abusiva, deve ritenersi illegittimo un permesso di costruire avente ad oggetto l’esecuzione di opere diverse da quelle previste su un’area ricompresa in un piano di insediamento produttivo (PIP), se rilasciato in assenza di previa modifica del piano medesimo adottata dal competente consiglio comunale ed approvata dalla Regione (Sez. 3, n. 3649 del 03/12/2013, dep. 2014, Attolini, Rv. 257997).
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte ha affermato come fosse irrilevante la deliberazione assunta dal Consiglio comunale in data 29 novembre 2011, e dunque in momento successivo all’adozione dei provvedimenti adottati dai ricorrenti, sul rilievo che costituisce principio generale dell’ordinamento quello per il quale i provvedimenti autorizzatori e quelli adottati dal soggetto competente debbono precedere i provvedimenti attuativi o esecutivi assunti da un diverso organo amministrativo; questi ultimi, trovando legittimazione in fonte di rango superiore, non possono essere adottati in assenza dei primi o ponendosi in contrasto con essi. Ne consegue che, qualora si ritenga che solo una deliberazione consiliare possa derogare, integrare o modificare le previsioni del P.I.P., non vi è dubbio che tale deliberazione debba precedere l’adozione dei provvedimenti assessoriali o di giunta che operano in tal senso.
Più in dettaglio, è stato affermato, con la richiamata pronuncia, che l’insieme della disciplina del Piano di insediamento produttivo consente di riconoscere lo stretto legame esistente fra detto insediamento e le finalità di sostegno all’economia locale che lo sostengono, con la conseguenza che è in questo contesto che deve essere valutata la previsione circa la individuazione all’interno del P.I.P. di aree destinate a finalità pubbliche, che in qualche modo compensano i proprietari e la popolazione interessata rispetto alla concentrazione di attività produttive in unica zona. Da ciò la Corte regolatrice ha tratto argomento per spiegare la ragione per la quale il Piano in esame prevedesse l’esistenza di un’area destinata alla fruizione dei cittadini interessati dal Piano stesso (e non di tutti i cittadini del comune e del comprensorio), e cioè di un’area destinata a parcheggio e/o a verde pubblico.
Perciò, sulla base di tali presupposti normativi e dei principi interpretativi generali, è stato affermato che solo il Consiglio comunale può apportare modifiche al piano, spettando esclusivamente a tale organo di individuare specificamente le aree interessate dal P.I.P., atteso che non si tratta di una scelta meramente attuativa di opzioni generali già effettuate, ma di scelta che implica una vera e propria volizione che deve perciò coordinarsi con la pianificazione urbanistica, pur non esaurendosi in essa. Ne deriva pure che, in assenza di una modificazione di tale assetto realizzata mediante le necessarie procedure previste dalla legge, non possono considerarsi validamente emessi il permesso di costruire rilasciato il 21 dicembre 2010 e gli atti amministrativi successivi e conseguenti (Sez. 3, n. 3649 del 03/12/2013, dep. 2014, cit., in motiv.).
5.2. Su queste basi, la Corte del merito, nel rispondere ai rilievi devoluti con le impugnazioni, ha ribadito come dovesse ritenersi macroscopicamente incompatibile, con la disciplina urbanistica, che un’area – destinata a servizio, quale verde o altre finalità collettive, di una zona di insediamenti produttivi –  venisse, invece, adibita ad ospitare un Centro di raccolta di rifiuti, peraltro provenienti da un bacino di utenza di tipo consortile tra diversi comuni e con provvedimenti adottati dai tecnici comunali (ossia da entrambi i ricorrenti) che, quindi avevano assegnato all’area di sedime del Centro di raccolta una destinazione che prescindeva dallo spazio pubblico e dai servizi collettivi della zona di pertinenza.
Per questi motivi, quindi, la Corte d’appello, contrariamente a quanto opinato nei ricorsi, non ha mancato di sottolineare come non fosse assolutamente rilevante il fatto che il lotto individuato insistesse in zona PIP già adeguatamente strutturata (vie e quant’altro), sul fondamentale rilievo che anche in tal caso la dimensione ultra comunale della finalità diventava di per sé incompatibile con il carico urbanistico programmato anche in termini di incidenza di traffico e densità di servizi, non potendosi, in ogni caso,  ritenere che la necessità di predisporre o integrare le opere di urbanizzazione mediante piano attuativo in funzione della realizzazione del Centro di raccolta potesse essere valutata in via autonoma dal responsabile dell’Ufficio Tecnico, con ciò travalicando le competenze proprie del Consiglio comunale.
