Cass. Sez. III sent. 21400 dell' 8 giugno 2005 (c.c. 15 febb. 2005)
Pres. Zumbo Est. Fiale Ric. Pavoncelli
Codice dei beni culturali e del paesaggio - Patrimonio reale e dichiarato
Il riferimento contenuto nell'art. 2, comma secondo del D.Lv. 4244 alle "altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà" costituisce una formula di chiusura che consente di ravvisare il bene giuridico protetto dalle nuove disposizioni sui beni culturali ed ambientali non soltanto nel patrimonio storico-artistico-ambientale "dichiarato" (beni la cui valenza culturale è oggetto di previa dichiarazione), bensì anche in quello "reale" (beni protetti in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti). Si delinea pertanto un sistema "misto" volto ad apprestare una prima forma di tutela al patrimonio "reale" e, quindi, una successiva a quello "dichiarato"
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio
Dott. ZUMBO Antonio - Presidente - del 15/02/2005
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - SENTENZA
Dott. VANGELISTA Vittorio - Consigliere - N. 240
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. SARNO Giulio - Consigliere - N. 45325/2004
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PAVONCELLI Stefano, n. a Genova il 10.4.1959;
avverso l'ordinanza 23.9.2004 del Tribunale per il riesame di Foggia;
Sentita la relazione fatta dal Consigliere Dr. Aldo Fiale;
udito il Pubblico Ministero nella persona del Dr. Meloni V. che ha concluso per
il rigetto del ricorso;
FATTO E DIRITTO
Con ordinanza del 23,9.2004 il Tribunale di Foggia rigettava l'istanza di
riesame proposta nell'interesse di Pavoncelli Stefano - indagato in relazione al
reato di cui all'art. 170 D.Lgs. n. 42/2004 (uso illecito di beni culturali) -
avverso il decreto 28.7.2004, con il quale il Procuratore della Repubblica
presso quel Tribunale aveva convalidato il sequestro probatorio di n. 113
reperti archeologici integri di varie forme e frammenti vari di vasi a vernice
nera non meglio identificabili.
Il Tribunale escludeva la configurabilità del reato di cui all'art. 170 del
D.Lgs. 22.1.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio),
argomentando che:
- la relativa fattispecie criminosa, stante l'esplicito rinvio operato dalla
norma, si riferisce ai soli beni elencati nel precedente art. 10 dello stesso
Codice e quest'ultimo articolo, al 3 comma - lett. a), definisce "beni
culturali" "le cose ... mobili che presentano ... interesse archeologico"
appartenenti a privati, in quanto sia intervenuta la dichiarazione di pubblico
interesse (carente nel caso in esame);
- non poteva ravvisarsi, inoltre, un "uso incompatibile con la natura" dei beni
stessi, posto che - non essendovi stata, da parte del Ministero, una
regolamentazione specifica della custodia e dell'uso dei reperti sequestrati -
l'unico obbligo che poteva incombere al Pavoncelli era quello generale "di
conservazione", previsto dall'art. 30, comma 3, del Codice, ed i reperti
medesimi, per come evincibile dal verbale di descrizione e dai rilievi
fotografici, erano tutti ben conservati;
- non poteva configurarsi, infine, un obbligo, a carico dell'indagato, di
rendere fruibili i reperti per la generalità dei consociati, proprio per la
mancata attivazione dei poteri di regolamentazione da parte della P. A..
Il Tribunale riteneva ipotizzatile, invece, il diverso e più grave delitto di
cui all'art. 173, lett b), del D.Lgs, n. 42/2004 (mancata denuncia del
trasferimento della proprietà o della detenzione di beni culturali), mancando in
detta norma un rinvio esplicito all'elencazione di cui al precedente art. 10,
rinvio carente anche nella norma di cui all'art. 59 impropriamente indicato come
50 che prescrive l'obbligo della denuncia di trasferimento. La nozione di "bene
culturale", accolta dal Codice del 2004 - secondo il giudice dell'impugnazione
cautelare - non è soltanto quella "dichiarata", di cui agli artt. 10 e 11 di
detto testo normativo, bensì anche quella "reale" desumibile dal dettato di cui
all'art. 2, che individua quali beni culturali pure quelle cose "individuate
dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà";
tali sono sicuramente, e a prescindere da una formale dichiarazione
amministrativa, i beni aventi interesse archeologico, Avverso tale ordinanza ha
proposto ricorso il difensore del Pavoncelli, il quale ha eccepito:
- la insussistenza del "fumus delicti", in relazione all'ipotizzato reato di cui
all'art. 173 del D.Lgs, n. 42/2004, poiché il riferimento, in tale norma, ai
"beni culturali" deve intendersi limitato, quanto agli oggetti appartenenti a
privati, ai soli beni di cui al 3 comma dell'art. 10, quelli cioè per i quali
sia intervenuta la dichiarazione di interesse culturale prevista dagli artt. 13
e seguenti (nella specie inesistente);
- la violazione del "principio di tassatività-determinatezza", attuata dal
Tribunale attraverso la configurazione di un patrimonio storico-artistico non
dichiarato ma "reale", costituente interpretazione analogica in malam partem
(che lascia al giudice il compito di individuare cosa sia la "civiltà"),
preclusa in materia penale ed incompatibile con l'elemento soggettivo del dolo.
