Le trasformazioni nell’amministrazione dell’ambiente nel processo di unificazione europea, tra imperativi economici e tutele giuridiche differenziate. Forum sul tema

 

 

Sessione "Efficienza, trasparenza e modernizzazione della pubblica amministrazione nell’Unione europea"

mercoledi 12 giugno ore 15

Giampiero di Plinio

Università G. D’Annunzio - Pescara

 

Relazione

 

Le trasformazioni nell’amministrazione dell’ambiente nel processo di unificazione europea, tra imperativi economici e tutele giuridiche differenziate.

 

 

 

 

Sommario

 

Premessa. *

1. Comparazione e unificazione dei diritti ambientali. Dalle ideologie giuridiche al diritto vivente. *

2. Le mitologie della costituzionalizzazione e dell’unitarietà del diritto ambientale *

3. L’amministrativizzazione dell’ambiente nella costituzione materiale. *

4. L’effetto delle politiche ambientali sulle amministrazioni. Razionalizzazione del procedimento e autonomia delle strutture "tecniche". *

5. I fondamenti della politica ambientale della Comunità. Uniformizzazione dei diritti e strategia ambientale. *

6. Frammentazione del diritto dell’ambiente e pluralità di tutele ambientali: dal "command and control" all'autodisciplina del mercato. *

7. L’attuazione del diritto comunitario ambientale e le esigenze di modernizzazione nell’ordinamento italiano: i controlli ambientali tra inefficienza politico-amministrativa e razionalizzazione tecnica *

8. Segue: gli strumenti economici. *

9) Segue: le tutele volontarie *

10) Segue: la protezione integrale nei parchi e nelle riserve naturali *

 

 

Premessa.

 

L’approccio giuridico ambientale è un punto di osservazione privilegiato per analizzare le cause, individuare gli effetti e sviluppare ipotesi di valutazione della trasformazione e della convergenza dei sistemi giuridici europei, e segnatamente dei diritti amministrativi nazionali, nel quadro del processo di unificazione europea.

Nel diritto ambientale si trovano rappresentate tutte le figure e gli istituti che costituiscono, in varia misura, l’interfaccia di governo e di gestione tra i pubblici poteri e le attività economiche private, sia sul piano della configurazione degli attori del sistema, dagli organismi politico rappresentativi alle amministrazioni di settore, dalle autonomie territoriali agli organismi tecnici indipendenti, sia sul piano delle strumentazioni, dalle pianificazioni alle regolazioni amministrative, dalle tecniche di incentivazione-disincentivazione alle procedure di mediazione, dalle strumentazioni di diritto privato alle tecniche volontarie di autocontrollo.

D’altra parte in tutti gli ordinamenti il limite delle forme e dei contenuti del diritto ambientale è rappresentato dai condizionamenti invalicabili posti dalle matrici fondamentali del sistema industriale, costituenti un parametro uniforme e pressoché invariante di confronto fra gli stati europei, che rende direttamente praticabile, specie ai fini della valutazione degli effetti del diritto comunitario ambientale, la comparazione giuridica degli apparati e delle funzioni amministrative e in genere delle politiche ambientali. Questa impostazione necessita di alcuni approfondimenti.

 

1. Comparazione e unificazione dei diritti ambientali. Dalle ideologie giuridiche al diritto vivente.

Sarebbe completamente estraneo all’economia di questo lavoro procedere a uno studio più o meno dettagliato delle amministrazioni ambientali dei paesi membri della Comunità europea; tuttavia una rapida incursione nel metodo comparatistico consente di fissare con chiarezza alcune premesse e impostazioni metodologiche, e di valutare alcune linee di tendenza.

Vi è in primo luogo una componente teleologica ineludibile. Tra le finalità del processo scientifico di comparazione giuridica in generale, e, in specie, delle normazioni ambientali, oltre quelle di conoscenza, di verifica, di ausilio interpretativo e di riforma legislativa, viene in forte rilievo quella di armonizzazione e unificazione dei diritti; e se, in prospettiva, l'unificazione internazionale del diritto non sembra più tanto una chimera e tende a divenire funzione ed obiettivo primario della comparazione, la progressione comunitaria nel diritto ambientale ne è una splendida applicazione.

Si deve tuttavia rilevare come la metodologia comparativa, specie in materia giuridico-ambientale, se applicata in modo formalistico ha scarso valore scientifico, e può condurre a risultati inattendibili e impropri; spesso, infatti, si dimentica che "prima di tutto occorre liberare il terreno dalle false somiglianze, che spesso non sono che delle omonimie. E ve ne sono delle insidiose". Questo ordine di difficoltà è presente in varie forme nello studio comparato del diritto; l'ordinamento giuridico non è un mero insieme formale di proposizioni normative e la conoscenza di una istituzione giuridica straniera non si raggiunge con la semplice traduzione linguistica dei testi normativi che la disciplinano; inoltre, è un grave errore limitarsi alla interpretazione di quelle norme utilizzando i concetti, le nozioni, le categorie elaborate per il nostro diritto, senza le necessarie precauzioni.

Soprattutto, è vitale l'indagine sul ruolo concreto degli istituti realmente vigenti dei diritti nazionali, al fine di verificare l'effettività delle espressioni formali contenute nei documenti e nei testi normativi. A questo riguardo appare ineludibile la distinzione tra diritto apparente, inteso come immagine astratta risultante dalle fonti formali (law in the books), e diritto vivente, generato dai modelli organizzativi e funzionali delle prassi costituzionali, amministrative, commerciali (law in action). Il movimento teorico del diritto comparato ha evidenziato con molta anticipazione questi problemi, e ciò si spiega con la caratteristica propria del metodo comparativo, che costringe lo studioso a uscire dagli schemi formali, a superare ogni paravento, e rinunciare alle mitologie giuridiche, perché egli deve tener d'occhio le omogeneità reali tra gli istituti da comparare .

Una razionale indagine in ordine agli effetti del diritto comunitario sulle legislazioni ambientali nazionali deve essere svolta alla luce delle precedenti considerazioni.

Sotto questo aspetto, la comparazione deve indubbiamente aver presenti non solo i vestiti formali degli ordinamenti giuridici a confronto ma, soprattutto nel campo delle discipline pubblicistiche, la dinamica reale delle istituzioni ‘viventi’. E tale dinamica, nei modelli costituzionali di protezione ambientale effettivamente vigenti, tende a essere molto più uniforme di quanto le differenze istituzionali formali tra gli ordinamenti facciano supporre.

Così posta la questione, risulta inoltre fortemente sminuito l’effetto della vigenza, più mitologica che reale, delle due grandi famiglie giuridiche (Europa continentale e common law). I due sistemi, specie dal punto di vista della evoluzione delle discipline giuridiche della struttura e della azione dei pubblici poteri, tendono a convergere verso schemi tipizzabili unitariamente sul piano sostanziale. In particolare tutti i diritti ambientali dei paesi della Comunità, in quanto organizzati e modellati sulle strutture invarianti delle economie industriali, risultano condizionati da alcuni identici presupposti che ne conformano gli elementi essenziali, lasciando spazio solo a differenziazioni marginali, in genere formali, e talora anche di sostanza ma sempre all’interno di una fascia di variazione più o meno ristretta.