Quanto poi alla natura del permesso in questione, la Corte territoriale ha osservato come non potesse assumersi la precarietà dell’intervento, pure sostenuta dai ricorrenti, in considerazione dello stesso contenuto della concessione, che destinava per ben nove anni l’impianto in favore della società concessionaria del servizio di raccolta dei rifiuti.
Infine, la Corte leccese ha escluso la buona fede in entrambi i ricorrenti, sul corretto rilievo che – al di là dell’intento di favorire l’impresa concessionaria ovvero di perseguire l’interesse pubblico evitando che l’amministrazione fosse esposta ad un contenzioso per il ritardo nella messa a disposizione dell’impianto –  i due tecnici, in un caso o nell’altro, si erano mossi al di fuori delle loro specifiche competenze (occorreva la delibera del Consiglio comunale) ed in maniera perciò chiaramente illegittima, senza possibilità di errore incolpevole atteso il profilo di competenza specifica del quale gli stessi erano (o avrebbero dovuto essere) dotati.

6. Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte territoriale si è attenuta ai principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha precisato che il reato di lottizzazione abusiva è integrato da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata (Sez. 3, n. 37383 del 16/07/2013, Desimine, Rv. 256519).
Nella normativa urbanistica il fatto del lottizzare, in linea con la tutela dell’interesse cui la norma incriminatrice appresta protezione, si riferisce a qualsiasi fenomeno di urbanizzazione del territorio non programmato o diverso da quello programmato dall’ente pubblico territoriale e perciò include ogni momento o aspetto di tale fenomeno idoneo ad esteriorizzarlo e ad integrarne la realizzazione e che, nel reato di lottizzazione cd. materiale, si ha con l’inizio <<di opere che comportano trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali e regionali o senza la prescritta autorizzazione>> (articolo 30 d.P.R. n. 380 del 2001).
Per integrare il reato di lottizzazione abusiva, diversamente dal mero abuso edilizio, è dunque necessaria una illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del territorio, di consistenza tale da incidere in modo rilevante sull’assetto urbanistico della zona; ne consegue che il giudice deve verificare, nei singoli casi, se le opere ritenute abusive abbiano una valenza autonomamente punibile come mero abuso edilizio ai sensi dell’articolo 44, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, ovvero se esse siano idonee a conferire all’area un diverso assetto territoriale, con conseguente necessità di predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare quelle già esistenti, in tal modo sottraendo le relative scelte di pianificazione urbanistica agli organi competenti (Sez. 3, n. 44946 del 25/01/2017; Giacobone, Rv. 271788).
Una tale verifica, eseguita dal Giudice del merito, si risolve in un accertamento di fatto che, se adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, si sottrae al sindacato di legittimità.
Nel caso di specie, la Corte d’appello, con congrua motivazione, ha qualificato l’intervento come lottizzazione abusiva cd. “materiale” o fisica, in quanto consistito nella realizzazione di opere che, per caratteristiche e dimensioni, erano idonee a pregiudicare la riserva pubblica di programmazione territoriale, necessitando peraltro della preventiva delibera del Consiglio comunale da sottoporre al vaglio della Regione Puglia.
Secondo la Corte del merito, neppure rileva la circostanza che l’area appartenesse allo stesso ente comunale e che gli autori del reato fossero dipendenti del comune. Infatti, il reato di lottizzazione abusiva, al pari degli omologhi reati urbanistici ed edilizi il cui modello legale è tipizzato nel testo unico ex d.P.R. n. 380 del 2001, può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare gli obblighi imposti dalla legge o dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati,  e, quindi, dal proprietario, dal committente, dal titolare del permesso di costruire e da qualsiasi altro soggetto che abbia la disponibilità dell’immobile o dell’area su cui esso insiste, nonché da coloro, come il direttore e l’assuntore dei lavori, che abbiano esplicato attività tecnica ed iniziato le opere senza il doveroso controllo del rispetto degli adempimenti di legge.