Qualora dovesse condividersi un'interpretazione siffatta, dovrebbe ritenersi non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.
173 del D.Lgs, n. 42/2004, per contrasto con gli artt 25, comma 2, e 27, comma
1, della Costituzione;
- l'illegittima disposizione del sequestro sulla base di un'estemporanea
valutazione dei beni, effettuata da un ispettore onorario del Ministero per i
beni culturali, intervenuto presso l'abitazione dell'indagato su invito della
Guardia di Finanza. A norma della legge 27.6,1907, n, 386, l'ispettore onorario
ha solo compiti di vigilanza e di denunzia alla Soprintendenza competente,
spettando invece ad un archeologo la catalogazione e classificazione dei beni in
questione;
- la mancata vantazione della circostanza che i beni ritenuti provenienti da
"siti archeologici diversificati" appartengono, in realtà, alla famiglia
Pavoncelli fino dalla seconda metà del 1800. Il ricorso deve essere rigettato,
poiché infondato. 1. Quanto alla prima doglianza in esso svolta deve rilevarsi
che;
1.1 L'art. 173, lett. b), del D.Lgs. 22.1.2004, n. 42 norma della quale, nella
fattispecie in esame, si ipotizza la violazione sanziona quale delitto la
condotta di "chiunque, essendovi tenuto, non presenta, nel termine indicato
dall'art. 59, comma 2, la denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o
della detenzione di beni culturali".
Il 2^ comma dell'art. 2 del medesimo decreto legislativo (con definizione che
riprende l'impianto già delineato nel D.Lgs. n. 490/1999) dispone testualmente
che; "sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli
10 e 11, presentano interesse artistico, archeologico, etnoantropologico,
archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base
alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà", A giudizio di questo
Collegio, il riferimento alle "altre cose individuate dalla legge o in base alla
legge quali testimonianze aventi valore di civiltà" costituisce una formula di
chiusura che consente di ravvisare il bene giuridico protetto dalle nuove
disposizioni sui beni culturali ed ambientali non soltanto nel patrimonio
storico-artistico-ambientale "dichiarato" (beni la cui valenza culturale è
oggetto di previa dichiarazione), bensì anche in quello "reale" (beni protetti
in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento
di esso da parte delle autorità competenti).
Il D.Lgs, n. 42/2004 ha delineato, praticamente, un sistema misto, sia per i
beni di appartenenza pubblica che per quelli di proprietà privata; rivolto ad
apprestare una prima forma di tutela al patrimonio culturale "reale" e, quindi,
una protezione successiva all'effettiva utilizzazione del patrimonio culturale
"dichiarato". L'obbligo di denuncia, prescritto dall'art. 59 e sanzionato
dall'art. 173 del D.Lgs. n. 42/2004, si correla già soltanto alla mera
detenzione delle "cose individuate dalla legge o in base alla legge quali
testimonianze aventi valore di civiltà", mentre, dopo la formale dichiarazione
dell'interesse culturale (di cui agli artt. 13 e segg.), altre disposizioni
puniscono le violazioni alle modalità di conformazione dell'uso del bene, come
specificamente regolamentate dalla P. A..
Solo attraverso un'interpretazione siffatta può ricevere tutela ed attuazione
effettiva l'interesse dello Stato alla conoscenza dell'esistenza e della
circolazione dei beni culturali (in particolare dei beni mobili).