La ricerca di queste invarianti è indispensabile al fine di valutare l’effetto della modernizzazione indotta dalla politica comunitaria ambientale sugli ordinamenti giuridici nazionali, in particolare sull’ordinamento italiano.

2. Le mitologie della costituzionalizzazione e dell’unitarietà del diritto ambientale

Non sembra che le costanti interpretative alle quali si riferisce la presente indagine possano essere individuate nelle mitologie della costituzionalizzazione e dell’unitarietà del diritto ambientale. Uno dei limiti più evidenti della dottrina giuridica ambientalista "radicale" è che spesso essa lavora sul diritto astratto, sulle disposizioni formali piuttosto che sulle norme imperative del diritto vivente. È pura ideologia giuridica ambientale quella secondo cui il diritto dell’ambiente dovrebbe essere interpretato in modo unitario e fondato da norme costituzionali apposite, e che il valore ambientale dovrebbe prevalere su tutti gli altri valori costituzionali, così come è ideologica la posizione di chi muove documenti giuridici formali, cioè delle mere disposizioni normative, specie a livello costituzionale, per concludere con eccessiva precipitazione che le tendenze ordinamentali si sviluppano verso una valorizzazione dell’interesse ambientale.

Non si può affermare con certezza che una disciplina "soddisfacente" (cioè una protezione ambientale elevata) sarebbe raggiungibile attraverso un modello giuridico unitario, che si fondi su una normazione organica e integrata della "materia ambientale" e "conseguentemente consenta l’individuazione di canoni ermeneutici precisi in base ai quali potere ispirare la ricostruzione del significato giuridicamente rilevante di ambiente". In realtà non vi è nessuna garanzia che un grado più elevato di protezione sia perseguito di fatto in ordinamenti che contengano normazioni ambientali unitarie, né vi è alcun serio motivo per ritenere che una disciplina unitaria dell’ambiente sia effettivamente razionale, cioè possibile negli ordinamenti degli stati industriali, in rapporto ai modelli giuridici effettivi e necessari in cui questi configurano i cicli produttivi e distributivi. Inoltre, risulta giuridicamente indeterminato il concetto di "materia ambientale", che probabilmente è anche indeterminabile, in quanto attinente a tutte le attività umane; cosicché l’unitarietà del diritto ambientale verrebbe a riconfigurare l’intero diritto dell’economia, e a sostituire ai principi materiali di quest’ultimo una rete di regole appartenenti a un altro piano di razionalità, più giusnaturalistico che positivo.

In questa prospettiva la stessa idea di costituzionalizzazione formale dell’ambiente rischia di avere un valore ideologico, e presenta difficoltà logiche e procedimentali insormontabili nel momento della sua concreta realizzazione; problemi di questo tipo caratterizzano la tesi secondo cui, a livello costituzionale formale, "ha poco senso affermare solo un diritto di fruizione dell’ambiente. Occorre affermare anche un diritto di appartenenza collettiva".

Ora, anche immaginando introdotto in costituzione il dogma della appartenenza collettiva, non vedo con quali altre strumentazioni diverse dalla legge, dalla amministrazione, dalla sentenza e dal contratto il regime di appartenenza collettiva possa essere reso concreto e trasfuso nel diritto vivente; in altre parole il problema sarà minuziosamente identico alla situazione in cui un diritto all’ambiente come regime di appartenenza non sia costituzionalizzato, perché si dovrà sempre indicare chi produce, che cosa produrre, come produrre e dunque l’appartenenza collettiva dovrà essere comunque istituzionalizzata e soggettivizzata in un potere pubblico o privato decidente, che può essere l’impresa, o l’elettorato attivo in un referendum, o un ministero, o una conferenza di servizi, o un giudice costituzionale, o una comunità sovranazionale. Ora, questo è esattamente quanto succede attualmente, anche senza costituzionalizzazione dell’ambiente, perché il limite della legge, della sentenza costituzionale, dell’amministrazione e del contratto in materia ambientale non è costituito dalla misera formulazione dell’articolo 32 o dell’articolo 9 della costituzione italiana, ma è direttamente posto in forma materiale dalle condizioni sociali, economiche e tecniche del livello di sviluppo. In pratica ciò significa che non esiste un diritto naturale dell’ambiente, anche perché non ha fondamento logico, né scientifico, cioè non esiste, un diritto naturale tout court.

In secondo luogo, il processo di unificazione dei diritti ambientali, in parte innescato e comunque accelerato dall’intervento comunitario, non implica affatto l’unitarietà della disciplina giuridica ambientale e neppure un grado di protezione più elevato. Questo è un altro problema, che attiene alle tecniche giuridiche di conformazione del ciclo economico, in rapporto al tipo e al grado di sviluppo produttivo e tecnologico, alla configurazione del sistema politico, al livello culturale, alla tipologia dei consumi, alla efficienza delle pubbliche amministrazioni, e in genere a elementi incidenti sul diritto vivente. Una costituzione che contenga una formulazione onnicomprensiva e integrata (come ad esempio quella portoghese del 1976, quella turca del 1982, quella polacca del 1952, o quella jugoslava del 1974) può tranquillamente coniugarsi con un diritto vivente molto meno rispettoso dell’ambiente di altri ordinamenti a in cui la tutela costituzionale non esiste affatto, o è frammentata in varie disposizioni: e la legge generale statunitense sulla politica ambientale, in cui è sancito che "il Congresso riconosce che ogni persona dovrà fruire di un ambiente sano e che ciascuno ha il dovere di contribuire alla preservazione e al miglioramento dell’ambiente", non ha impedito che anche in questo Paese si sia verificata una diffusa e violenta aggressione ambientale, né ha modificato il comportamento referendario dei cittadini americani, di cui è nota la tendenza a "bocciare" provvedimenti di tutela dell'ambiente ritenuti troppo "costosi".

 

3. L’amministrativizzazione dell’ambiente nella costituzione materiale.

In definitiva occorre muovere dal rilievo che le norme costituzionali formali, in particolare le disposizioni di principio in materie "ambientali", in sé considerate, hanno in generale un bassissimo valore descrittivo e prescrittivo, e la costituzione italiana è una autorevole esemplificazione di questa realtà, per cui l’analisi va condotta sui modelli materiali del diritto pubblico, dei quali occorre individuare le invarianti, intese non solo come caratteristiche identiche o comunque assimilabili, ma soprattutto come dati di sistema, principi intimi e incontrovertibili, condizionanti gli ordinamenti, e in particolare i diritti amministrativi, e non condizionabili dalla soggettività del giudice, dell’amministrazione, del legislatore.