Anche il rilievo circa l’eccepita precarietà dell’intervento è stato correttamente scrutinato dalla Corte d’appello, sul presupposto secondo cui, in materia edilizia, o si tratta di opere effettivamente precarie, che in quanto tali non richiedono alcun titolo abilitativo edilizio, o di opere non precarie, che richiedono il titolo abilitativo o interventi di programmazione urbanistica, non essendo normativamente concepibili autorizzazioni che consentano di realizzare nuove costruzioni in precario, per la fondamentale ragione che atti di assenso  del genere sono non soltanto “extra legem” ma soprattutto “contra legem”, in quanto consentono di tollerare, sia pure per un periodo transitorio (nel caso di specie, si trattava, poi, di un periodo di ben nove anni) una situazione d’evidente abuso urbanistico (Sez. 3, n. 15921 del 12/02/2009, Palombi, Rv. 243475).    

7. La Corte di appello ha, in definitiva, correttamente sussunto la fattispecie concreta nel reato di lottizzazione, con la conseguenza che, tenuto conto delle considerazioni in precedenza espresse, deve ritenersi del tutto assertiva e priva di fondamento la doglianza mossa dal ricorrente Cavallo secondo cui, nel caso di specie, l’intera operazione non presenterebbe affatto quelle caratteristiche, edilizie e/o urbanistiche, tali da creare una nuova porzione di tessuto urbano, utili a conferire un nuovo e diverso assetto a quella parte di territorio comunale, snaturandone l’originaria vocazione.
Del tutto fattuale e, quindi, non consentita è, infine, la censura secondo la quale il Centro di raccolta in questione non aveva carattere e dimensioni ultracomunali, in quanto i comuni limitrofi dovevano dotarsi e si erano dotati di un proprio Centro di raccolta, trattandosi di una affermazione che, irrilevante quanto alla prima parte, contrasta, nella seconda, con l’accertamento di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, del Giudice di merito, senza essere in linea con il principio di autosufficienza del ricorso, non emergendo dalla consulenza tecnica di parte, allegata al ricorso, quando i singoli comuni del consorzio si sarebbero dotati di un proprio centro di raccolta.

8. Il primo motivo del ricorso Attolini ed il secondo motivo del ricorso Cavallo sono inammissibili.
Con essi i ricorrenti eccepiscono, per la prima volta nel giudizio di cassazione, la prescrizione del reato, facendo decorrere la consumazione della contravvenzione dalla data che, secondo il loro assunto, coincide con l’ultimazione degli interventi edilizi nell’area lottizzata, attestati dal rilascio del certificato di agibilità (13 luglio 2011).
8.1. Va innanzitutto precisato come la giurisprudenza, ormai consolidata di questa Sezione, configura il reato di lottizzazione come reato progressivo nell’evento.
A tale  riguardo, occorre ricordare che, già a partire dalla fine degli anni ottanta, la giurisprudenza della Corte si è decisamente schierata nel ritenere configurabile il reato di lottizzazione abusiva anche quando l’attività posta in essere fosse successiva agli atti di frazionamento o ad opere già eseguite perché tali attività iniziali, pur integrando la figura di reato, non ne definivano l’iter criminoso che si perpetuava negli interventi che incidevano sull’assetto urbanistico, tanto sul presupposto che il reato in questione fosse, per un verso, un reato a carattere permanente e progressivo e, per altro verso, un reato a condotta libera, con la conseguenza che, in primo luogo, non si riscontrava alcuna coincidenza tra il momento in cui la condotta assumeva rilevanza penale e il momento di cessazione del reato, in quanto anche la condotta successiva alla commissione del reato poteva dare luogo ad una situazione antigiuridica di pari efficacia criminosa; in secondo luogo, dato che il reato di lottizzazione abusiva si realizzava anche mediante atti negoziali diretti al frazionamento della proprietà, con previsioni pattizie rivelatrici dell’attentato al potere programmatorio dell’autorità deputata al governo del territorio, ciò non significava che l’azione criminosa si esaurisse in questo tipo di condotta, perché la esecuzione ulteriore di opere di urbanizzazione primaria e secondaria comprometteva le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza statale o comunale (Sez. 3, n. 6970 del 04/05/1988, Antoniuccio, Rv. 178594).
Le Sezioni Unite Fogliani convalidarono espressamente tale ultimo orientamento (Sez. U, n. 4708 del 24 aprile 1992, Fogliani, in motiv.) e da allora in modo compatto la Corte ha sempre ritenuto e ribadito come la contravvenzione di lottizzazione abusiva configuri un reato progressivo nell’evento, che sussiste anche quando l’attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o ad opere già eseguite, atteso che tali iniziali attività, pur integrando la configurazione del reato, non esauriscono il percorso criminoso che si protrae con gli interventi successivi che incidono sull’assetto urbanistico, in quanto l’esecuzione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria compromette ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica (Sez. 3, n. 5105 del 13/2/2013, dep. 2014, non mass.; Sez. 3, n. 12772 del 28/02/2012, Tallarini, Rv. 252236; Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005, Stiffi, Rv. 232190).
