Il Disastro ambientale "nominato” quale delitto di evento – tendenzialmente occulto – a consumazione progressiva ed esteriorizzazione differita, con danno lungo-latente (delitto permanente o eventualmente tale): la sua derivazione dall’azione della criminalità organizzata e le azioni di contrasto patrimoniale, anche a fini di bonifica.

di Alessandro MILITA

SSM

 

Struttura territoriale di formazione del distretto di Roma

La nuova disciplina degli ecoreati

 

Roma, 6 luglio 2015

 

 

Il Disastro ambientale "nominato” quale delitto di evento – tendenzialmente occulto – a consumazione progressiva ed esteriorizzazione differita, con danno lungo-latente (delitto permanente o eventualmente tale): la sua derivazione dall’azione della criminalità organizzata e le azioni di contrasto patrimoniale, anche a fini di bonifica.

1.Premessa: il disastro ambientale quale conseguenza ultima del ciclo economico criminale ed i presidi nomativi del passato; 2. La rilevanza del fattore tempo e l’esperienza campana; 3. L’impatto della Legge n. 68/2015; 4. L’evento naturalistico del disastro ambientale: le matrici coinvolte; 5. Il momento di consumazione del delitto di disastro ambientale; 6. Gli strumenti di aggressione al patrimonio previsti dalla nuova Legge ed i relativi limiti

 

  1. Premessa: il disastro ambientale quale conseguenza ultima del ciclo economico criminale ed i presidi nomativi del passato

 

Prima di concentrarci su alcuni aspetti della innovazione normativa è necessario fissare alcuni punti fermi, onde focalizzare i temi essenziali.

In primo luogo è essenziale delineare il fenomeno e, per farlo, onde districarsi tra la molteplicità di casi astratti integranti il tipo normativo del disastro ambientale, ci si riferirà al caso campano dell’interramento dei rifiuti, foriero di conseguenti danni agli eco-sistema.

Il ciclo economico criminale si articola, secondo criteri di normalità, nelle seguenti fasi:

- un soggetto istigatore, beneficiato della condotta, agisce per ridurre i costi, sovente nella consapevolezza dell’agire criminale di colui che gli consente di giungere ad un maggior lucro, stipulando un patto che implichi comunque la sua estraneità, oltre ovviamente al silenzio e solidarietà tra i complici;

- un intermediario, generalmente professionale, in grado di legare la domanda di un servizio a costi contenuti con l’offerta di quel servizio, garantendo massima riservatezza e la certezza dell’impunità;

- una società, raramente in house e quasi sempre esterna all’organizzazione del beneficiato, in grado di svolgere il servizio con una remunerazione notevolmente più bassa, fruendo di un conseguente profitto;

- un ecosistema violato, per un valore molto più alto – spesso non agevolmente misurabile – rispetto al costo risparmiato dal beneficiario ed al profitto tratto dall’agente.

 

Le possibilità di recupero dell’integrità dell’ambiente sono inversamente proporzionali al danno cagionato ed all’ammontare dei fondi disponibili per ripristinare lo status quo: danno e fondi presuppongono ovviamente il relativo accertamento.

I sistemi sanzionatori possono dunque distinguersi in apparenti (colposamente o dolosamente creati per essere inadeguati) ovvero reali (efficienti ed effettivi) a seconda della loro attitudine a consentire l’individuazione dei responsabili, la loro punizione, l’acquisizione dei relativi patrimoni e la loro devoluzione alla bonifica dell’ecosistema.

La carenza anche di una sola delle fasi citate rende velleitario l’intero ciclo di contrasto : se si disciplina un sistema normativo meramente declamatorio – perché fondato su norme inapplicabili – l’interprete potrà anche abdicare all’esame delle fattispecie; in caso infatti di presidi normativi fondati su norme contravvenzionali ovvero a prescrizione breve, non vi sarà alcuna chance di ripristino dello status quo ante ed ogni intervento svolgerà una funzione esclusivamente dissuasiva, attuata attraverso l’incremento del peso economico complessivo del crimine, considerando gli importi devoluti per la difesa degli autori quale mero costo.

Ciò ovviamente include la necessità, per l’interprete, di volgere lo sguardo anche al precedente sistema normativo: sono infatti numerosi i danni ambientali che affondano la loro genesi nel passato per proiettarsi nel futuro.

Tanto più, dunque, le norma di contrasto siano state inadeguate, tanto maggiori saranno i disastri ambientali persistenti e mai sanati e semplicemente rimessi a forme di auto-riparazione naturali.

 

Per comprendere il fardello da cui si parte è dunque necessaria una breve digressione quanto alla in-efficienza del sistema normativo, nel tempo.

A fronte di una palese iniziale inadeguatezza degli strumenti normativi1, sia penali che processuali, il radicale mutamento si nota a partire dai primi anni del 2000.

Prima di allora le difficoltà operative nel contrasto al crimine ambientale sono coincise con la “circondarializzazione” delle investigazioni, con la carenza di strumenti normativi efficaci, con l’assenza di cognizioni adeguate dello specifico thema probandum, con la parcellizzazione del fenomeno criminale che, spesso unico, veniva segmentato sul territorio nazionale o – peggio – su singoli P.M. dello stesso Ufficio di Procura.

Le difficoltà nelle indagini sul crimine ambientale sono state infatti sostanzialmente le stesse che hanno caratterizzato, nel passato, le indagini in materia di delitti mafiosi.

A partire dall’unificazione degli Uffici di Procura – gennaio 2000 - e dall’entrata in vigore del primo delitto ambientale – marzo 2001 -, sanzionante il traffico illecito di rifiuti in forma organizzata (ora previsto dall’art. 260 TUA), si è infatti progressivamente affermata e radicata una adeguata specializzazione.

Parallelamente si è iniziata ad affinare la sussunzione della dinamica criminale nella categoria del crimine organizzato2, con implementazione delle potenzialità d’indagine, giungendosi finalmente a ratificare, ex lege, la connessione tra organizzazioni mafiose e crimine ambientale, attraverso la previsione della norma di cui all’art. 11 L. 136/2010, che ha disposto l’inserimento nel catalogo dei reati di cui all’art. 51 c. 3 bis c.p.p. del delitto di cui all’art. 260 D. Lgvo n. 152/06.

Ciò ha provocato, quale immediato beneficio operativo – attesa la probabilità del coinvolgimento di soggetti mafiosi nella filiera criminale ovvero specializzati nel crimine ambientale – la possibilità di fruire dello stesso supporto informativo nella disponibilità della D.D.A.

Attraverso l’analisi della banca dati SIDDA e/o SIDNA è infatti possibile assumere quelle informazioni potenzialmente decisive per una corretta qualificazione dei fatti ed in grado di consentire la massima esplicazione dell’apparato investigativo 3. E’ peraltro talora accaduto che anche i Giudici abbiano ordinato indagini coatte indicando anche la necessità di accedere alle informazioni tratte dal sistema SIDDA, soprattutto nei casi in cui constava loro direttamente – avendo trattato procedimenti affini – la sussistenza di utili connessione con altri fatti ovvero la possibilità di esportare elementi di prova da un procedimento all’altro, talora consentendo un collegamento di indagini non esperito tempestivamente.

L’inclusione del reato di cui all’art. 260 TUA nella norma di cui all’art. 51/3 bis c.p.p. ha consentito di fruire di nuovi strumenti d’indagine, anche offerti dalla norma di cui all’Art. 9 L. n. 146/2006 disciplinante le Operazioni sotto copertura, norma innovata per effetto della Legge 13 agosto 2010 n. 136 G.U. n. 196 del 23 agosto 2010 (il medesimo atto normativo attributivo della competenza del delitto di cui all’art. 260 TU alla DDA, ex art. 51/3 bis c.p.p.).

La Legge esplicitamente inserisce infatti il delitto di cui all’art. 260 TUA come delitto presupposto per attivare le indagini sotto-copertura.

Fino alla nuova norma sugli Eco-reati, considerato che il ciclo dei rifiuti è tipicamente appannaggio del crimine organizzato per le rilevanti implicazioni finanziarie, carenze decisive si osservavano sull’azione di contrasto all’accumulazione dei patrimoni.

Il momento d’azione è potenzialmente duplice: il sequestro di prevenzione ed il sequestro penale.

Si tratta di sistemi coesistenti, talora parzialmente sovrapposti, ognuno dei quali presenta significativi vantaggi operativi ed inevitabili carenze.

Il sequestro penale a sua volta si realizza attraverso diversi articolati strumenti, correlati a corrispondenti presupposti normativi.

Il compito del P.M. specializzato è infatti quello di qualificare la fattispecie concreta, selezionare tra le possibili norme astratte implicate quelle più redditizie in termini di contrasto e dirigere le indagini preliminari in funzione del maggiore risultato conseguibile; per farlo è essenziale destreggiarsi all’interno dei moduli di ablazione patrimoniale e disporre di cognizioni specifiche in ordine agli standards probatori correlati alle fattispecie penali selezionate.