Il dato invariante, nella suddetta accezione, delle costituzioni materiali degli stati contemporanei può essere individuato nel principio della supremazia delle basi economiche del sistema industriale e del mercato come valori costituzionali e della conseguente necessità di ponderazione della protezione degli interessi ambientali sulla base della unità di misura rappresentata dal rapporto tra il grado di sviluppo economico e il corrispondente grado di protezione sostenibile, considerato il livello della tecnologia utilizzabile; in altre e più sintetiche parole la protezione dell’ambiente è possibile solo in quanto essa non comprometta le matrici economiche e tecnologiche del sistema industriale. Ciò significa che è l’impresa il principale fattore di riferimento e la principale unità di misura della costituzione materiale ambientale; ciò significa anche che un certo grado di aggressione ambientale è comunque ineluttabile.

I diritti (intesi come diritti oggettivi dei vari stati industriali) ambientali si sono strutturati intorno a questo dato, e spesso, invece di assumere la funzione di proteggere l’ambiente dall’economia, hanno svolto quella esattamente inversa, di tutela e garanzia della produzione e del mercato dalla minaccia di arresti produttivi o di inaccettabili riduzioni dei tassi di profitto e dei livelli occupazionali, derivanti dai vari centri di potere (in particolare la magistratura) e dai gruppi di pressione in cui di volta in volta si sono materializzati gli interessi ambientali.

Esemplari a questo proposito sono gli sviluppi delle politiche legislative sull’inquinamento delle acque, tra le quali una delle più significative è quella italiana; in questa situazione l’elemento di rottura degli equilibri del sistema fu la giurisprudenza pretoria "d’assalto", la quale, in assenza di un diritto speciale di tutela delle acque dalle immissioni delle industrie, si era avviata a costruire un diritto (penale) vivente dell’ambiente orientato sulla valutazione discrezionale del giudice sui limiti dell’attività d’impresa; il sistema politico-economico ritenne inaccettabile l’esistenza di questo dominio assoluto del giudice sull’economia, e produsse un meccanismo di predeterminazione normativa e di valutazione amministrativa della nozione di inquinamento. La legge n. 319 del 1976 (la "famosa" legge Merli) contiene da un lato una amnistia larvata per gli industriali incriminati dai giudici di merito, e dall’altro una forma di legittimazione normativa dell’inquinamento stesso, perché non vieta integralmente l’uso industriale dell’acqua come recettore di scarichi, ma ne disciplina tecnicamente gli aspetti, introducendo i livelli-limite, cioè gli standard, i quali non sono altro che l’interfaccia tecnologica del principio di ineluttabilità dell’inquinamento nella società industriale. Il solo problema è quello della razionalizzazione dei complessi e molteplici fattori in gioco, e viene risolto attraverso la più classica delle tecniche giuridiche dello stato di diritto: la predeterminazione legale dei limiti all’impresa, che implica a sua volta l’amministrativizzazione del procedimento di controllo e la conseguente sottrazione delle imprese "in regola" dal dominio integrale della funzione giurisdizionale. Lo standard assume così la funzione di strumento pedagogico attraverso cui la società economica insegna al giudice quali sono i suoi limiti di intervento contro le imprese che inquinano, di cui dà la definizione, affidandone le relative determinazioni a uffici e organismi amministrativi di controllo e certificazione. Questo modello si è diffuso rapidamente in tutti i settori di interesse ambientale, con la conseguenza di una spinta molto forte alla creazione di nuove amministrazioni o alla riorganizzazione di amministrazioni esistenti.

In tutti i casi peraltro ci si accorge che l'imposizione di vincoli generalizzati non può (si noti che non ho scritto non deve) spingersi oltre il limite di riproduzione del sistema economico, pena semplicemente la distruzione della civiltà industriale: ciò significa che un vincolo può essere imposto solo se rientra nei margini di elasticità del ciclo produttivo, in relazione a un livello dato di sviluppo della tecnica; è pertanto il sistema produttivo che si sceglie i suoi vincoli in funzione della protezione di interessi latu sensu ambientali.

Il mercato si riappropria del diritto di definire i presupposti e le modalità attraverso cui comporre la protezione dell'ambiente con la razionalità economica, mediante la valutazione dei costi ambientali della produzione e della distribuzione e la loro riconduzione all'interno del processo produttivo. La configurazione è comunque un dato, un sistema produttivo sulla cui necessità materiale di uso economico delle risorse ambientali non si può discutere, ma per il quale si tenta di ridefinire alcune delle regole del gioco. L'obiettivo più qualificante è naturalmente quello di rendere il più bassi possibile i costi ambientali, e, comunque, equa la loro ripartizione, sulla base dei margini e del peso specifico delle scelte operate dai soggetti sociali e istituzionali del circuito produzione - consumo - istituzioni - società, in modo da ottenere la massimizzazione del consenso sul tipo e sulle modalità dell'aggressione all'ambiente.

Se le considerazioni svolte sono fondate, la nascita e lo sviluppo di interessi pubblici ambientali in amministrazioni preesistenti o la creazione di nuove amministrazioni speciali vanno lette come effetto del processo di difesa della supremazia degli interessi economici organizzati dall’azione disgregatrice e nichilista dell’interesse ambientale puro: dal settore della tutela del paesaggio, alla tutela delle acque, dalla difesa del mare ai rifiuti solidi urbani, dalla tutela del suolo alla valutazione di impatto ambientale i nuovi modelli di amministrazione sono stati sempre ricondotti all’interno di una forma comparativa di valutazione degli interessi ambientali, nel senso che le risposte dei sistemi politici alle pressioni ambientaliste si sono necessariamente andate configurando come razionalizzazione di queste all’interno dei processi decisionali pubblici, attraverso modificazioni degli apparati di mediazione. L’interesse ambientale si è solo affiancato e non sovrapposto all’interesse pubblico allo sviluppo economico, e quest’ultimo è stato riorganizzato, in modo da assorbire l’impatto sovversivo dell’ambientalismo radicale incanalandolo in strutture e procedure finalizzate, con varia modulazione a seconda del tipo di ordinamento, a contemperarlo con la difesa dei livelli produttivi.

 

4. L’effetto delle politiche ambientali sulle amministrazioni. Razionalizzazione del procedimento e autonomia delle strutture "tecniche".

In dettaglio, l’effetto delle politiche ambientali sulle amministrazioni si dispiega in modi strettamente interconnessi sul piano strutturale e su quello funzionale.

In primo luogo si verificano forme di riorganizzazione interna delle pubbliche amministrazioni e dei procedimenti attuativi della loro funzione in quanto gli interessi ambientali emergenti vanno coordinati e valutati comparativamente con gli interessi pubblici istituzionali realizzati da ciascuna amministrazione; il fenomeno per la verità è più generale e si configura come una evoluzione dei processi decisionali amministrativi da un modello unilaterale verso meccanismi tendenzialmente negoziali di coordinamento plurifunzionale.