La pubblica Amministrazione, infatti, deve essere posta in condizione di venire
a conoscenza dell'esistenza del bene e la violazione dell'obbligo di denuncia -
come già evidenziato da Cass., Sez. 3^, 17.6.1997, n. 993, P.G. in proc.
Leonelli - si configura quale reato di pericolo volto a tutelare non solo la
preservazione del patrimonio archeologico, storico ed artistico, ma anche
l'interesse alla individuazione delle cose appartenenti a detto patrimonio. Nè
la possibilità, per lo Stato, di conoscere che il bene esiste può seriamente
riconnettersi al mero esercizio del potere ispettivo da parte delle
Soprintendenze.
Le previsioni sanzionatorie dell'art. 173 si correlano (come già si è
evidenziato) a quelle dell'art. 59 ed il 4 comma dell'art. 59 - che disciplina
il contenuto "necessario" della denuncia - non reca alcun riferimento alla
dichiarazione prevista dall'art. 13, da ciò si ricava un'ulteriore conferma che
il trasferimento di "beni culturali" appartenenti a privati non deve essere
denunziato soltanto nelle ipotesi in cui sia già intervenuta la dichiarazione di
interesse culturale di cui all'art. 13.
1.2 La questione si sposta, dunque, sulla individuazione concreta delle "cose"
che costituiscono "testimonianze aventi valore di civiltà", che, se non operata
direttamente dalla legge, deve essere "dedotta in base alla legge".
"Civiltà", secondo l'interpretazione comune, è il complesso degli aspetti
culturali, spontanei ed organizzati, relativi ad una collettività in una
determinata epoca. L'attitudine a "testimoniare" aspetti siffatti è agevolmente
desumibile dalle caratteristiche della "res", dal suo valore comunicativo
spirituale, dai requisiti peculiari attinenti alla tipologia, alla
localizzazione, alla rarità, etc. (vedi Cass., Sez, 3^, 24.12.2001, n. 45814,
Cricelli) ed il trasferimento di tutte le cose per le quali sia riscontrabile
tale attitudine deve ritenersi assoggettato all'obbligo di denunzia. Non deve
comunque dimenticarsi, in proposito, che il reato di cui all'art. 173, quale
delitto, richiede la sussistenza del dolo e questo deve investire, oltre la
condotta omissiva, anche la percettibilità della nota di valore della cosa.
La verifica dell'effettiva sussistenza dell'interesse artistico, storico,
archeologico o etnoantropologico della cosa denunziata non riguarda, invece, il
momento prodromico della denunzia di trasferimento: essa è demandata, infatti,
dalla legge ad un momento successivo e dovrà essere effettuata dalla P.A. sulla
base di indirizzi di carattere generale uniformi.
2. Il ricorrente ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art.
173 del D.Lgs. n. 42/2004, prospettando:
a) La violazione del principio di legalità in materia penale, fissato dall'art.
25, 2 comma, detta Costituzione.
La norma incriminatrice in questione - in mancanza di criteri obiettivi sulla
base dei quali affermare la natura di "bene culturale" di un determinato oggetto
- recherebbe un vulnus evidente al fondamentale principio di tassatività -
determinatezza della fattispecie penale, dal momento che "la sussistenza di un
interesse culturale nel bene offeso verrebbe fatalmente a dipendere
dall'arbitrium indicis".
b) La violazione non meglio specificata dell'art. 27, 1 comma, detta
Costituzione.
2.1 Trattasi di eccezione manifestamente infondata, in quanto, secondo la
giurisprudenza della Corte Costituzionale;
- la legge, nel delineare i fatti che costituiscono reato, può ricorrere a
locuzioni di uso comune o a termini il cui significato può essere ricavato da
nozioni non giuridiche, purché sia comprensibile e sufficientemente determinata
la condotta punita con sanzioni penali (sentenze n. 312/1996 e n. 414/1995);
- "il principio di tassatività della fattispecie penale ... deve considerarsi
rispettato anche se il legislatore, nel descrivere il fatto-reato, usi non già
termini di significato rigorosamente determinato ma anche espressioni meramente
indicative o di rinvio alla pratica diffusa nella collettività in cui
l'interprete opera, spettando a quest'ultimo di determinarne il significato
attraverso il procedimento ermeneutico di cui all'art. 12, comma 1, delle
Preleggi" (ordinanza n. 169/1983).