La previsione, ex art. 10 co. 1 lett. A) della L. n. 125 del 2008, dell’azione di prevenzione patrimoniale nei cfr. dei soggetti indiziati “di uno dei reati di cui all’art. 51 co 3 bis c.p.p.” e la successiva inclusione della norma di cui all’art. 260 TUA nel catalogo dei delitti di competenza della DDA, ha comportato – a partire dall’agosto del 2010 - la diretta previsione dell’applicazione della misura di prevenzione anche ai “trafficanti di rifiuti”.

A ciò seguiva peraltro la singolare mancata inclusione, risolta solo oggi, dell’art. 260 TUA tra i delitti tabellati per la confisca allargata ex art. 12 D.L. 306/19924.

Solo recentemente veniva poi ampliato il catalogo dei delitti comportanti la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ex art. 25 undecies del D.l.vo n. 231 del 2001, norma infatti introdotta con l’art. 2 co. 2 del D.L.vo 7/7/2011 n. 121 che richiamava alcune fattispecie astratte proprie del codice dell’ambiente, tra cui il traffico organizzato di rifiuti ex art. 260 TUA e la prima versione miniaturizzata dei reati di inquinamento e disastro ambientale, ex art. 733 bis c.p. (tutela dell’habitat da distruzione e deterioramento all’interno di un sito protetto)5 .

Ciò comporta la possibilità applicativa delle misure cautelari correlate.

Come agevolmente rilevabile (e prevedibile) nel tessuto normativo di contrasto non emergeva traccia di richiami – diretti o indiretti – al reato di disastro ambientale innominato ex art. 434 c.p., pur rappresentando l’esteriorizzazione ultima del ciclo criminale ambientale.

  1. La rilevanza del fattore tempo e l’esperienza campana

 

Al cospetto dell’evidente inadeguatezza degli strumenti del passato segue la verifica delle potenzialità della nuova normativa, dovendosi prendere necessariamente atto che eventuali carenze potranno vanificare le possibilità di risanamento.

E’ chiaro che è il fattore tempo ad essere la prima incognita e che la complessità dell’accertamento rileva direttamente per cogliere le chance future: se, per esempio, la prescrizione dovesse decorrere esclusivamente dall’iniziale accertamento del danno, ne deriverebbe che l’operatore disporrebbe di una pericolosa alternativa, quella di affrettare le verifiche con il rischio della loro conseguente superficialità ovvero di procedere con accuratezza, con la probabilità della relativa inutilità.

Se invece si dovesse affermare che la prescrizione operi già prima dell’accertamento del fatto/evento, difficilmente si potrebbe ipotizzare una seria ed approfondita ricostruzione del fatto.

Onde evitare una sterile discussione in astratto e per confrontare la tenuta delle norme con una pluralità di fattispecie reali, è utile sintetizzare l’esperienza campana.

 

E’ naturale ed inevitabile lo sforzo investigativo che sottende ad un completo accertamento degli effetti delle condotte di traffico abusivo di rifiuti, gestito in modo organizzato, poiché se è vero che non tutte queste condotte giungono ad integrare un disastro ambientale è pur vero che è raro l’inverso.

Le difficoltà sono condizionate dalla rilevanza del fattore tempo e si illustra un caso giudiziario emblematico, unico nel panorama nazionale.

La indagini della DDA di Napoli hanno infatti ricostruito le condotte dei principali protagonisti del potenziale avvelenamento di un’intera generazione campana, disastro dipanatosi in una spirale, apparentemente inarrestabile, perseguita per un ventennio e sorretta ed ispirata dal clan dei casalesi, fruitore di una significativa parte degli utili e fondamentale garante della passività della collettività colpita e coinvolta.

Le investigazioni consentivano di evidenziare la rilevante vastità dell’inquinamento di un’area adibita a pluralità di discariche, tutte riferibili ad una gestione soggettiva unitaria, localizzate in Giugliano (area di estensione pari a circa 21.4 ettari), la durata ultraventennale degli smaltimenti di rifiuti pericolosi congiunti alle altre tipologie, l’immensa quantità di percolato veicolabile nel sottosuolo (stimata in complessive tn. 57.900), la previsione della contaminazione del percolato almeno fino al 2080, le quantità dei rifiuti smaltiti pari ad almeno 806.590 Tn (di cui 99.400 Tn smaltiti in rilevato), la pericolosità e commistione dei rifiuti ivi smaltiti (pari a circa 341.000 tn riguardo ai rifiuti speciali pericolosi, principalmente smaltiti negli invasi cd. I e II Catg e sotterrati nelle aree esterne agli invasi; pari a circa 160.500 tn riguardo ai rifiuti speciali non pericolosi, principalmente smaltiti nell’invaso cd. Cava X, in parte, ed in rilevato su tutta l’area; pari a circa 305.050 tn riguardo ai rifiuti RSU ed assimilabili, principalmente smaltiti negli invasi Cd. Cava X, in parte, e Cava Z), la vastità e profondità dei luoghi coinvolti dagli smaltimenti illeciti (dal fondo degli invasi, posto fino a circa –28m dal piano campagna, sino al rilevato, per altri 7-9m), la localizzazione dei rifiuti maggiormente pericolosi (come quelli prodotti da ACNA di Cengio, stimati tra i –12m e i –18m dal piano campagna, per l’Invaso II Cat.; tra –8m e –20m dal piano campagna, per l’Invaso di I Cat.), l’assenza di presidi tecnici per gli invasi, le modalità abusive degli smaltimenti –autorizzati da provvedimenti commissariali ideologicamente falsi ed abnormi -, la presenza di almeno un pozzo potenzialmente disperdente entro l’area, foriero di accelerazione antropica, l’elevata possibilità di fratturazione della formazione tufacea al di sotto degli invasi, unica barriera naturale tra gli invasi e la falda.

Veniva descritto – oltre al disastro ambientale - l’avvelenamento in atto della falda acquifera sottostante ai siti di discarica sopra indicati, risultando la falda inquinata, con rischio per l’agricoltura, per la salute animale e, secondo la normativa vigente (DLgs 152/06), la salute umana (nei casi di assunzione diretta), attesa la presenza di Alifatici Clorurati Cancerogeni (n.44 Tricloroetilene e n.45 Tetracloroetilene della Tab.2 All.5 DLgs. 152/06) di Alifatici Clorurati non Cancerogeni (n.50 1,2-Dicloropropano, stessa Tab. del DLgs.) per la presenza di alcune sostanze, tra quelle indagate, con concentrazioni oltre il limite tabellare dell’allora vigente DM 471/99 (1,2-dicloropropano, tri-tetra-cloroetilene) per superamento delle Concentrazioni Soglia di Contaminazione (CSC) nelle acque sotterranee prelevate dai pozzi.

Si tratta di un avvelenamento e disastro permanente con picco della contaminazione e dell’avvelenamento della falda acquifera previsto al più entro il 2064 (dunque a partire da una periodo anche prossimo), periodo in cui anche la naturale e più lenta migrazione dell’enorme massa di percolato stagnante raggiungerà la falda sottostante gli invasi e si aggiungerà alla contaminazione in atto.

Si rilevava, ancora, che la falda acquifera sottostante ai siti di discarica - in progressivo deficit idrico e sempre più compressa per la vicinanza del mare e per l’intrusione salina – risultava fortemente emunta in zona per l’attività agricola e industriale, nonché per scopi alimentari della popolazione residente nel comprensorio limitrofo, popolazione composta da un numero imprecisato di persone, con estensione anche oltre i confini della provincia di Napoli.

Per cogliere il grado di pericolosità della situazione della falda e dell’ambiente è sufficiente ricordare, in via esemplificativa, il grado di pericolosità dei rifiuti prodotti dall’ACNA di Cengio (uno dei disastri ambientali più gravi del nostro paese), osservare come quantitativi complessivi di rifiuti provenienti dall’ACNA - pari ad almeno 30.600 tonnellate - siano stati smaltiti nei siti individuati tra il 1987 ed il 1991 – emergendo il caso lampante di traslazione territoriale di un disastro ambientale.

Tali smaltimenti costituivano peraltro una delle innumerevoli analoghe condotte (con la differenza di essere stata intermanente smascherata) coinvolgenti i siti.

L’indagine accertava il carattere programmatico del ciclo mafioso culminato nello sfruttamento dei siti di discarica – quelli individuati sono, in realtà, solo alcuni dei siti utilizzati dal clan dei casalesi – e accertare l’effetto parzialmente differito, essendo posticipato nel tempo una significativa porzione dell’esito dannoso: la situazione è assai simile – con le dovute approssimazioni - all’avvelenanento patito da un organismo vivente, vittima della somministrazione di sostanze venefiche in grado di produrre i loro effetti nefasti anche distanza di tempo.