Indubbiamente incide su queste trasformazioni la crisi del principio di legalità formale e la corrispondente tendenza alla delegificazione, specie per quanto attiene alla mitologia della precostituzione dell’interesse pubblico nell’azione amministrativa, con la conseguente emersione delle fasi del procedimento in cui l’interesse pubblico viene ad essere concretizzato; incide inoltre il processo di ristrutturazione delle funzioni amministrative secondo modelli di efficienza e competenza tecnico-scientifica, con la connessa separazione tra amministrazione e politica, e in dettaglio, la comparsa e il consolidamento di organismi ad alta qualificazione tecnica, costruiti come autonomi e indipendenti dalle istituzioni amministrative a derivazione politica, e in genere anche dai vertici burocratici delle amministrazioni.

Questa doppia caratteristica di valorizzazione del procedimento e di riorganizzazione in chiave tecnica dell’amministrazione è sostanzialmente presente, anche se con variabilità di forma e con diverso grado di incidenza, in tutti gli ordinamenti degli stati industriali; una ipotesi di spiegazione dovrebbe essere affidata alle determinanti già descritte del diritto ambientale, cioè alla invariante strutturale secondo la quale il diritto dell’ambiente è, in forma diretta o mediata, diritto della economia, e quest’ultima accetta solo i limiti che sono compatibili con la sua matrice socioeconomica fondamentale. La problematica giuridica ambientale è stata così ineluttabilmente inquadrata nel piano della razionalità economica, e l’aspirazione a un assetto rivoluzionario nell’uso delle risorse ambientali è sempre più cristallizzato dagli ordinamenti giuridici in modelli di mediazione tecnica, il cui perfezionamento costituisce il massimo grado di protezione degli interessi ambientali che un sistema economico industriale può garantire nel breve e medio periodo senza che ne risulti sconvolta la sua intima struttura e la sua capacità di sostenere i livelli qualitativi e quantitativi di esistenza di una umanità troppo numerosa.

Si tratta comunque di un aspetto della tendenza più generale nelle società postindustriali a favorire e in un certo senso imporre la dislocazione delle sedi di composizione degli interessi pubblici, tra di loro e con quelli di altra natura, in particolare quelli attinenti al mercato, dalle strutture politiche verso organismi in cui sono presenti alte specializzazioni tecniche e scientifiche ed un forte grado di neutralità ed indipendenza rispetto ai poteri politici, anche per la sempre più marcata propensione dei soggetti privati e delle formazioni sociali ed economiche per forme di mediazione tecnica che non siano discontinue e inaffidabili; in altre parole i soggetti economici sembrano oggi disposti a rinunciare al "profitto" sotterraneo della contrattazione politica in favore della maggiore certezza dei parametri decisionali pubblici, e del conseguente salto qualitativo in termini di precisione ed efficienza, derivabili dal ruolo di mediazione delle strutture tecniche. In tale prospettiva la determinazione degli esatti confini di compatibilità della decisione amministrativa con gli equilibri fondamentali del mercato nella conformazione comunitaria, dovrà necessariamente passare attraverso valutazioni tecniche, operate da uffici e organizzazioni che legano la loro professionalità e le loro fortune proprio alla correttezza ed alla stabilità di parametrazione di quelle valutazioni, che per essi sono oggetto di lavoro e ricerca, e non unità di scambio politico-rappresentativo.

Il processo che porta dalla soluzione politica alla valutazione tecnica dei problemi ambientali si inquadra nella trasformazione degli ordinamenti amministrativi nazionali, che ha avuto un forte e primario impulso, e un particolare sviluppo, nella azione della Comunità europea.

In termini generali, la penetrazione nei sistemi amministrativi nazionali dei valori giuridici dell’ordinamento comunitario, in sinergia con la crisi dello stato sociale e dell’intervento pubblico nell’economia, e la conseguente crisi di razionalità e di legittimazione delle istituzioni politiche interne, ha dato una potente spinta al mutamento nella legislazione e nelle istituzioni amministrative; un carattere giuridico altamente significativo di questo processo è, nell’ordinamento italiano (ma anche negli altri ordinamenti di civil law), la tendenza alla despecializzazione del diritto amministrativo, mentre i riflessi istituzionali più rilevanti (riduzione del ruolo dell’intervento pubblico ed espansione del mercato) si sono sommati alle pressioni per un ridimensionamento della funzione politica, che viene sempre più ristretta al ruolo di indirizzo, e al processo di espansione dell’autonomia "tecnica" dell’amministrazione; quest’ultima, soprattutto quando si risolve in attività di gestione della spesa, viene sempre più separata dalla sfera della politica.

La produzione normativa italiana degli anni più recenti è tutta orientata in queste direzioni: dalla legislazione sul procedimento (legge n. 241 del 1990) al nuovo diritto locale (legge n. 142 del 1990), dalla riforma delle amministrazioni pubbliche e del pubblico impiego (legge n. 29 del 1993) alla fioritura o ridefinizione di strutture ad alta specializzazione tecnica di varia collocazione (autorità pubbliche indipendenti, enti parco, autorità di bacino, Servizi tecnici nazionali, Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente, Sistan etc.), dagli elementi di riforma globale dei pubblici poteri introdotti in particolare dalla legge n. 537 del 1993 (interventi correttivi di finanza pubblica), alla legislazione speciale sugli appalti e alla riforma della disciplina della contabilità degli enti locali territoriali; in tutte queste normative sono presenti robuste conferme della necessità della traslazione della gestione amministrativa dagli apparati politico istituzionali agli apparati tecnici, alle dirigenze e agli organismi tecnici indipendenti.

5. I fondamenti della politica ambientale della Comunità. Uniformizzazione dei diritti e strategia ambientale.

Il processo di espansione del diritto comunitario e la sua incidenza sugli ordinamenti nazionali, parallelo alle crisi progressive della forma-stato, non è lineare, e si è trasfuso in una sequenza di stadi di intensità crescente, in cui l’assestamento di ciascuno di essi si è materializzato in rimodulazioni dei diritti nazionali, che a loro volta sono state determinanti per la transizione a fasi successive e più avanzate, formalizzate in esplicite revisioni dei trattati anche allo scopo di dichiararne l’irreversibilità. Nella misura in cui il processo è avanzato, si è venuta dilatando l’area di sovranità statale assorbita dalle istituzioni comunitarie, e pertanto si può configurare l’esistenza di una costituzione europea materiale ben più avanzata di quanto i trattati e le posizioni politiche degli stati formalmente concedano.

La politica comunitaria ambientale, che "può essere considerata come una risposta alle politiche nazionali o una conseguenza di esse" è una esemplare rappresentazione della tendenza delle istituzioni comunitarie a dilatare l’ambito delle proprie attribuzioni formali.

Nel Trattato di Roma del 1957 non furono inserite norme specifiche in materia ambientale, ma la responsabilità dell'omissione non si può attribuire a nessuno, perché i tempi non erano maturi per l'emergenza a livello di cultura delle istituzioni del ruolo che avrebbe successivamente svolto la politica ambientale.

