È da rimeditare l’acquisito concetto di momento di cessazione della condotta illecita nell’abuso edilizio
(nota a Cons. Stato, ad. pl. 14/2024)
di Massimo GRISANTI

Il 10 settembre 2012 la rivista telematica Lexambiente gentilmente ospitò il mio scritto intitolato “Non ultimare le opere edili nei termini prescritti da leggi, regolamenti e/o permesso di costruire è reato?” – sempre leggibile al link https://lexambiente.it/index.php/materie/urbanistica/dottrina184/urbansitica-mancata-ultimazione-delle-opere-nei-termini – ove, dopo aver riportato un fatto effettivamente avvenuto riguardante una nuova costruzione eretta in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e rimasta allo stato grezzo, concludevo così: “… è auspicabile, anche a tutela del patrimonio culturale, che gli addetti alla vigilanza urbanistico-edilizia, le forze di polizia e l’Autorità Giudiziaria penale considerino con la dovuta attenzione la fattispecie penale della mancata conclusione dei lavori nei termini e la conseguente applicazione della sanzione prevista dall’art. 44, comma 1, lett. a) del D.P.R. n. 380/2001”.
La questione che allora ponevo, la quale non conosceva precedenti scritti di approfondimento in dottrina e in diritto, non può, oggi, non esser riproposta alla luce della sentenza n. 14/2024 del Consiglio di Stato – resa nell’autorevole sede dell’adunanza plenaria, pubblicata il 30 luglio 2024 – nella speranza che, stavolta, trovi persone, ricoprenti incarichi pubblici, disposte a meditare sulla sua fondatezza o meno.
I Giudici di Palazzo Spada hanno affermato nei passi rilevanti della sentenza:
“… La sottoposizione del potere di edificazione al previo rilascio del permesso di costruire assolve alla funzione di consentire che gli interventi edilizi siano realizzati in conformità con la disciplina pianificatoria, contemperando l’interesse privato allo sfruttamento della proprietà con l’interesse pubblico alla regolare trasformazione edilizia e urbanistica del territorio e, quindi, in definitiva assolve alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio.
Il permesso di costruire non abilita, infatti, il titolare a realizzare qualunque manufatto, ma gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.) …
L’art. 31 del testo unico sanziona allo stesso modo le ipotesi di edificazione in assenza del permesso di costruire con le ipotesi dell’edificazione in totale difformità o con variazioni essenziali, provvedendo a disciplinare le singole fattispecie, equiparando la carenza del titolo edificatorio con la totale difformità del bene edificato con quello autorizzato.
La ‘totale difformità’ si verifica non solo in caso di ampliamento non autorizzato, ma anche nel caso di mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio.
Il permesso di costruire consente di realizzare solo l’opera descritta nel progetto e avente caratteristiche fisiche e funzionali ben determinate: l’abuso per totale difformità sussiste nel caso di realizzazione di “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche e planivolumetriche”.
Ciò è ravvisabile quando il manufatto sia stato parzialmente edificato con il cd. ‘scheletro’ e anche quando sia oggettivamente diverso rispetto a quello progettato, dovendosi un'opera qualificare abusiva per totale difformità ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non è riferibile a quella assentita.
Nei casi di ‘divergenza tra consentito e realizzato’ rientra il “non finito architettonico”, il quale è ravvisabile quando le opere realizzate sono incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da far individuare un manufatto diverso da quello autorizzato, oppure quando vi è stata la modifica dello stato dei luoghi con la realizzazione di un quid che neppure consenta di ravvisare un ‘volume’.
Ne consegue che, contrariamente a quanto dedotto dalle parti appellanti, sussiste il fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino - in caso di decadenza del permesso di costruire - qualora siano state eseguite solo opere parziali, non riconducibili al progetto approvato sotto il profilo strutturale e funzionale.
Se non sono completate, e neppure possono esserle, in quanto non può essere rilasciato un nuovo permesso di costruire, il mancato completamento – e cioè la cd opera incompiuta – comporta di per sé un degrado ambientale e paesaggistico.