La ricostruzione, anche resa possibile dalla collaborazione di uno dei principali conoscitore del ciclo mafioso (il primo collaboratore di giustizia titolare di una discarica asservita al crimine organizzato ed esperto del settore e delle specifiche condotte di smaltimento illecito), unitamente alla prove già acquisite nel corso delle precedenti investigazioni (fondate anche su precedenti importanti dichiarazioni collaborative, su accertamenti tecnici, anche documentali), consentiva di acquisire elementi probatori granitici quanto al perpetuarsi, a partire dalla fine degli anni ’80 in poi, fino al 2004, di un continuativo massiccio smaltimento di rifiuti, realizzato in invasi del tutto privi di presidi ambientali (nominalisticamente definite “discariche” e formalmente autorizzate da amministrazioni colluse o del tutto inerti) ovvero in siti del tutto clandestini.

Le forme organizzate di tali smaltimenti e la tossicità dei rifiuti stabilmente ivi interrati o sversati era perfettamente illustrata dalle fonti collaborative tra cui spiccava l’accennato collaboratore che individuava diversi siti di gestione e smaltimento dei rifiuti e spiegava precisamente le modalità con cui i criminali aggiravano i dettati normativi ed effettuavano sistematicamente le operazioni di smaltimento illecito di rifiuti nocivi - consentivano finalmente sgretolare il muro di omertà che da sempre garantiva i segreti degli smaltimenti mafiosi, potendo solo un gestore di discariche o un grosso trasportatore conoscere i dettagli del ciclo criminale ed indicare con precisione i siti e le caratteristiche generali e specifiche dei rifiuti smaltiti.

Lo sfruttamento delle discariche risultava chiaramente legata al ciclo mafioso ed al relativo monopolio, nella finalità di produrre reddito, sia per il clan e per i singoli.

Il ciclo mafioso si dimostrava vincente per la capacità di attrarre i produttori di rifiuti nazionali mediante l’offerta di prezzi di smaltimento dei rifiuti decisamente competitivi, rispetto a quelli di mercato, ed all’abbattimento dei costi ed alla previsione di un’intermediazione mafiosa, scaturisce fisiologicamente la necessità di ridurre (o evitare del tutto) i costi smaltimento, ossia l’attrezzamento delle discariche ed una virtuosa gestione delle medesime.

Aldilà delle evidenze dirette quanto alla consapevolezza dell’assenza di presidi alle matrici ambientali, presso le discariche, ovvero della destinazione dei rifiuti in discariche totalmente abusive (e della pericolosità, nel singolo caso, del rifiuto gestito), era l’intero ciclo smaltitorio mafioso ad essere programmaticamente ideato come idoneo, ab origine, a provocare effetti disastrosi sull’ambiente ed effetti venefici sulle acque di falda.

Al cospetto di una indagine così complessa, è chiaro che la prova sia eterogenea e la prova dichiarativa si innesti in quella per intercettazioni ed il singolo documento debba essere metabolizzato all’interno degli accertamenti più squisitamente tecnici 6.

Da un pur rapido esame della complessità dei casi e degli approfondimenti tecnici richiesti, volti all’accertamento del danno, si comprenderà agevolmente come non si possa prescindere da una esatta individuazione del tempo disponibile per agire, per finalità di programmazione sia delle indagini che dei tempi processuali, non potendo l’operatore rimettersi al caso: per questo la trattazione si concentrerà principalmente sull’impatto del tempo di prescrizione sulle indagini e giudizio e, coerentemente dunque, sul momento di consumazione del delitto7.

  1. L’impatto della Legge n. 68/2015

 

Come troppo spesso accade l’approvazione della nuova normativa sui cd. Eco-reati, di cui alla Legge 22 maggio 2015 n. 68 (disposizioni in materia di delitti contro l'ambiente), è passata inizialmente sotto silenzio, nonostante l’evidente impatto della stessa non solo su numerosi processi in corso ma, soprattutto, sul futuro delle generazioni a venire.

Singolarmente, pur al cospetto del clamore destato da alcune recenti decisioni8 e delle ripetute declamazioni di futuri intenti, il neonato disastro ambientale disciplinato dagli Artt. 452-quater e quinquies c.p. (rispettivamente nelle corrispondenti formulazioni dolose e colpose) è apparso, da subito, privo di riferimenti immediatamente utili per risolvere il principale nodo interpretativo, ossia quello legato alla natura del delitto: il dilemma se si tratti di reato permanente o possa essere qualificato istantaneo ad effetti permanenti9 si delinea inalterato.

L’interprete potrà essere indotto a sottovalutare la questione alla luce del comma 6 dell’art. 1, la legge 68/2015 che ha operato un inasprimento della disciplina della prescrizione dei nuovi delitti «di cui al titolo VI-bis del libro secondo», i cui termini vengono ora raddoppiati rispetto a quelli ordinari previsti dall’art. 157, comma 6 cod. pen., con l’ulteriore elevazione provocata dalla previsione di una pena edittale massima più elevata (fino a 15 anni per il disastro ambientale doloso; fino a 6 anni per l’inquinamento ambientale doloso; previa riduzione di un terzo per le omologhe fattispecie colpose), allungamento pensato evidentemente proprio in rapporto alle fattispecie più gravi.

Se l’innovazione legislativa riduce infatti il pericolo di prescrizione per le condotte più gravi certamente consumate dopo l’entrata in vigore della norma, diversamente accade per quelle stesse provocate da azioni precedenti al maggio 2015, il cui destino risentirà decisamente dello sviluppo interpretativo, ragione per cui si impone ancora particolare rigore – per l’importanza dei casi già individuati o che verranno accertati negli anni a venire - nel verificare il termine iniziale di decorrenza della prescrizione.

Resta invece potenzialmente inadeguato il termine di prescrizione per le ipotesi di reato meno gravi, atteso che la contiguità tra i delitti tipizzati rischia di consentire lo scivolamento da un reato doloso ad un altro (con un repentino passaggio da 30 a 12 anni di prescrizione, salvo interruzioni) o, peggio, da un delitto colposo ad un altro (con conseguente riduzione da 20 a 8 anni di prescrizione) .

La complessità degli accertamenti da svolgere per l’individuazione dei responsabili del reato e la naturale distanza tra i fatti e la loro scoperta, rende agevole osservare come anche per fattispecie concrete sorte interamente nel prossimo decennio l’investigatore debba agire celermente.

Sono note le rilevantissime conseguenze di accedere ad una od altra interpretazione.

Nel caso in cui il delitto venga ritenuto, in via generale, permanente, ogni caso di disastro ambientale - risalente nel tempo e accertato solo in tempi successivi rispetto alle condotte commissive ovvero alle omissioni rilevanti - risulterebbe comunque in concreto sanzionabile, con le ricadute in termini di approfondito accertamento dei fatti, individuazione dei responsabili, valutazione del danno, confisca dei profitti attivazione del sub-procedimento amministrativo di messa in sicurezza e bonifica dei siti.

Qualora invece il delitto venga interpretato come reato istantaneo ad effetti permanenti, difficilmente le relative condotte sfuggirebbero alla mannaia della prescrizione e ciò comporterebbe l’estrema difficoltà di una ricostruzione completa dei fatti – dunque, tendenzialmente, l’impossibilità di provare compiutamente il danno all’ambiente -, la conseguente estrema difficoltà di attivare una seria bonifica dei siti interessati e, certamente, l’estrema difficoltà (se non impossibilità) di disporre dei fondi necessari, sottraendoli all’autore dei delitti10.

Le prospettive future passano dunque inevitabilmente sulla interpretazione della nuova disposizione: il grado di protezione dell’ambiente e – dunque – dei loro fruitori dipende dunque – in via diretta e proporzionale - dall’interpretazione della norma 11.

Se un fatto di reato non è più perseguibile - perchè già prescritto (oppure se ne è prevedibile l’esito estintivo) - sarà arduo individuare qualcuno in grado di indagare efficacemente e di accertare la permanenza dei danni da disastro; se nessuno sarà in grado di accertare tale permanenza, nessun Ente si interesserà delle bonifiche; se nessun Ente si interesserà delle bonifiche l’evento permarrà o, peggio, si aggraverà, nel silenzio generale.

Se poi si pensa al costo delle bonifiche per lo Stato, si comprende come la questione della natura giuridica sia una questione anche (e, per alcuni, solo) economica.

Il Legislatore ha dunque calato le nuove norme in una realtà estremamente complessa, giungendo per la prima volta a tratteggiare delle specifiche disposizioni di contrasto ai patrimoni accumulati dai soggetti responsabili o avvantaggiati, in relazione ad alcuni delitti (in realtà soltanto delitti dolosi, con esclusione di quelli colposi), al fine esplicitato di sostenere i costi della bonifica, introducendo un ciclo apparentemente virtuoso12, pronto però a trasformarsi in vizioso13.