D’altra parte, la struttura dell'ordinamento comunitario, fin dalla sua origine, ha sempre fatto riferimento a un centro di gravitazione naturalmente conflittuale con l'integrale tutela dell'ambiente, cioè alla concezione liberista dell'economia; è questa la motivazione profonda per la quale, intorno al 1970, la questione ambientale è esplosa, rischiando, nel suo tradursi in azioni e reazioni interne alle legislazioni e agli ordinamenti complessivi degli stati membri, di diventare un fattore di crisi nella costruzione del mercato unico, le strutture comunitarie sono intervenute con rapidità e precisione, praticando ultra vires una nuova politica comunitaria, quella ambientale, che troverà la sua consacrazione formale prima nell'Atto Unico del 1986 e infine nel Trattato di Maastricht.

Le basi giuridiche formali del primo programma comunitario in materia ambientale, adottato dal Consiglio alla fine del 1973, erano abbastanza labili: l'articolo 2 del trattato, che attribuisce alla Comunità il compito di "promuovere uno sviluppo armonioso" ed una "espansione continua ed equilibrata" dell'attività economica, e la considerazione finalistica della necessità di impedire che le legislazioni nazionali in materia ambientale potessero svilupparsi in maniera non uniforme e secondo modelli divergenti al punto da falsare le regole della concorrenza, della libertà di stabilimento delle imprese e di circolazione dei prodotti, che sono sempre state il vero "cuore" dell'azione comunitaria; fu evidente sin dall’ora che la Comunità sviluppava un interesse per l'ambiente soprattutto in quanto oggetto di emergenti legislazioni statali settoriali, che avrebbero oggettivamente ostacolato la realizzazione del mercato unico e dei principi della concorrenza.

Nei successivi programmi ambientali della Comunità il repertorio delle giustificazioni si dilata e contemporaneamente si stempera; si parla di "transnazionalità" delle fonti di inquinamento, ma anche del rischio che l'applicazione di discipline nazionali non uniformi possa accentuare le disparità qualitative già esistenti fra "condizioni di vita e di lavoro" tra i vari Paesi comunitari. La motivazione economica peraltro è sempre presupposta, perché "la definizione di norme nazionali differenti ostacolerebbe la libera circolazione dei prodotti fra i paesi membri, mentre l'imposizione di oneri aziendali ineguali provocherebbe la distorsione della concorrenza". Ciò non toglie che la Comunità divenga ben presto un punto di riferimento di tutte le tensioni, comprese le pressioni che assumono la forma dell’ambientalismo radicale, e deve farsi carico di prospettive di soluzione razionale e di mediazione tra le posizioni "catastrofiste" e quelle, pure estreme, che negano il problema ambientale, ma le imposta secondo una medesima direttrice, sempre attenta a coniugare l’approccio al problema ambientale con lo sviluppo economico, la competitività, la efficienza delle imprese, alle quali affianca ora il principio della condivisione della responsabilità e della azione preventiva, specie mediante la rete della informazione globale, finalizzata alla modificazione dei comportamenti di consumo e di produzione.

In particolare, da un lato si consolida l’orientamento verso la politica dello sviluppo "sostenibile" inteso come mantenimento della continuità nello sviluppo economico e sociale, corretto da interventi di protezione ambientale "possibile" secondo la "migliore tecnologia disponibile"; d’altra parte diviene evidente che il filo conduttore dell’azione comunitaria in materia è ben lontano dalla sistematica unitaria del diritto ambientale; anzi piuttosto la tendenza esplicita degli ultimi documenti è quella di adottare la "strategia di base" consistente nel "realizzare la completa integrazione della politica ambientale e di altre politiche ad essa attinenti, mediante l’attiva partecipazione delle principali forze della società", con la conseguenza che la politica ambientale si stempera nelle varie politiche di settore, e nelle corrispondenti amministrazioni settoriali.

Di conseguenza, i lineamenti materiali del diritto comunitario dell’ambiente si strutturano su molteplici articolazioni: da un lato la necessaria uniformizzazione sostanziale dei vincoli al mercato, nei vari settori in cui questo si suddivide, dall’altro nella ricerca e nella promozione del grado di protezione più elevato, in rapporto allo stato del ciclo economico e della conoscenza tecnica.

Il primo profilo riguarda i meccanismi e le procedure di armonizzazione degli ordinamenti nazionali, sinteticamente individuabili nel ravvicinamento delle legislazioni mediante direttive, nel mutuo riconoscimento e nella dichiarazione di equivalenza, contemperati dalla applicazione del principio di sussidiarietà. Coerentemente con i segnali di evoluzione dell’ordinamento internazionale, in cui la razionalizzazione delle misure di armonizzazione si va spostando sempre di più sul piano della dimensione tecnica degli indicatori normativi uniformi di convergenza, le direttive ambientali della Comunità in materia di qualità del ciclo produttivo e dei prodotti tenderanno a fissare standard minimi, senza entrare nel dettaglio; gli indicatori di qualità formulati settorialmente da appositi organismi tecnici mediante procedure (alle quali partecipano le organizzazioni degli operatori nazionali) avranno invece la funzione di rendere scientifico il massimo grado di protezione (ambientale, ma anche di altri interessi pubblici e collettivi) che la coniugazione tra tecnologia e processo produttivo consente.

Il secondo aspetto, che in questa sede possiamo appena toccare, implica un maestoso quanto difficile progetto di modificazione diffusa e generalizzata di tutti i comportamenti idonei a produrre effetti negativi per l’ambiente, ed è l’obiettivo futuro della programmazione ambientale della Comunità.

 

6. Frammentazione del diritto dell’ambiente e pluralità di tutele ambientali: dal "command and control" all'autodisciplina del mercato.

La configurazione della politica ambientale della Comunità spiega il motivo per cui gli strumenti di attuazione, sempre modellati sulla coordinazione dell'interesse ambientale a quello del sistema economico di mercato, ma con gradazioni e sfumature differenti, hanno subìto una evoluzione, dalla iniziale e massiccia utilizzazione di regolazioni amministrative, comandi, divieti e controlli alla tendenza a ricondurre la tutela ambientale dentro i meccanismi di autonomia del mercato.

La prima fase dell'intervento comunitario è caratterizzata da una notevole produzione normativa finalizzata alla fissazione di regole comuni sugli standard, sulle tecnologie, sulla prevenzione, sul disinquinamento, sul principio della correzione alla fonte dei danni causati all'ambiente, sul principio che chi inquina paga.

La logica di queste normative è sostanzialmente coerente con gli imperativi dello sviluppo e del mercato: lo standard, in fondo, significa che un certo margine di aggressione all'ambiente è comunque ineluttabile; la riconduzione delle esternalità nei costi d'impresa mediante il criterio del "pollueur/payeur", comunque inteso, è perfettamente compatibile con l'etica economica, anche quando si sostanzia in un aumento dei prezzi, perché significa che la società nel suo insieme è disposta ad accettare l'inquinamento; il principio della prevenzione e correzione non è che una variante linguistica della formazione di nuovi comparti produttivi (l'industria del deinquinamento); il principio del risanamento si risolve in genere nel finanziamento, con le risorse della collettività mediante l'erogazione di incentivi o il trasferimento del costo sul prezzo dei prodotti, di specifici progetti.