In altri termini, rileva un principio di simmetria, per il quale, così come l’Amministrazione non può di certo rilasciare un permesso per realizzare uno ‘scheletro’ o parte di esso (titolo che di certo non è consentito dalla legislazione vigente) o una struttura di per sé non abitabile per assenza di solai o tamponature, scale o tetto o di elementi portanti, corrispondentemente l’Amministrazione deve ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire.
Non tutto quanto è stato lecitamente realizzato può dunque essere mantenuto in loco: va rimosso quanto è stato realizzato, in difformità (anche in minus) da quanto è stato assentito …”.
Partendo ancora una volta dall’insegnamento della Corte costituzionale reso nella sentenza n. 5/1980, a mente del quale “… l’avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici …”, il Consiglio di Stato ribadisce che non esistendo il diritto di deturpare l’ambiente tra il proprietario e la pubblica amministrazione mediante il rilascio del titolo abilitativo edilizio viene, in un certo qual modo, concluso un contratto col quale le parti convengono che il riconoscimento del diritto a edificare è condizionato all’ultimazione dell’opera nel tempo predeterminato. Il consenso della P.A. non sarebbe mai stato espresso per opere allo stato grezzo, cosicché non inverandosi la condizione esso è come se non fosse stato mai conseguito.
Ecco, quindi, che nel caso di mancata ultimazione dell’opera autorizzata nel termine fissato dal titolo edilizio, la condotta illecita dell’edificazione abusiva trasmuta da quella commissiva (collegata ai lavori) a quella omissiva (insorgente con la loro interruzione e la mancata rimozione dell’incompleto architettonico e/o strutturale) da farsi oggetto non solo di sanzione amministrativa ex art. 31 d.P.R. 380/2001 nei termini e secondo i criteri stabiliti dal Consiglio di Stato, ma anche di sanzione penale ex art. 44 TUE perché – come già statuito in precedenti sentenze (n. 5755/2019 e n. 4580/2017) e pareri (n. 2032/2019) dai Giudici di Palazzo Spada – il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato contraria” al quadro giuridico di riferimento.
La condotta omissiva di edificazione abusiva è caratterizzata da un termine prescrizionale che inizia a decorrere solo con il rilascio di un nuovo titolo edilizio per il completamento oppure con l’avvenuta demolizione e rimessa in pristino, rispetto alla quale l’ingiunzione ex art. 31 d.P.R. 380/2001 ha solo effetto acceleratorio in ragione della comminatoria dell’acquisizione dell’opera abusiva, del sedime e dell’area di pertinenza urbanistica al patrimonio comunale per il caso dell’inottemperanza (oltre alla sanzione pecuniaria ex art. 31, co. 4-bis che deve andare a coprire, almeno in parte, i costi di demolizione coatta). Condotta omissiva che non è punibile qualora la mancata ultimazione – expressis verbis, v. art. 15 TUE – dipenda da cause estranee alla volontà del concessionario – verificabili anche dall’autorità penale, in ispecie al fine di accertare se la P.A. concedente la proroga agisca secundum legem – e questi si adoperi, prima della scadenza, a chiedere la proroga del termine di conclusione dei lavori. 
Occorre tornare a dare serietà all’attività edilizia, la quale, siccome incide sui beni comuni e su valori costituzionali protetti, deve necessariamente essere programmata con rigore, sotto il profilo finanziario, da parte del richiedente il titolo abilitativo edilizio. Ed è quello che il legislatore ha previsto all’art. 15 TUE.
Del resto, la seria risposta al quesito postole, resa dall’Adunanza plenaria, è perfettamente in linea con il concetto di urbanistica fissato nell’art. 80 d.P.R. 616/1977 a mente del quale “Le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell’USO del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente”. E fino a quando una costruzione al grezzo impegna il territorio questo viene USATO in violazione della disciplina urbanistica, la quale impone che tutto sia ordinato e mantenuto tale.
Concludendo è sommamente auspicabile, alla luce della sentenza in commento, che la Suprema Corte di cassazione penale rimediti il sinora acquisito concetto di momento di cessazione della condotta illecita nell’abuso edilizio in chiave di protezione ambientale, di decoro urbano, di tutela del patrimonio culturale e di igiene dell’abitato.