La "determinatezze" (in funzione di garanzia della libertà o in funzione di
tutela dell'uguaglianza) è un modo di essere delle norme (e dei loro elementi)
come risultano non soltanto dagli enunciati legislativi, ma anche
dall'interpretazione dei medesimi e dal loro precisarsi attraverso
l'applicazione.
Deve essere pertanto di guida, nella relativa indagine, il criterio,
reiteratamente affermato dalla Corte Costituzionale, secondo il quale la
verifica del rispetto del principio di determinatezza va condotta non già
valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell'illecito, ma
raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la
disciplina in cui questa si inserisce. L'inclusione, nella formula descrittiva
dell'illecito penale, di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di
concetti "elastici", non comporta un vulnus del parametro costituzionale in
esame, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque
al giudice - avuto riguardo alle finalità perseguite dall'incriminazione ed al
più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca - di stabilire il
significato del singolo elemento, mediante un'operazione interpretativa non
esorbitante dall'ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella
descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della
fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sonetto da un fondamento
ermeneutico controllabile, e, correlativamente, permetta al destinatario della
norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo
valore precettivo (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5 del 2004; n. 34 del 1995;
n. 31 del 1995; n. 122 del 1993; n. 247 del 1989).
Alla stregua delle considerazioni dianzi svolte relativamente
all'interpretazione del disposto legislativo censurato, la nozione di "beni
culturali", richiamata dall'art. 173 del D.Lgs. n, 42/2004 e ricostruita alla
stregua delle previsioni del precedente art. 2, con particolare riguardo al
riferimento a "le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali
testimonianze aventi valore di civiltà", viene ad assumere, tenuto conto delle
norme specifiche di settore e dell'evoluzione storico-scientifica della
configurazione dell'interesse culturale, un'accezione peculiare, che la rende
precisa e per nulla indeterminata.
2.2 La pretesa violazione dell'art. 27, 1 comma, della Costituzione -
assolutamente carente di qualsiasi specificazione - appare, invece, del tutto
oscura ed incomprensibile.
3. In tema di sequestro probatorio, il sindacato del giudice del riesame non può
investire la concreta fondatezza dell'accusa (il cui riscontro è riservato al
giudice della cognizione nel merito), ma deve essere limitato alla verifica
dell'astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una
determinata ipotesi di reato ed al controllo dell'esatta qualificazione
dell'oggetto del provvedimento come "corpo del reato" o "cosa pertinente al
reato".
L'accertamento del "fumus commissi delicti" va effettuato, pertanto, solo sotto
il profilo della congruità degli elementi rappresentati e posti a fondamento del
provvedimento, che non possono essere censurati in punto di fatto per
apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma vanno
valutati così come esposti per verificare appunto se consentono di ricondurre
l'ipotesi di reato formulata in una di quelle tipicamente previste dalla legge
(vedi Cass.; Sez. 6^, 3.3.1998, Campo; Sez. 2^, 22,5,1997, Acampora). Ai fini
del sequestro non è necessario che il fatto noto sia accertato, ma è sufficiente
che risulti ragionevolmente probabile in base a specifici elementi (Cass., Sez.
6^, 30,4.1993, Bermen). Nella specie, l'esistenza del fumus del reato ipotizzato
si correla al verbale di ispezione-catalogazione redatto con la partecipazione
di un esperto, secondo il quale i beni sequestrati, raccolti in una vera e
propria collezione e provenienti da scavi archeologici (circostanza non
contestata) costituirebbero testimonianze di civiltà esistite tra il 6^ ed il 2^
secolo A.C..
Del tutto irrilevante, in questa sede, è l'individuazione dei compiti che la
legge 27.6.1907, n, 386 demanda alla competenza degli ispettori onorali del
Ministero per i beni culturali, della cui esperienza in materia non può comunque
dubitarsi, spettando invece al giudice del merito il compiuto accertamento della
vicenda. 4. L'assunto difensivo secondo il quale i beni sequestrati
apparterrebbero alla famiglia Pavoncelli fino dalla seconda metà del 1800 non è
stato affatto trascurato dal Tribunale, il quale ha, però, evidenziato che per
essi "non risulta denuncia di trasferimento a titolo di erede presso il
competente Soprintendente" e ciò integra, appunto, la materialità del reato
ipotizzato. 5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 127 e 325 c.p.p., dichiara
manifestamente infondata la dedotta questione di legittimità costituzionale.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 15 febbraio 2005. Depositato
in Cancelleria il 8 giugno 2005