Il punto debole della normazione comunitaria sul command and control è piuttosto nella delicata fase dell'attuazione all'interno degli stati, nelle cui pieghe si sono spesso inevitabilmente annidati interessi protezionistici, e che comunque si è spesso dissolta nelle inefficienze delle amministrazioni, con la conseguenza che in luogo di una strumentazione di tutela della libertà di concorrenza la Comunità rischia di trovarsi in mano un pericoloso contenitore di differenziazione delle opportunità delle imprese, per di più appesantito da inutili e cartacee forme di burocratizzazione.

La Comunità ha pertanto spostato il suo interesse, integrando le politiche regolative con la promozione di strumenti di responsabilizzazione diretta delle imprese e del mercato. Il quinto programma ambientale, infatti, si fonda, oltre che sulla consueta formula della internazionalità della tutela ambientale (l'inquinamento non conosce frontiere), sul concetto di sviluppo sostenibile, che significa in sostanza coniugare "performance industriale e protezione ambientale", e sul principio di condivisione delle responsabilità, cioè di individuazione delle responsabilità in ordine al degrado ambientale e della loro ridistribuzione anche in capo agli altri soggetti sociali e istituzionali, oltre che all’impresa, che non è più percepita come l'unico o principale fattore di aggressione all'ambiente.

La metodologia tradizionale di regolazione pubblicistica diviene oggetto di analisi critica, e la logica dello sviluppo sostenibile è trasfusa in strumentazioni e sistemi direttamente collegati al mercato, al quale viene chiesta l'autogestione della lotta all'inquinamento.

Tuttavia questa evoluzione non si verifica in tutti i settori abitualmente qualificati come "ambientali"; fa radicale eccezione la problematica delle aree naturali protette, per la quale il processo evolutivo è esattamente inverso, e, sia a livello comunitario che a livello degli stati membri, si materializzano strumenti normativi di protezione integrale, in cui la valorizzazione degli interessi pubblici segue una scala opposta, ponendo al primo e irrinunciabile livello la tutela naturalistica, e il divieto assoluto di ogni attività umana di impatto; ciò è peraltro possibile solo a patto che si tratti di aree a dimensione territoriale definita, e che la dimensione quali-quantitativa globale di tali zone protette sia determinata in relazione alle necessità generali (di scala regionale, nazionale e comunitaria) della produzione, dei cicli economici e del mercato.

Sembra pertanto confermata anche in relazione all’ordinamento comunitario la tesi della inesistenza e della labilità di una nozione unitaria di ambiente, e della configurazione di una pluralità di tutele ambientali; gli strumenti di protezione ambientale, nella attuale configurazione della "costituzione materiale" della Comunità, possono essere raggruppati su quattro livelli, per ciascuno dei quali le tecniche giuridiche di protezione sono singolari, autonome e generalmente non trasponibili negli altri livelli: a) le regolazioni amministrative autoritative (standard e autorizzazioni); b) gli strumenti economici (promozione e trasferimento di "tecnologie pulite"; incentivazioni e disincentivazioni, con particolare attenzione agli strumenti fiscali che consentano di internalizzare nei prezzi di mercato l'erosione delle risorse ambientali; permessi commerciabili; depositi cauzionali); c) le tutele volontarie (accordi di programma, audit ambientale, azione sul prodotto mediante, ad esempio, l'etichetta ecologica); d) le tutele integrali (aree naturali protette).

È facile immaginare che in futuro il livello b) e maggiormente il livello c) dovrebbero svilupparsi sempre di più, e le tutele integrali dovrebbero essere efficientemente realizzate, mentre il modello imperativo-regolativo dovrebbe essere fortemente razionalizzato, snellito, reso efficiente e adeguato ai nuovi sviluppi tecnologici e alle nuove esigenze del mercato; non mi pare però che ciò segni "una svolta nella politica ambientale" della Comunità, quanto piuttosto un logico e conseguenziale traguardo dei suoi fondamenti strutturali.

 

7. L’attuazione del diritto comunitario ambientale e le esigenze di modernizzazione nell’ordinamento italiano: i controlli ambientali tra inefficienza politico-amministrativa e razionalizzazione tecnica

Come si è visto, i lineamenti dell’azione comunitaria in rapporto all’ambiente assecondano sostanzialmente e accelerano una evoluzione-uniformizzazione già presente negli ordinamenti degli stati a più avanzata industrializzazione, in cui sviluppo economico e razionalizzazione tecnica dell’impatto ambientale costituiscono le determinanti strutturali.

Spetta ora alle istituzioni nazionali interagire il più rapidamente ed efficacemente possibile con gli obiettivi posti dalla Comunità, riorganizzando i propri apparati e rimodulando le proprie funzioni di intervento. In dettaglio, le responsabilità della attuazione peseranno non solo sul legislatore, ma anche sul giudice e sulla amministrazione, perché anche questi ultimi sono tenuti in via diretta alla applicazione del diritto comunitario come parametro di legittimità e come indicatore di risultato.

Ma proprio sotto questi aspetti continuano a diluviare le critiche in dottrina sulle disfunzioni del processo di adeguamento in Italia, ma anche, in genere in misura minore, negli altri stati membri della Comunità

Dal punto di vista delle tendenze intrinseche della costituzione materiale in sinergia con gli orientamenti dell’ordinamento comunitario la sfida della efficienza e della modernizzazione per l’amministrazione italiana dell’ambiente si tramuta in alcuni irrinunciabili obiettivi.

a) Innanzitutto si tratta di riuscire davvero a oltrepassare il guado della separazione tra mediazione politico-amministrativa e valutazione tecnica: i nodi prioritari da sciogliere sono quelli della unificazione del ministero dell’ambiente e dei lavori pubblici in un unico ministero per il territorio e comunque, anche se non si ritiene più valida questa indicazione, della riorganizzazione piuttosto radicale del ministero dell’ambiente, e del completamento dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (Anpa).

Il ministero dell'ambiente è stato immaginato come la chiave del coordinamento di tutte le competenze ambientali sparse fra i vari ministeri e fra le amministrazioni territoriali. Questa ricostruzione, indubbiamente suggestiva, ha delle falle violente. Innanzitutto, come tante altre suggestioni, è frutto dell'immaginazione, perché nella prassi amministrativa si sono scontate le insufficienze del valore comparativo dell'interesse ambientale in caso di conflitti con altri interessi paritari o più forti, e dunque il coordinamento amministrativo, come individuazione dell'interesse concreto, si risolve nella prevalenza dell'interesse più organizzato, meglio protetto; oppure si giunge a mediazioni su basi, con metodi, e con risultati spesso inusitati.