Le ragioni di un tale condivisibile indirizzo fondano sul rilievo che il reato di lottizzazione non può rientrare, come pure è stato ritenuto, né nella categoria del reato istantaneo con effetti permanenti, in quanto si ha una successione di varie condotte, che si protraggono nel tempo e che sono strettamente collegate tra loro dal punto di vista finalistico e causale; né nella categoria del reato continuato, poiché non si ha, “a parte rei”, una pluralità di illeciti penali unificati dal medesimo disegno criminoso, quanto piuttosto una pluralità di condotte realizzate da soggetti diversi o dal medesimo soggetto senza che, in tale ultimo caso, si realizzi un concorso di reati (di lottizzazione) quanto piuttosto, come si vedrà, uno spostamento in avanti del momento consumativo del reato stesso e neppure nella categoria del reato eventualmente abituale poiché la reiterazione di condotte identiche oppure omogenee non è elemento costitutivo del reato di lottizzazione e tantomeno infine nella categoria, invero più congeniale, del reato permanente in senso stretto in quanto, dopo la introduzione dello stato antigiuridico, la condotta non è di solo mantenimento della situazione contra ius, ma eventualmente esecutiva attraverso il compimento di ulteriori azioni causalmente e finalisticamente collegate alle precedenti e dirette ad approfondire l’illecito lottizzatorio con aggravamento dell’offesa all’interesse penalmente tutelato.
Questa è la ragione per la quale si è ritenuto che il reato di lottizzazione fosse inquadrabile nel c.d. reato progressivo nell’evento (che è cosa ben diversa dal ritenere che la lottizzazione rientri nello schema del reato progressivo) in cui possono concorrere, nell’unicità della fattispecie incriminatrice, il momento negoziale, quello programmatorio mediante l’esecuzione di opere di urbanizzazione e quello attuativo con la costruzione degli edifici.
Ed infatti la condotta illegittima, pur nella sua unitarietà, può essere attuata in forme (il reato è a forma libera) e momenti diversi e da una pluralità di soggetti, in concorso fra loro (proprietari, costruttori, geometri, architetti, mediatori di vendita, notai, esecutori di opere, pubblici ufficiali o amministratori che, come nel caso in esame, hanno rilasciato titoli abilitativi ecc.) sicché correttamente si può configurare la figura del reato progressivo nell’evento lesivo dell’interesse urbanistico protetto.
Un riscontro normativo a detto orientamento si rinviene ora nel d.P.R. n. 380 del 2001, art. 30, comma 7, (in precedenza nella L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 18, comma 7) il quale prevede che l’ordinanza di sospensione da emettere da parte del dirigente o da parte del responsabile del competente ufficio comunale, qualora sia accertata l’effettuazione di una lottizzazione abusiva, debba essere notificata (proprio per evitare un successivo approfondimento dell’illecito) anche agli altri soggetti indicati dell’art. 29, comma 1, ossia, oltre ai proprietari delle aree, al titolare del premesso di costruire, se rilasciato, al committente ed al costruttore, sicché il momento di consumazione del reato si protrae, di regola, fino all’ultimazione dell’ultimo edificio programmato.
Ne consegue che l’illecito lottizzatorio si realizza (in altri termini, la consumazione ha inizio) allorquando sia al completo dei requisiti necessari e sufficienti per l’integrazione della fattispecie incriminatrice ed il momento consumativo perdura nel tempo sino a quando l’offesa tipica raggiunge, attraverso un passaggio graduale da uno stadio determinato ad un altro ad esso successivo, una sempre maggiore gravità, ed in ciò la lottizzazione, quale reato progressivo nell’evento, partecipa alla medesima disciplina del reato permanente, anche mutuandone ricadute giuridiche, e del quale ha in comune la struttura unitaria, l’instaurazione di uno stato antigiuridico ed il suo mantenimento ma ha in aggiunta un progressivo approfondimento dell’illecito attraverso condotte successive, anche commesse da terzi ma causalmente collegate al fatto proprio e colpevole dell’imputato, dirette ad aggravare l’evento del reato, atteso che gli interventi susseguenti incidono sull’assetto urbanistico, compromettendo ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica.