Fino alla innovazione del 22 maggio 2015 era infatti impossibile o estremamente arduo giungere alla confisca dei profitti del disastro ambientale, ai sensi dell’art. 240 c.p.14, attuare la cd. confisca allargata ex art. 12 sexies D.L. 306/1992 15 o esercitare l’azione di prevenzione patrimoniale 16 e, in ogni caso, era impedita la sistematica devoluzione di quanto confiscato alle esigenze di bonifica, ora invece in parte possibile 17.

 

  1. L’evento naturalistico del disastro ambientale: le matrici coinvolte

 

Il primo passo per l’interprete è dunque la verifica della natura giuridica del disastro ambientale, ora non più innominato ma tipizzato, poiché l’impatto e l’efficacia della norma è direttamente connessa alla soluzione del principale nodo interpretativo, quello relativo alla consumazione del delitto .

Posto che la norma, generale ed astratta, risente chiaramente della fattispecie concreta da tipizzare e evidenziato che le ipotesi di disastro ambientale, teoricamente configurabili, sono difficilmente enumerabili, per intuibili esigenze di comprensione si farà riferimento ad una casistica tristemente diffusa in Italia, con picchi nella Regione Campania: ci si riferisce ai casi di smaltimento, continuativo e pluriennale, di rifiuti pericolosi in discariche – abusive o “incontrollate” – con effetti dannosi, sulle matrici ambientali terra, aria e acqua (falda).

L’evento naturalistico di danno in questi casi di disastro ambientale si atteggia in modo del tutto diverso a seconda delle matrici ambientali colpite; infatti:

a) per la terra, il danno si consuma, in modo diretto, con l’interramento dei rifiuti (o la collocazione in sopra-elevazione), quanto al locus direttamente interessato dagli smaltimenti: in questo caso quando la condotta ha termine la porzione di terra è contaminata e gli effetti permangono; in tal caso ha senso affermare che si tratti di illecito istantaneo (a condotta prolungata o eventualmente abituale o comunque lo si voglia denominare) con danno permanente.

Se il percolato od il gas prodotto dal rifiuto interrato si propaga invece, come spesso avviene, lateralmente, contaminando anche i terreni adiacenti e le relative colture, la situazione è diversa: in questo caso gli effetti sui terreni limitrofi risultano, in via tendenziale, temporalmente differiti, a seconda delle caratteristiche del sito, certamente sopravvenendo all’ultima condotta commissiva.

In quest’ultimo caso si tratterà di un evento parzialmente differito rispetto alla condotta, salva la verifica del momento della relativa ultima consumazione.

E’ comunque impensabile che l’evento = danno ambientale verificatosi per la parte futura, successiva all’interramento (rectius: per il terreno contaminato per effetto della migrazione laterale), rispetto al momento ultimo della condotta, possa essere eclissato giuridicamente ed incorporato ad un diverso evento, per il solo supposto tributo ad un dogma apodittico.

b) per l’aria la questione è del tutto diversa: per effetto delle condotte di smaltimento di rifiuti l’aria può essere contaminata dalle emissioni di gas – direttamente sprigionate dal sito oppure dai terreni adiacenti per migrazione laterale – e conseguentemente danneggiare, in modo irreversibile o meno, le colture adiacenti e la salubrità dell’habitat degli esseri viventi stanziali, animali o uomini. Ciò può accadere e manifestarsi in modo ancor più dirompente nel corso degli anni, dunque successivamente alle condotte umane di smaltimento, a seconda delle caratteristiche del rifiuto : la contaminazione dell’aria anche in questo caso segue alla nascita della discarica e permane, spesso aggravandosi nel tempo.

Il fenomeno naturale è quello della permanenza del danno, da ritenersi potenzialmente anche differito nel tempo, dunque proiettato nel futuro. Qualificare il delitto, a questo punto, quale permanente (con ossequio dell’interprete al fenomeno naturalistico descritto) ovvero quale delitto istantaneo ad effetti permanenti (con ossequio ad un dogma) rientra ovviamente nelle possibilità di umana interpretazione, scientificamente fondata la prima, illogica la seconda.

c) per l’acqua – di falda – il caso giudiziario appare emblematico per guidare l’interprete: la falda viene contaminata sempre dopo la condotta di interramento di rifiuti. Potrà essere inquinata o persino giungere ad essere avvelenata, nel qual caso il delitto contestabile unitamente al disastro ambientale (solo per quel che concerne l’acqua) sarà quello di cui all’art. 439 c.p.18.

In ogni caso è fisiologico che il tombamento preceda, spesso anche di molti anni, la contaminazione della falda : dipenderà dal cd. franco tra fondo discarica e falda, dalle caratteristiche morfologiche del terreno, dalle caratteristiche chimiche delle sostanze interrate, dalla profondità degli smaltimenti dei rifiuti più pericolosi, dalla lentezza o meno della velocità della falda e così via.

E’ dunque fisiologico che ciò avvenga a distanza di tempo, spesso anni. Una volta poi che la falda verrà contaminata / avvelenata si dovrà attendere la propagazione delle sostanze chimiche per rendere percepibile il danno, per uomini, animali o colture. Ciò normalmente avviene nel corso di anni, persino di decenni.

L’evento – danno alla matrice acqua – è dunque naturalmente differito. E’ un evento occulto, non solo verificato successivamente alla condotta, ma certamente accertato o percepibile diverso tempo dopo.

Come ogni evento occulto derivante da una precedente azione - condotta anch’essa tendenzialmente riservata, clandestina o persino segreta – sarà voluto dall’autore come tale: il termine a-tecnico di “tombamento” traduce perfettamente l’animus dell’attore, naturalmente votato a percepire profitti impedendo il rinvenimento delle tracce della relativa genesi: occultare gli effetti che si verificheranno dilatandoli nei tempi futuri, così da sfuggire all’individuazione ed alla sanzione.

Il danno ambientale si troverà in uno stato di lunga-latenza, per emergere in seguito, secondo i casi.

Non solo: per lo più il danno accresce con il passare del tempo ed è, come detto, direttamente voluto dall’autore come differito.

Da un punto di vista naturalistico il disastro ambientale connotato dalla contaminazione della matrice acqua è permanente e la sua vocazione naturalistica è la progressiva estensione, spaziale e temporale: è dunque impossibile qualificarlo diversamente, trattandosi non solo di evento occulto, appunto differito nel futuro - insussistente al momento della conclusione della condotta – ma anche suscettibile di progressivo aggravamento con il passar del tempo.

Non è minimamente ipotizzabile dunque, in un caso siffatto, sostenere l’istantaneità del delitto e la mera permanenza degli effetti: l’effetto/evento non c’è, ma ci sarà (o si è manifestato) a distanza di anni rispetto alla condotta ed altresì con progressiva dilatazione spaziale, sovente dopo un periodo di latenza.

In una caso del genere l’interprete deve contrapporsi alla natura se intende affermare il dogma del delitto istantaneo – creato sulla falsariga del crollo di edifici -, salvo pensare che sia l’interprete a dirigere la scienza e non viceversa.

La questione è poi ancora più evidente se si pensa al caso di disastro ambientale in cui – oltre alla terra ed all’aria – si accerti l’avvelenamento dell’acqua di falda: sarebbe estremamente arduo ipotizzare che il reato di avvelenamento di acque non abbia natura di delitto permanente (art. 439 c.p.)19.

  1. Il momento di consumazione del delitto di disastro ambientale

 

Posta questa pre-comprensione fenomenica, è opportuno prendere in esame il “novellato” delitto di disastro ambientale, isolato dalla sua sede originaria (l’art. 434 c.p., norma che ora copre i disastri innominati, diversi da quello cd. ambientale) e collocato in un nuovo Titolo, il VI bis, denominato dei “delitti contro l’ambiente”.

Pur nella consapevolezza dei possibili pericoli legati alle interpretazioni dell’avverbio “abusivamente”20 e la potenziale difficoltà di incriminare casi in cui gli effetti dannosi siano recati “secondo norma” 21, la nuova disposizione di cui all’art. 452 quater c.p. ricalca sostanzialmente le decisioni della Corte Costituzionale 22 e della Giurisprudenza della Corte di Cassazione quanto alla descrizione del tipo legale 23, giungendo a codificare il cd. “diritto vivente” e procedendo ad una esplicitazione delle condotte, significativamente individuate come tra loro alternative.

E’ importante osservare come non sia affatto irrilevante l’interpretazione della nuova norma del disastro ambientale nominato alla luce del precedente reato cd. “innominato”: vi sono in gioco le regole sulla successione delle leggi nel tempo, con le diverse possibili conseguenze sui processi in corso e sui casi futuri.