La metodologia di ponderazione è infatti passata dal modello rozzamente derogatorio, in cui gli interessi settoriali più forti si sovrappongono e prevalgono su quelli meno agguerriti, al modello comparativo, che a sua volta tende a scivolare verso sistemi latu sensu collaborativi, sia nei rapporti tra le fonti statali e quelle regionali (secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale sulla "leale cooperazione"), sia sul piano del procedimento amministrativo, mediante la previsione di intese e concerti. È opinione diffusa, peraltro, che tali modelli hanno un valore essenzialmente formale, incontrando grandi difficoltà sul piano operativo e concreto.

Ad esempio, l'apparato amministrativo del ministero dell'ambiente non è in grado di difendere fino in fondo, in procedimenti amministrativi di competenza di altre amministrazioni ai quali partecipa, l'interesse ambientale, non solo perché non possiede gli opportuni strumenti tecnici per determinarne la quantificazione, quanto perché non ne ha legittimazione, sia nei confronti dei soggetti amministrativi titolari dei detti procedimenti sia, di riflesso, nei confronti dei soggetti sociali per i quali la sede di riferimento e di legittimazione sono esclusivamente questi soggetti amministrativi.

La valorizzazione dell’Anpa, oltre a predisporre un razionale apparato per l'attuazione dei nuovi princìpi comunitari in campo ambientale, potrebbe colmare il vuoto di coordinamento, facendo scorrere ad un più generale e "incontrovertibile" livello tecnico l'azione di predisposizione dei parametri di riferimento per la valutazione degli interessi ambientali in gioco nel procedimento amministrativo. La riconduzione nell’Anpa e nelle costituende Agenzie regionali di tutti i controlli ambientali consentirebbe di passare dalla ponderazione amministrativa alla mediazione tecnica dei conflitti ambientali, e produrrebbe tra l’altro una cospicua operazione di alleggerimento e deregolazione amministrativa; inoltre, se è vero che la valutazione tecnica potrebbe assorbire gran parte degli spazi di movimento per le scelte gestionali del ministero, la trasformazione e il ridimensionamento di questo non sarebbero evenienze improbabili, né inopportune.

b) La seconda sfida concerne le regolazioni amministrative, le quali sono in fase fluida di trasformazione, e non solo per effetto della crisi del procedimento amministrativo o dell'incidenza della deregulation europea, ma anche per una intrinseca difficoltà nei confronti dell'equilibrio degli interessi in conflitto; è evidente che il primo fondamentale passaggio è costituito dalla razionalizzazione normativa, e dalla drastica riduzione dell’uso della decretazione d‘urgenza almeno nel comparto ambientale, dove il gioco delle scatole cinesi e delle proroghe infinite svuota di fatto l’effettività dei livelli anche minimi di protezione previsti dalla normazione comunitaria e nazionale.

Occorre inoltre attuare rapidamente la razionalizzazione amministrativa dei controlli ambientali, la cui inefficienza conclamata è direttamente proporzionale alla loro proliferazione e alla confusione dei ruoli tra amministrazioni centrali e regionali, giudice penale e legislatore (d’urgenza). Anche in tale caso l’applicazione progressiva dei nuovi principi del procedimento amministrativo dovrà coniugarsi con l’evoluzione verso modelli di sostituzione delle valutazioni tecniche alle deliberazioni amministrative. In questo senso va attuata la legge istitutiva dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente, che affida a tale organismo la funzione di proposta e consulenza, nei confronti di tutte le amministrazioni, in ordine, ad esempio, ai limiti di accettabilità delle sostanze inquinanti; agli standard di qualità dell'aria, delle risorse idriche e del suolo; allo smaltimento dei rifiuti, ed in genere a qualsiasi altra attività collegata alle competenze in materia ambientale.

Le tendenze della legislazione sembrano tutt’altro che favorevoli a questi obiettivi.

Ad esempio, dovrebbero venire centralizzati nell’Anpa e nelle Agenzie regionali gli studi e le attività tecnico-scientifiche di supporto alla valutazione di impatto ambientale, nonché le istruttorie e le funzioni ispettive relative alla prevenzione dei rischi e incidenti rilevanti e ciò dovrebbe consentire a questi deboli strumenti di svolgere un più effettivo ruolo di prevenzione ambientale, in linea con gli indirizzi comunitari.

L'elevato grado di competenza e la specifica professionalità dell'Agenzia potrebbe eliminare la possibilità della formazione del silenzio-assenso nelle procedure di valutazione di impatto; tale esito sarebbe ancor più garantito qualora si ritenesse ricompresa l'attività tecnico-scientifica dell’Anpa nella categoria delle valutazioni tecniche discrezionali, per le quali è prevista una regolamentazione di eccezione rispetto alla regola generale del silenzio-assenso.

Ciò malgrado i progetti di attuazione della direttiva sulla VIA presentati nel corso della precedente legislatura si sono soltanto preoccupati di stabilire il confine delle competenze tra stato e regioni, lasciando in ombra il ben più importante confine tra tecnica e politica e il ruolo dell’Agenzia.

La riforma dell'istruttoria relativa alla prevenzione dei rischi di incidenti rilevanti avrebbe dovuto essere ispirata ai seguenti princìpi: affidamento all'Anpa ed alle Agenzie regionali per la protezione dell'ambiente dell'attività relativa, da svolgersi anche mediante l'individuazione di un responsabile di istruttoria; affidamento delle funzioni ispettive a funzionari designati dagli organi tecnici delle suddette Agenzie; previsione di apposite conferenze di servizio indette dai responsabili delle istruttorie per acquisire le intese, i concerti, i nullaosta o gli assensi di altre amministrazioni pubbliche interessate; contenimento delle fasi procedimentali e dei termini per la conclusione dei procedimenti entro i limiti strettamente necessari per l'attuazione di verifiche ed accertamenti; divulgazione di schede informative per cittadini e lavoratori (articolo 2-ter, decreto legge 4 dicembre 1993, n. 406, coordinato con la legge di conversione 21 gennaio 1994, n. 61). Si sono però subito manifestati segni di controtendenza: il decreto legge 10 marzo 1994, n. 170 (Modifiche al DPR 17 maggio 1988 n. 175, relativo ai rischi di incidenti rilevanti connessi con attività industriali), ha affidato l'istruttoria al comitato tecnico regionale previsto dall'articolo 20 del DPR 29 luglio 1982, n. 577, il quale si avvale "anche, qualora ne ravvisi l'opportunità (!), del supporto tecnico-scientifico dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente" (articolo 10); all'Anpa viene anche tolta la funzione ispettiva, che rifluisce nelle varie amministrazioni interessate (articolo 15); viene istituita, presso il Servizio inquinamento atmosferico, acustico e industrie del ministero dell'ambiente, la divisione rischio industriale (articolo 18, comma 3); si provvede addirittura a nuove assunzioni di personale (articolo 18 commi 1 e 2); la norma finanziaria (articolo 19) prevede l'utilizzo dell'accantonamento relativo al ministero dell'ambiente per oneri valutati circa quattro miliardi e mezzo annui, a decorrere dal 1994: in tal modo si è resa problematica la stessa attivazione dell'Anpa.