Una tale costruzione, che andrebbe approfondita in seno alla teoria generale del reato di durata, non merita perciò le critiche che le sono state mosse sul rilievo che essa, definita dal “sapore artigianale”, non risulti richiamata in alcuna trattazione di diritto penale.
La gravità dell’offesa può invero spostare, come la stessa dottrina ammette, il tempo del reato ed il diritto vivente, oltre al reato progressivo nell’evento, tipico dell’illecito lottizzatorio, ha enunciato le categorie del reato a duplice schema (Sez. 2, n. 38812 del 01/10/2008, Barreca, Rv. 241452) e del reato a consumazione prolungata o frazionata (Sez. 4, n. 17036 del 15/01/2009, Palermo, Rv. 243959) che rispondono alla medesima ratio (così, Sez. 3. n. 25182 del 13/06/2014, Durante, non mass.).
In passato, la giurisprudenza di legittimità aveva già espresso tali concetti quando ha affermato che lo stato di permanente consumazione della lottizzazione abusiva ha come momento iniziale quello in cui il piano lottizzatorio abusivo si estrinseca in un intervento materiale sul suolo, o negoziale rispetto al suolo, diretto a mutarne la originaria destinazione e a renderlo funzionale al progetto di edificazione frazionata e progressiva; ha come momento conclusivo quello in cui l’attuazione di tale progetto trova il suo completamento materiale e/o negoziale oppure subisce, per volontà del titolare del fondo o per intervento dell’autorità, un arresto o quanto meno un’interruzione. Ed invero, nell’arco di tempo corrente tra questi due momenti, la vicenda lottizzatoria si esplica nella sua portata continuativamente ed immanentemente lesiva dell’oggetto specifico di tutela penale urbanistica consistente nella riserva all’ente pubblico territoriale del potere d’indirizzare lo sviluppo urbanistico del territorio comunale (Sez. 3, n. 5868 del 01/03/1982, Parlapiano, Rv. 154207).
Come pure è stato sottolineato in dottrina, non è utile obiettare che il lottizzatore non sia necessariamente l’autore immediato della attività costruttiva ulteriore.
Difatti, il lottizzatore, promuovendo l’attività lottizzatoria iniziale, adotta una condotta il cui sviluppo teleologico ulteriore e prevedibile non può non identificarsi con l’effettuabilità dell’insediamento abusivo nella sua espansione concreta conseguente, comprensiva dell’uso.
La dottrina – che ha, a tal proposito, approfondito la questione e che ha trovato eco nella giurisprudenza di legittimità – ha rilevato come tale ulteriore elemento – che si risolve nella realizzazione di un evento (insediamento abusivo realizzato o in itinere o realizzato in tempi cronologicamente successivi come diretta conseguenza dell’intervento geneticamente programmato) ulteriore e progressivo rispetto a quello minimo richiesto per il perfezionamento del reato e che trae origine dalla condotta iniziale – trovi, pertanto, la propria causa oggettiva nella condotta predisponente e, in questa, trova anche il proprio riferimento psicologico effettivo, con la conseguenza che tali eventi ulteriori, identificabili nei termini concreti di attuazione nel tempo dell’insediamento abusivo, costituiscono momenti di progressiva e ontologica lesione dell’interesse protetto, da non poter essere confusi, per le caratteristiche oggettive e concorrenti, con gli effetti dannosi iterativi della fase iniziale del reato.
Ne consegue che il reato di lottizzazione abusiva è un reato di durata ed ha natura di reato progressivo nell’evento.
Nondimeno, nella lottizzazione abusiva cosiddetta “materiale”, non sempre il reato si risolve e si consuma con la sola realizzazione di opere, in quanto la condotta lottizzatoria può perdurare ininterrottamente nel tempo, alla stessa stregua del reato permanente, allorché, indipendentemente dall’avvenuto completamento delle opere programmate ed eseguite, o da ulteriori condotte criminose del lottizzatore o di terzi, essa consenta, come nel caso in esame, l’uso o lo sfruttamento del territorio da parte di terzi, correlativamente impedendo o rendendo più difficoltoso la concreta fruizione del bene da parte della collettività, privata del verde pubblico e del servirsi dei parcheggi, secondo la destinazione impressa alla zona dalla pubblica amministrazione.