L’avvenuta codificazione del diritto vivente, come agevolmente rilevabile dal confronto delle diverse interpretazioni preesistenti con il nuovo testo normativo, ha infatti rilevantissime ripercussioni – per quel che sarà più chiaro a seguire – anche per l’individuazione del tempus commissi delicti rispetto ai fatti preesistenti, sia che questi siano attualmente sottoposti al vaglio del Giudice, sia che vivano ancora nell’oscurità, causa l’occultamento addebitabile ai responsabili.

La sostanziale incorporazione del diritto vivente nel testo di Legge (con la trasformazione del delitto quale reato di pericolo a consumazione anticipata, in reato di evento), semplifica l’opera dell’interprete, con l’esclusione del persistente “nodo” interpretativo, relativo all’applicabilità – o meno - della nuova norma anche per condotte risalenti, con evento di danno accertato dopo la sua entrata in vigore (oppure anche in costanza di processo, nel caso la condotta sia contestata come permanente).

Aldilà di quanto esplicitamente ritenuto dalla Corte di Cassazione nell’ultima decisione per il caso del disastro “Eternit”, in relazione al punto della natura giuridica del capoverso di cui all’art. 434 c.p. 24 - decisione che aveva comunque riportato all’interno del momento di consumazione il disastro verificato (apparentemente strutturato come circostanza aggravante), la nuova disposizione risolve ogni possibile questione, delineando il delitto come reato di evento, essendo ora dunque configurabile, in astratto, anche il tentativo di disastro ambientale.

A questo punto la consumazione del delitto si lega apertamente al verificarsi dell’evento – il disastro ambientale – e la ricostruzione della natura del reato passa dunque attraverso la disamina delle specificazioni normative (una sorta di “case law”), alla luce del sistema. Ossia si deve accertare, alternativamente :

1) l'alterazione irreversibile dell'equilibrio di un ecosistema;

2) l'alterazione dell'equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;

3) l'offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l'estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.

Essenziale si rileva anche l’esame dell’aggravante prevista dall’ultimo comma che recita : “Quando il disastro è prodotto in un'area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata”.

Dal testo della previsione aggravata, si desume infatti che la lesione al paesaggio, all’ambiente, al patrimonio storico, artistico, architettonico o archeologico di un’area e il danno alle specie vegetali ed animali, rilevino anche nello specificare l’ecosistema e, dunque, l’evento: la previsione dell’aggravante per i casi di aree protette o sottoposte a vincolo, dimostra l’assunto.

La accezione dunque di eco-sistema è assunta dal codice nella sua latitudine più estesa.

Potrà dunque trattarsi di un disastro ambientale provocato dalla costruzione di un “eco-mostro”, deturpante il paesaggio (perché, ad es., realizzato su una spiaggia), il patrimonio storico (perché, ad es., eretto innanzi al Colosseo), archeologico (ad esempio, una nuova strada sui Fori Imperiali) e così via.

Il delitto si consuma dunque non con la mera alterazione dell’equilibrio di un ecosistema, ma nel solo caso in cui tale alterazione divenga irreversibile (ovvero la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali): nella fase di possibile transizione tra l’alterazione e la sua irreversibilità ci si colloca all’interno del tentativo (compiuto) di disastro.

Analogamente l'offesa alla pubblica incolumità sussiste non quando siano semplicemente compromesse le matrici ambientali o sussistano effetti lesivi, ma quando tutto ciò si manifesti in modo esteso.

Così come deve essere esteso il numero delle persone esposto a pericolo o offese.

Nell’ipotesi di una limitata compromissione delle matrici ambientali che non sia ancora divenuta estesa, l’interprete dovrà optare per il delitto tentato, salva l’ipotesi di ritenere comunque integrato il diverso delitto di inquinamento ambientale, con la possibilità di ritenere consumate entrambe le fattispecie.

E’ dunque chiaro che il delitto si consumi quando si giunga alla irreversibilità della alterazione dell’ecosistema o ad una estesa compromissione delle matrici ambientali ovvero quando, per la rilevanza del fatto, si verifichino effetti lesivi che comportino una estesa esposizione al pericolo, per numero di persone coinvolte.

E’ immediatamente comprensibile come l’estensione e l’irreversibilità siano fenomeni progressivi e scientificamente non comprimibili in un unico istante.

Se l’interprete vorrà dunque individuare uno specifico momento spazio/temporale in cui si osservi la traslazione da una situazione reversibile ad una irreversibile e, contemporaneamente, a partire dal quale la compromissione e/o esposizione a pericolo si trasformi da limitata ad estesa, ritenendo dunque quello l’istante in cui si manifesta la consumazione del delitto ed ivi tracciando il confine a partire dal quale sorga il post-factum non punibile, ciò si rivelerà impossibile, salvo costui si ritenga dotato di poteri divinatori.

Connettere effetti decisivi all’individuazione di tale momento appare logicamente insostenibile, salvo trasformare la decisione motivata dell’interprete – abbia la veste di Giudice o meno - in un “verdetto”.

Se poi ci si confronti con le molteplici matrici ambientali suscettibili di essere alterate in modo irreversibile dalle medesime condotte, è assolutamente chiara l’impossibilità di individuare il momento a partire dal quale il delitto, già perfezionato, giunga a consumazione ultima: basti pensare al nostro caso di disastro ambientale provocato dallo smaltimento di rifiuti interrati, in cui la matrice terra (relativa al sito) è alterata irreversibilmente all’esito dell’ultimo tombamento del rifiuto, la diversa – per estensione - matrice terra (luoghi limitrofi allo specifico sito) è alterata irreversibilmente all’atto della trasmigrazione laterale del gas, del percolato e per gli effetti sull’aria; la vegetazione (se si tratta di terreno produttivo) è alterata irreversibilmente (?) in occasione del primo raccolto, laddove danneggiato, ripetendosi ciclicamente secondo stagione; la matrice aria lo sarà tendenzialmente a partire da un momento successivo al tombamento, quando il gas si sprigionerà e ciò accadrà come fenomeno progressivo ed inarrestabile; la matrice acqua sarà irreversibilmente contaminata all’atto della penetrazione del contaminante nella falda, ossia in modo occulto ed a distanza temporale, e vedrà la progressiva estensione della compromissione a distanza – spaziale e temporale – a seconda del cd. franco tra contaminante e falda, del carico dell’inquinante e della velocità della falda.

Il tutto alla luce delle rilevantissime questioni implicitamente trattate dalla Corte di Cassazione, nella decisione del 19 novembre 2014 imp. Schmidheiny e, soprattutto, della pacifica giurisprudenza della Corte di cassazione civile, necessariamente da esaminare anche nell’interpretazione della nuova disposizione.

Ci si riferisce al tema, espunto dalla valutazione di quella fattispecie per la ritenuta peculiarità del caso concreto, indicato significativamente dalla Corte nel caso di Schmidheiny come “oltremodo serio e meritevole di riflessioni approfondite”. Si tratta, testualmente :

  1. dell’”ipotesi dell'evento o del danno occulto, ovvero alla situazione in cui l'evento lesivo si è compiutamente già realizzato nella sua massima estensione ma è stato o è rimasto nascosto agli inquirenti;

  2. dell’ ”evenienza (a sua volta sensibilmente differente sul piano fenomenologico e concettuale) … dell'evento a distanza (pure evocata facendosi l'esempio di ordigno esplosivo seppellito che esplode dopo moltissimo tempo);

  3. dell’ ipotesi del “danno così detto lungo-latente cui si riferiscono, in ambito civile e agli effetti del risarcimento, Corte CEDU sentenza 11 marzo 2014, Howald Moor e altri c. Svizzera (relativa al caso di operaio, deceduto nel 2005, che nel maggio 2004 aveva appreso di essere affetto da un mesotelioma pleurico maligno per essere stato esposto all'amianto negli anni 1960-1970 in ambiente di lavoro) e la giurisprudenza civile di legittimità in tema di esordio della prescrizione ai sensi dell'art. 2947 cod. civ., ampiamente in linea con la posizione della Corte di Strasburgo in merito alla decorrenza del termine prescrizionale dalla manifestazione del danno in tutte le sue componenti nei casi in cui si riscontra un significativo scollamento temporale tra insorgenza del pregiudizio e condotta che lo cagiona (cfr., tra molte, Sez. U civ, n. 23763 del 14/11/2011, Rv. 619392, e n. 27337 del 18/11/2008, Rv. 605537)25”.

E’ infatti appena il caso di sottolineare che la ricorrenza dell'evento a distanza è, secondo la Corte di Cassazione, “sicuramente riconducibile alla nozione di consumazione rilevante ai sensi dell'art. 158 cod. pen.”.