 

8. Segue: gli strumenti economici.

a) Il danno ambientale.

Data l’inconsistenza del postulato dell'unitarietà giuridica dell'ambiente, dovrebbe risultare evidente che le forme privatistiche, individuali o collettive di azione sono da ritenersi precisamente delimitate dalla sfera giuridica privata in funzione esclusiva della quale l'ordinamento le ha poste; gli sforzi in dottrina per creare in tale sfera un potere dei privati di attivare la funzione giurisdizionale per "incidere sugli assetti territoriali" e contrastare le scelte di governo e di amministrazione in materia ambientale si sono infranti proprio su quella che avrebbe dovuto essere la vetta più elevata della protezione, l'istituzione del ministero dell'ambiente, con la riconduzione della nozione di danno ambientale proprio dentro quella nicchia di scelte politico-legislative che si volevano abbattere, ed ai quali l'interesse ambientale va comparativamente coordinato.

Ciò significa che il regime della responsabilità per danno ambientale viene ad essere tipizzato, racchiuso in una serie di paletti che non sono altro che il punto di equilibrio tra necessità dell'aggressione e necessità della tutela ambientale, trasfuso nel sistema di standard, divieti e norme di comportamento previsti dalle leggi di protezione ambientale comparativa, che diventano "dati certi" su cui il giudice possa poggiare "la sua decisione"; ciò consente di dribblare il cono d'ombra che deriverebbe dallo scatenarsi della soggettività più assoluta nella individuazione di danni all'ambiente.

Queste necessità vitali del rapporto tra ambiente economia sono interamente riflesse nell'articolo 18 della legge n. 349 del 1986, con la tipizzazione della responsabilità, mentre gli altri caratteri della norma, particolarmente criticati in dottrina, non sono propriamente coessenziali a tale finalità. In tal senso vanno lette le disposizioni dell'articolo 18 che contengono: 1) la previsione della responsabilità per colpa o dolo in luogo di quella oggettiva, prevista per ipotesi particolari in altri stati e in convenzioni internazionali; 2) il riconoscimento del potere di azione allo stato o agli enti territoriali, in luogo di una più ampia condivisione del medesimo tra pubblici poteri e soggetti privati individuali e collettivi; 3) la individuazione in capo allo stato del diritto al risarcimento, senza per altro porre vincoli alla destinazione delle somme relative all'effettivo soggetto danneggiato o comunque ad iniziative di reintegro ambientale.

Tali aspetti della normativa sono espressione di una visione riduttiva, tipicamente italiana, delle possibilità della tutela ambientale comparativa; una evoluzione, nel senso di un maggiore grado di garanzia della protezione, stimolata dalla legislazione comunitaria, sembra perfettamente compatibile con le necessità di fondo del sistema economico, in ordine alla certezza di accettabili livelli di "libertà ambientale" della produzione, già garantiti dalla tipizzazione della responsabilità. Un esempio è nella normazione in materia di tutela dell'ozono atmosferico, introdotta dalla legge 28 dicembre 1993, n. 549, che prevede un diverso ruolo delle associazioni ambientaliste, alle quali estende il potere di azione in giudizio al fine di ottenere il sequestro e l'eventuale distruzione dei beni prodotti o commercializzati in violazione degli obblighi e divieti posti dalla legge stessa, e la condanna delle "imprese responsabili della immissione in commercio" al risarcimento del danno; la specialità della materia e la formulazione particolare della norma militano per l'ipotesi della responsabilità oggettiva, dovendosi individuare l'antigiuridicità nella mera immissione in commercio dei prodotti che ricadono nell'ambito dei divieti previsti dalla legge. Anche la problematica del danno alle aree protette fa eccezione alla disciplina della responsabilità dell'articolo 18 della legge n. 349 del 1986, prevedendo gli articoli 6, comma sesto, e 29, della legge quadro n. 394 del 1991, la sanzione della riduzione in pristino per "l'inosservanza delle disposizioni" derivanti dalle misure di salvaguardia o per la mera violazione delle previsioni del piano e del regolamento del parco, o del nullaosta, e l'esecuzione coattiva specifica in caso di inottemperanza da parte del responsabile.

Il sistema del danno ambientale appare - coerentemente con il desiderio della Comunità europea che i regimi di tutela ambientale siano di fatto allineati ad un comune modello - in evoluzione, sia nel senso dell'allargamento della base di controllo (diritto di azione alle associazioni ambientaliste) sia nel senso di sostituzione della responsabilità oggettiva a quella subbiettiva prevista dal citato articolo 18 della legge n. 349 del 1986; è ancora ben fermo, invece, il principio dell'imputazione in via esclusiva allo stato delle somme acquisite a titolo di risarcimento, malgrado le critiche pungenti e la razionalità di alternative soluzioni offerte da altri ordinamenti e dalla dottrina.

b. I costi ambientali e la condivisione delle responsabilità.

La tecnica giuridica risarcitoria e ripristinatoria è in fondo una applicazione del già ricordato principio economico della internalizzazione dei costi ambientali, che, tradotto in termini giuridici offre il più vistoso esempio della supremazia delle necessità del mercato sulla protezione ambientale comparativa. Infatti, esso significa che la violazione dell'ambiente implica un costo d'impresa che può/deve riflettersi sul prezzo del prodotto o del servizio, oppure essere compensato mediante il finanziamento con le risorse della collettività, cioè con sistemi di incentivazione. L'alternativa è la chiusura del ciclo produttivo o distributivo.

Queste conclusioni valgono comunque l'internalizzazione si presenti: come tassa ambientale, in quanto obbliga l'inquinatore ad adottare misure di riduzione delle emissioni, che si riflettono in costi d'impresa o sono coperti da sovvenzioni; come sistema assicurativo obbligatorio o volontario, in quanto andrebbe a defluire nel bilancio dell'impresa sotto forma di premio assicurativo; come modificazione o riconversione del processo produttivo-distributivo, mediante impianti e tecnologie la cui installazione e gestione implicano inevitabilmente la formazione di costi d'impresa. D'altra parte, lo smistamento di tali costi, in tutto o in parte, sul prezzo, cioè direttamente sulla collettività, o sull'intervento pubblico, cioè indirettamente sulla collettività, è ineluttabile, ed è anche tecnicamente corretto, come conseguenza del principio della condivisione delle responsabilità ambientali, ormai entrato a pieno titolo negli ordinamenti giuridici.

È pertanto la società nel suo complesso che decide all'interno delle diverse possibili evenienze: a) spetterà alle fonti normative stabilire o meno un vincolo di internalizzazione; b) spetterà al mercato decidere se proseguire o meno il consumo di prodotti e servizi il cui prezzo sia gravato delle quote di costo ambientale; c) spetterà al sistema politico valutare la decisione di "socializ