In tale caso, la situazione antigiuridica innescata dall’iniziale condotta lottizzatoria si protrae nel tempo in considerazione del perdurante attentato al bene giuridico protetto dall’incriminazione, con la conseguenza che anche il solo mantenimento della situazione contra ius è, in tal caso, sufficiente a perpetuare e ad approfondire l’offesa.

8.2. Non può essere pertanto accolta la tesi dei ricorrenti che farebbero decorrere il termine di prescrizione, al più, dal rilascio del certificato di agibilità emesso dal ricorrente Cavallo, ritenendo il reato di lottizzazione consumato in data 13 luglio 2011, come se il compimento degli interventi programmati, eseguiti o in itinere e la stesa utilizzazione della zona per un Centro di raccolta materiali e non per verde pubblico e/o parcheggi fossero del tutto irrilevanti ai fini della perdurante lesione dell’interesse protetto e, quindi, della consumazione del reato.
L’accusa, che nell’imputazione ha fatto esplicito riferimento al certificato di agibilità del 13 luglio 2011, ha invece contestato, sia pure con una contestazione cosiddetta “chiusa”, il reato fino al 20 febbraio 2013, nel senso che l’evento lesivo è, in tesi, perdurato nel tempo sino ad una data precisamente individuata, quanto meno nel suo momento terminale.
Dal decreto di sequestro preventivo in atti, che la Corte è legittimata a consultare in considerazione della natura anche processuale dell’eccezione sollevata, risulta (fol. 3 del decreto) che il provvedimento cautelare è stato emanato, così arrestando l’iter criminis, in quanto le opere potevano essere portate ancora a conclusione e che quelle già realizzate, comunque suscettibili di confisca, determinavano una perdurante offesa al territorio anche solo per effetto della utilizzazione della costruzione abusiva, con la conseguenza che, nonostante il rilascio del certificato di agibilità, l’evento lottizzatorio doveva considerarsi in itinere.
Del resto, dallo stesso permesso di costruire del 21 dicembre 2010, allegato al ricorso Cavallo, si evince che gli interventi edilizi potevano essere eseguiti nel termine di 36 mesi.
Sul punto, come si è già detto, le parti, nel corso del giudizio di merito, non hanno proposto alcuna eccezione che, per la prima volta, è stata sollevata nel giudizio di legittimità, nel quale, ed è bene chiarirlo, è senza dubbio possibile dichiarare, anche d’ufficio, la prescrizione del reato.   
Tuttavia, il ricorrente che invochi nel giudizio di cassazione la prescrizione del reato, assumendo per la prima volta in questa sede che la data di consumazione è antecedente rispetto a quella contestata, ha l’onere di riscontrare le sue affermazioni fornendo elementi incontrovertibili, idonei da soli a confermare che il reato è stato consumato in data anteriore a quella contestata, e non smentiti né smentibili da altri elementi di prova acquisiti al processo (Sez. 4, n. 47744 del 10/09/2015, Acacia Scarpetti, Rv. 265330; Sez. 5, n. 46481 del 20/06/2014 Martinelli, Rv. 261525; Sez. 3, n. 796 del 29/11/2005, dep. 2006, Rossi, Rv. 233322).
I ricorrenti non hanno affatto fornito tali incontrovertibili elementi, facendo coincidere, erroneamente, il momento consumativo del reato con l’emanazione degli atti amministrativi (al più con il rilascio del certificato di agibilità).
Dal decreto di sequestro si ricava infatti che “le opere (...) possono, in assenza di alcun vincolo, essere portate a conclusione …” cosicché si rinvengono elementi addirittura di segno opposto che comunque non smentiscono la data di consumazione così come contestata e ritenuta nelle sentenze di merito, essendo la condotta criminosa stata interrotta solo a seguito del sequestro delle opere.
In aggiunta, nel caso di specie, la natura di reato progressivo nell’evento permette di ritenere che il certificato di agibilità, lungi dal costituire il momento consumativo del reato di lottizzazione, ne ha protratto la situazione antigiuridica, che doveva viceversa essere arrestata con il compimento di una condotta inversa rispetto a quella originaria, ed ha consentito, allo stesso modo del permesso di costruire e degli altri atti autorizzativi nel frattempo emanati, l’uso contra ius del territorio, sottratto alla collettività a vantaggio di un Centro di raccolta materiali e distratto ininterrottamente dalla vocazione che la pubblica amministrazione, con atti legittimi, aveva ad esso conferito e mai validamente modificato.

9. Sulla base delle precedenti considerazioni, i ricorsi vanno rigettati con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

    Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 06/02/2018