Ossia l’evento verificatosi anche (o solo) a distanza, di tempo (evento temporalmente differito) e/o di luogo (evento spazialmente traslato ovvero, per esprimersi analogamente al legislatore, in estensione territoriale), è sicuramente incluso della consumazione; ciò non vuol dire altro che intendere il delitto, laddove a ciò si presti la singola fattispecie (come normalmente accade), quale reato progressivo nell’evento26 o eventualmente permanente27(ossia tendenzialmente, salva eccezione, permanente) o reato a evento differito28.

Se la sentenza citata si è dunque limitata a presentare la questione, ritenendola irrilevante per il caso di specie, pur sottolineando le importanti ripercussioni (il lessico utilizzato si dimostra, in realtà, sminuente la decisività dell’argomento), è a questo punto il caso di esplicitarle.

E’ necessario preliminarmente di osservare che, mentre la giurisprudenza penale della Cassazione si è spesso espressa con obiter dicta sulla questione della consumazione e prescrizione del delitto di disastro ambientale innominato, senza procedere a nessun approfondimento con riferimento alla parallela giurisprudenza della Cassazione in sede civile, quest’ultima ha senza esitazione alcuna delineato con chiarezza i principi di diritto cui necessariamente ispirarsi, senza consentire alcuna interpretazione difforme.

La ricostruzione della fattispecie astratta di reato, quale permanente o meno, rileva per l’individuazione del tempus commissi delicti e, in via principale, per calcolare il tempo necessario per l’operatività della prescrizione. Dunque lo studio del momento d’esordio della prescrizione, aldilà di ogni opinione teorica-astratta, si lega inesorabilmente con l’accertamento della consumazione del delitto, non rappresentando altro che il medesimo problema osservato da una visuale diversa.

Il fatto che lo studio delle fattispecie penali non sia stato alimentato dalla giurisprudenza civile è una constatazione che sicuramente sorprende l’interprete, aldilà della ritenuta reciproca autonomia dei due settori.

Posto che i medesimi principi sono stabilmente ribaditi nel tempo, è la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 13616 del 21/06/2011 (Rv. 618820)29 a ricostruire la progressione interpretativa, nel modo migliore, proprio sul tema dell’esordio del periodo prescrizionale30.

Aldilà del caso di specie 31 , la Corte di Cassazione ripercorreva il lungo percorso evolutivo - compiuto dalla giurisprudenza della Corte parallelamente alle riflessioni della scienza giuridica - nell'interpretazione degli artt. 2935 e 2947 cod. civ., culminato nella sentenza Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 576 32.

Il progressivo allontanamento dalla lettera dell'art. 2947 c.c., comma 1, specificativo dell'art. 2935 cod. civ. per la responsabilità aquiliana, ma vivente nell'esperienza giurisprudenziale e scientifica rispetto a tutte le azioni risarcitorie, veniva realizzato attraverso due passaggi fondamentali.

Il primo, risalente agli settanta del secolo scorso, ha spostato il dies a quo dal giorno in cui il fatto si è verificato, secondo la formulazione letterale dell'art. 2947, cit., all'esteriorizzazione del danno, sostituendosi allo schema del codice.

Decorrendo dal momento della manifestazione del danno, l'orizzonte della prescrizione poteva dilatarsi, e il limite ancorato dal legislatore al fatto causativo del danno diventava così mobile.

Il secondo, collocabile nei primi anni del 2000, ha ulteriormente contribuito allo spostamento del dies a quo, attribuendo rilievo, oltre alla manifestazione-conoscibilità del danno, alla rapportabilità causale del danno al comportamento posto in essere da un soggetto determinato.

Contemporaneamente, ha provveduto ad ancorare la conoscibilità soggettiva del danneggiato a due parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto, verificabili dal giudice senza scivolare in indagini di tipo psicologico.

Da un lato, al parametro dell'ordinaria diligenza; dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca.

L'inadeguatezza della sola esteriorizzazione del danno rispetto alla emersione di ragioni che potevano giustificare l'incolpevole inattività del danneggiato rispetto all'esercizio dei suoi diritti nel caso di danno derivante da malattia, contratta per contagio a causa del fatto (doloso o colposo) di un terzo, portò la Corte ad affermare che la prescrizione inizia a decorrere, a norma dell'art. 2947 cod. civ., comma 1, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.

Nel caso in cui non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sè a concretizzare il fatto che l'art. 2947 cod. civ., comma 1, individua quale esordio della prescrizione 33. Il principio della rapportabilità causale, affermato originariamente per il fatto dannoso lungolatente, rinvenuto nella malattia da contagio, si è poi ramificato nella giurisprudenza della Corte coinvolgendo altri settori: dalla responsabilità professionale34, alle malattie professionali e infortuni sul lavoro 35.

Le Sez. Un., con la sentenza n. 576 del 2008 (contestuale a Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 581, seguita da Sez. Un. n. 18 novembre 2008, n. 2733736), hanno fatto proprio tale approdo, mettendo in luce che l'interpretazione dell'art. 2947 c.c., comma 1, nel senso di dare rilievo alla percepibilità e riconoscibilità del danno, nonché alla sua rapportabilità causale, trovava conferma nelle espresse discipline legislative in tema di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivanti dall'impiego di energia nucleare e da prodotti difettosi.

Il principio suddetto, si è consolidato nelle decisioni delle sezioni semplici della Corte, essendo applicato in tema di risarcimento del danno da sinistro stradale 37.

La linea evolutiva della giurisprudenza descritta, e oramai consolidata, ha quindi sostituito il risalente indirizzo interpretativo, secondo cui il termine del diritto al risarcimento da fatto illecito decorre dalla data del fatto assunto come causativo, salvo l'esistenza di ulteriori danni o l'ipotesi di illecito permanente.

Conseguentemente, risulta notevolmente ristretto il campo di applicazione del diverso principio secondo cui, l'impossibilità, rilevante come fatto impeditivo alla decorrenza, ai sensi dell'art. 2935 cod. civ., è solo quella che deriva da cause giuridiche che ostacolino l'esercizio del diritto e non da impedimenti di mero fatto, quali l'ignoranza dell'evento generatore del danno da parte del titolare del diritto. Di quest'ultimo profilo, nella giurisprudenza esaminata a partire dal 2003 (data in cui comincia ad affermarsi il principio della rapportabilità causale) si registrano applicazioni, sia in materia contrattuale38, che extracontrattuale 39.

Quando l'ignoranza della condotta generatrice costituisca uno stato comune a chiunque usi la normale diligenza (dove l'oggettività deriva dalla generalità della situazione) o sia indotta dall'applicazione di una norma sussiste l'ostacolo all'esercizio del diritto, che impedisce l'inizio di decorrenza della prescrizione.
Se dunque l'ignoranza in merito alla causa generatrice del danno e al soggetto che l'ha posta in essere investe non solo il soggetto danneggiato ma ogni altro soggetto che adotti la comune diligenza, non può addebitarsi a questi un difetto di attività (ossia si versa ancora nell’ignoranza e non si passa all’inerzia, la cui sanzione è il decorso della prescrizione), poiché non può iniziarsi un giudizio esplorativo sotto il duplice profilo della responsabilità e dell'individuazione del soggetto imputabile, per stabilire se il danno sia conseguenza di fatto illecito (ovvero di inadempienza) e chi sia il soggetto a cui esso vada addebitato.

In tal modo, la conoscibilità soggettiva del danneggiato è ancorata a un parametro obiettivo e conseguentemente la prescrizione non può iniziare a decorrere sino a che non è legalmente conoscibile la causa del preteso danno, poiché la mera esistenza empirica del fatto assunto come causativo del danno, non ancora attribuibile a soggetto determinato, non è idonea in sè a concretizzare il fatto che l'art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione.

Appare quindi chiaro che in tutti i casi di disastro ambientale connotati da evento differito rispetto alla condotta, originariamente occulto e poi svelato e di danno lungolatente, la decorrenza della prescrizione – dunque il perfezionamento della consumazione del reato – dipenderà dalla conoscenza o conoscibilità del danno e della derivazione causale dal comportamento di un soggetto terzo, colposo e doloso.

E’ impossibile dunque immaginare che si possa dunque parlare, in casi siffatti, di reato istantaneo ad effetti permanenti, secondo le conseguenze, in tema di prescrizione, usualmente connesse a tale riconduzione.

Non è un caso che una delle sentenze a Sezioni Unite citate nella decisione relativa al caso cd. Eternit, la Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 14-11-2011, n. 23763, si sofferma, in motivazione, nel distinguere il caso di illecito istantaneo da quello permanente, dicotomia distante anni luce da quella propria della giurisprudenza penale: la Corte ribadisce, in proposito, che (Cass. 24 agosto 2007, n. 17985), nel caso di illecito istantaneo, caratterizzato da un'azione che si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti, la prescrizione del diritto al risarcimento incomincia a decorrere con la prima manifestazione del danno, mentre, nel caso di illecito permanente, protraendosi la verificazione dell'evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della condotta dannosa, sicchè il diritto al risarcimento sorge in modo continuo via via che il danno si produce, e in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si verifica.

Dunque, in ogni caso, anche nell’ipotesi di illecito istantaneo, la prescrizione inizierebbe comunque ad operare al momento della prima manifestazione del danno, momento comunque di molto successivo sia al momento finale dell’azione (o omissione) e comunque almeno collegabile, nella più remota delle ipotesi, al momento dell’accertamento del reato e della relativa soggettiva imputabilità del fatto ai responsabili.

 

Al principio seguono poi ulteriori corollari : in presenza dunque di illecito che determini, dopo un primo evento lesivo, ulteriori conseguenze pregiudizievoli, il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria per il danno inerente ad esse decorre dal loro verificarsi, purché sia ravvisabile una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l'esaurimento della condotta del responsabile, come nel caso in cui si passi dall'indebolimento permanente di un senso o di un organo alla sua perdita, atteso che l'ulteriore manifestazione dell'evento lesivo, in parte rimasto latente, andando oltre la minore gravità, che poteva fondare - rendendola incolpevole - l'inattività del danneggiato rispetto all'esercizio del diritto, supera la qualificazione come aggravamento e sviluppo della malattia, integrando un fatto nuovo nella percezione del soggetto che deve decidere se esercitare il diritto al risarcimento 40 .

 

L’unica obiezione che può provenire dall’interprete involuto è quella di ipotizzare l’assoluta non interferenza tra il regime della prescrizione del reato e quella del danno derivante dal reato, nonostante l’esplicito richiamo della norma civilistica : ne seguirebbe l’esistenza di due regimi di prescrizione, anche nel caso di azione civile esperita in sede penale, tali da rendere plausibile – secondo l’ipotesi astratta formulata - l’assoluzione di un imputato per prescrizione e la contestuale condanna del medesimo al risarcimento del danno, sulla base del principio opposto.

Tale conclusione sarebbe la sola a consentire di salvare il dogma del delitto istantaneo ad effetti permanenti, sacrificando soltanto la logica umana e quella giuridica.

Anche tale bizzarra ipotesi (meramente astratta) è comunque esclusa anche dalla decisione citata, in motivazione, nel caso cd. Eternit, ossia la sentenza delle Sez. U, Sentenza n. 27337 del 18/11/2008 (Rv. 605537), secondo cui “qualora l'illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche per difetto di querela, all'azione risarcitoria si applica l'eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato (art. 2947, terzo comma, prima parte, cod. civ.) perché il giudice, in sede civile, accerti "incidenter tantum", e con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto- reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi. Detto termine decorre dalla data del fatto, da intendersi riferito al momento in cui il soggetto danneggiato abbia avuto - o avrebbe dovuto avere, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche - sufficiente conoscenza della rapportabilità causale del danno lamentato” (Fattispecie: sinistro stradale, avvenuto il 24.4.1994, nel quale era rimasto coinvolto il minore Nicolosi Paolo, che aveva riportato lesioni personali con postumi permanenti invalidanti del 100%).

Nella decisione, di estremo rilievo, si individua anche come vi sia una fondamentale esigenza di omogeneità nel caso di danno conseguente da reato, quanto al regime della prescrizione: per questa ragione tra le norme giuridiche di riferimento racchiuse nell'art. 2947 c.c., in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, il comma 3 crea una norma di rinvio in bianco quanto alla durata del termine, rinviando alle norme penali.

La decisione, delineando poi come occorra fare riferimento all'astratta configurabilità del fatto come reato e non alla sua concreta punibilità (sul punto anche Cass., sez. U, 6 dicembre 1982, n. 6651; Cass. 20 novembre 1990, n. 11198) rilevava come la ratio originariamente assegnata a tale norma fosse quella di evitare che per il medesimo fatto l'azione civile potesse estinguersi, quando l'azione penale fosse ancora in vita.

Pur ritenendo superato tale principio monolitico in ragione dell’autonomia tra giudizio civile e penale, le Sezioni Unite sottolineavano esplicitamente – riducendo la divergenza al solo tema probatorio - che “Ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti (Cass. S.U. 11/01/2008, n. 576; Cass. S.U. 11/01/2008, n. 582)”.

Veniva sottolineato poi che “Qualunque possa essere la ratio originaria dell'art. 2047 c.c., comma 3, e cioè sia quella di evitare che la pretesa risarcitoria civile si prescrivesse prima della perseguibilità penale, sia la scelta del legislatore di elevare il tempo di prescrizione in relazione al disvalore del fatto, considerato come reato, come sostenuto da alcuni, va osservato che la perdita di valenza (nell'evoluzione dell'ordinamento) della prima pretesa ratio e del conseguente criterio interpretativo su di essa fondato comporta che non possa essere superata l'interpretazione letterale del cit. art. 2947, comma 3, che equipara la prescrizione civile a quella penale, ove più lunga, sulla base della sola "considerazione" del fatto come reato sotto il profilo ontologico, indipendentemente dalla circostanza se per esso si proceda penalmente”.

Il richiamo al “profilo ontologico” chiarisce dunque – laddove ve ne sia motivo – l’impossibilità di giungere ad una differenziazione di posizioni, coerentemente del “rilevato trend interpretativo – evolutivo (che) si ispira al diverso principio secondo cui è palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa, far ricadere conseguenze negative a carico di un soggetto per ritardi o omissioni di altri e perciò del tutto estranei alla sfera di disponibilità del primo (cfr. Corte Cost. 26/11/2002, n. 477)”.

Proprio a seguire le Sezioni Unite ribadivano la vigenza del principio in tema di esordio della prescrizione ed il richiamo risolve qualsiasi diversa interpretazione; testualmente : “È appena il caso di ricordare che in relazione al dies a quo per la decorrenza della prescrizione, sinteticamente indicato nell'art. 2947 c.c., comma 1, nella locuzione "giorno in cui il fatto si è verificato", rimangono validi i principi già fissati da queste S.U. con le sentenze 11.1.2008, n. 576, 580 e 582, ed altre in pari data, con riferimento al momento in cui il soggetto danneggiato abbia avuto ( o avrebbe dovuto avere, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche) sufficiente conoscenza della rapportabilità causale del danno lamentato”.

 

Dunque, in tale panorama, la dottrina e giurisprudenza penale in tema di consumazione e prescrizione deve arricchirsi di nuove categoria dogmatiche da utilizzare per attuare la cd. “teoria della realizzazione” (anche indicata come teoria dell’esteriorizzazione o percezione) concernente i delitti con evento di danno (e non solo) occulto, percepibili a distanza, differiti temporalmente negli effetti, prima latenti, con abbandono di diverse categorie, potenzialmente devianti, quali quelle del reato istantaneo ad effetti permanenti 41.

Né può assolvere allo scopo ricondurre semplicemente questi casi nella categoria dei delitti permanenti: è sicuro infatti che non tutte le fattispecie di disastro ambientale presentino connotazioni rigidamente permanenti e, nel caso in cui sia pacifico che non ricorrano siffatte condizioni, sarebbe certamente inadeguata la soluzione che conduce sempre alla fictio juris di ritenere cessata la permanenza alla data della sentenza di condanna di primo grado, dovendosi invece legare il tempus commissi delicti alla realizzazione, da parte del soggetto leso, del danno e della riferibilità causale ad un soggetto.

 

Tale ricostruzione è inoltre imposta anche dalla necessità di interpretare le norme interne nel modo più aderente alla dimensione ermeneutica della Corte EDU, come pacificamente statuito dalla Corte Costituzionale (vedi sent. N. 239 del 2009 e sent. n. 49 del 2015): è da citare, sul punto, il caso della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 11 marzo 2014, Howald Moor e altri c. Svizzera, richiamata anche dalla Corte di Cassazione nel caso cd. Eternit 42.

La Corte di Strasburgo premetteva che il diritto ad un processo equo di cui alla prima parte dell’art. 6 della Convenzione postula che gli Stati debbano garantire un accesso alla giustizia che consenta un’effettiva tutela dei diritti civili e che l’accesso alla giustizia, nei termini anzidetti, può essere soggetto a determinate limitazioni, purché le stesse perseguano uno scopo legittimo, siano proporzionali allo scopo e non pregiudichino nella sostanza l’effettività del ricorso giurisdizionale.

Tra questi, i termini legali di prescrizione e decadenza sono asseverabili quali limitazioni consentite che, nelle questioni che investono l’integrità della persona, mirano a garantire la certezza del diritto, a mettere al

riparo il convenuto da pretese, esercitate a notevole distanza di tempo, circa le quali è difficile controbattere e a evitare che i tribunali si pronuncino su eventi accaduti in un passato assai risalente, sulla base di prove corrose dal trascorrere del tempo. Ciò non di meno, il diritto di accesso alla giustizia da parte di soggetti la cui integrità fisica sia stata lesa postula che essi, per esercitare il loro diritto di agire in giudizio, siano effettivamente in grado di apprendere di aver subito un danno risarcibile.

E nel caso di malattie a lungo latenti, come quelle ingenerate dall’amianto, ogni azione risarcitoria sarebbe destinata a priori all’insuccesso in un regime di prescrizione dei diritti, come quello svizzero, ove il termine decennale, piuttosto che dal momento in cui il danno si manifesta con compiutezza, si faccia decorrere dal momento dell’accadimento dell’evento dannoso, dunque molto prima che il danneggiato possa aver contezza del proprio diritto di agire in giudizio.

Un sistema di questo tipo veniva dunque tacciato di privare radicalmente il danneggiato del diritto di instare per il risarcimento del danno, in ciò concretizzando una violazione dell’art. 6 della CEDU.

Era dunque coerentemente stabilito che il principio di certezza del diritto debba arretrare sistematicamente di fronte a quei casi in cui il limite temporale si trasforma in un vero e proprio diniego di giustizia a carico dell’incolpevole destinatario della protezione giuridica 43.

 

La conclusione eletta dalla Corte di Cassazione, Sezioni Civili, è dunque l’unica soluzione possibile per l’interprete, opzione che consente di tutelare le generazioni future, fruitori dell’ambiente.

E’ dunque inevitabile giungere ad un mutamento totale di prospettiva e che porta alla definizione del delitto di disastro ambientale quale delitto di evento – tendenzialmente occulto – a consumazione progressiva ed esteriorizzazione differita, con danno lungo-latente .

Saranno i casi concreti a stabilire se la categoria di riferimento sia quella del delitto permanente (ipotesi più valida, essendo la più diffusa, secondo criteri naturalistici) o quella del reato eventualmente tale.

Seguendo tale interpretazione necessitata, ad ogni rivelazione/accertamento di un disastro ambientale rimasto occulto/non percepito/differito/con danno (ambientale) lungo-latente, segue l’inverarsi della consumazione del delitto e la decorrenza della prescrizione, dovendosi dunque applicare interamente le nuove disposizioni penali.

Anche per azioni commesse in un passato remoto, ricorrendo le condizioni citate dalla pacifica giurisprudenza, si imporrà dunque l’applicazione della nuova norma.

 

Si deve ora valutare l’impatto delle nuove norme che consentono l’aggressione ai patrimoni illeciti di coloro che abbiano cagionato un disastro ambientale, permanente all’attualità, evento cagionato attraverso un’azione anche remota nel tempo.

  1. Gli strumenti di aggressione al patrimonio previsti dalla nuova Legge ed i relativi limiti

 

E’ necessario inizialmente ricordare ciò che si è detto nel pgf 1, in premessa, ossia come normalmente si struttura la filiera criminale che porta al disastro di un eco-sistema: l’interessato e primo beneficiario della condotta – in sostanza colui che funge da causa principale del danno – nella quasi totalità dei casi, agisce esclusivamente per ottenere un risparmio di spesa, essendo il profitto in senso stretto in capo ai soggetti che lo agevolano a fine di lucro, venendo da costui compensati.

Come già rilevato nella trattazione delle nuove disposizioni quanto al tempus commissi delicti, il Legislatore si è analogamente dimostrato incapace di cogliere pienamente la realtà del fenomeno anche quanto agli strumenti di riparazione del danno “per equivalente”, mostrandosi ignaro della comprensione del fenomeno.

La prima falla è aver legato la confisca, anche per equivalente, al solo profitto e non al danno ambientale provocato (rectius al costo della bonifica del sito).

La disposizione di cui all’Art. 452-undecies c.p. prevede esplicitamente, infatti, la confisca del profitto, anche per equivalente.

Mentre il danno è, in via tendenziale, suscettibile di stima (corrispondendo al costo complessivo della bonifica), la quantificazione del profitto è impresa talora ardua. E’ comunque sicuro che la confisca del profitto non costituisca poi adeguata forma di riparazione.

E’ la Corte Suprema di Cassazione – Penale, Sezioni Unite – con la Sentenza n. 26654/2008 44 ad illustrare infatti le linee guida, giungendo a definire il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca (nel caso disposto -ai sensi degli art. 19 e 53 del d. lgs. n. 231/201, nei confronti dell'ente collettivo), almeno nel caso del cd. reati in contratto, come “il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente”.

Posto che il profitto è difficilmente quantificabile e non può essere individuato attraverso semplificazioni probatorie, quali accertamenti presuntivi45, è chiara la problematica: servendosi sempre dell’esempio di un disastro ambientale provocato dall’interramento di rifiuti pericolosi – normalmente non quantificabili ed il cui valore è tendenzialmente valutabile solo attraverso il metodo induttivo-deduttivo – è agevole comprendere come sia quasi impossibile calcolare il profitto e, dunque, aggredire il patrimonio degli autori del crimine.

Qualora poi, per avventura, fosse possibile accertare con precisione il quantum, dovrebbe essere comunque scomputata l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato46, con esclusione però dei costi sostenuti per la commissione del reato, questi sicuramente “indeducibili”, salvo il problema della loro relativa individuazione 47.

Il tutto complicato, peraltro, dalla (talora) ritenuta impossibilità – per ampia casistica – di confiscare al responsabile il valore equivalente ai “costi risparmiati” 48, a fronte della esperibilità dell’azione cautelare reale relativo al profitto indiretto, ossia, per esempio, “l'incremento del patrimonio dell'autore del reato reso possibile dall'investimento (in territorio estero) dei proventi del delitto consumato in territorio italiano” 49.

Si tratta peraltro di conclusione da abbandonare, benchè sovente citata dalla Giurisprudenza: è sufficiente ricordare la norma in materia di reati tributari - ex art. 1, comma centoquarantatreesimo, l. 24 dicembre 2007, n. 244 - ed osservare come non vi sia alcun elemento per ritenere tale norma eccezionale rispetto al sistema : la previsione della confisca del valore equivalente al risparmio di spesa evidenzia che non vi sono possibilità di escludere il sequestro nei riguardi del primo beneficiario della condotta, colui che si limita a lucrare riducendo i costi.

E’ poi opportuno ricordare la giurisprudenza relativa al delitto di cui all’art. 260 TUA, in relazione al dolo specifico richiesto dalla norma – essendo richiesto in capo all'agente il particolare scopo di conseguire un "profitto ingiusto" – laddove la Corte di Cassazione ha ritenuto che per integrare il reato il "profitto" - si legge giustamente nella sentenza 40827/05 - non deve necessariamente assumere natura di ricavo patrimoniale, “ben potendo lo stesso essere integrato dal mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura". Si tratta di interpretazione logica e consolidata, comunque fondamentale escludere qualsiasi forma di limitazione alla confisca anche di questa forma di profitto indiretto50.

Ipotizzando l’applicazione dell’istituto per il caso giudiziario del disastro ambientale Eternit, appaiono lampanti le difficoltà valutative, il che stride al cospetto di una più agevole quantificazione laddove commisurata al danno51.

E’ noto che vi è, infatti, una mostruosa sproporzione, proprio nel caso dei delitti ambientali, tra il profitto ottenuto dall’autore ed il danno arrecato dalla condotta.

Posto che il movente dell’azione del responsabile è sempre quello patrimoniale, è noto che l’autore danneggi per 1.000, al fine di lucrare, ad es, un risparmio di spesa di 10; per compensare poi colui che consente tale risparmio, il beneficiario principale versa un prezzo percentuale del risparmio a colui che trarrà diretto profitto, questa volta individuabile attraverso un diretto arricchimento patrimoniale .

Proprio in questa materia sarebbe stato certamente preferibile prevedere una confisca, anche per equivalente, commisurata al danno ovvero una peculiare forma di  sequestro conservativo in fase d’indagine, sempre con previsione di destinazione dell’importo al ripristino ambientale/bonifica dei luoghi.

Né può ritenersi che una tale iniziativa estranea al sistema: è appena il caso di osservare che il risarcimento, in caso di condanna, è commisurato al danno e non certo al profitto, sicchè si sarebbe potuto ideare uno strumento normativo per finanziare interamente, nel caso di disponibilità di provviste finanziarie sufficienti in capo agli autori, le bonifiche.

Del resto la norma di cui all’ART. 311 TUA individua proprio l’azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale relativa al danno ambientale 52 che ben avrebbe potuto essere anticipata ed assistita, in fase d’indagine, dallo strumento dell’azione cautelare reale con devoluzione delle somme al patrimonio pubblico, per destinarle alla bonifica.

L’unico presidio volto a garantire il recupero del quantum necessario a riparare il danno, potenzialmente fruibile, è infatti l’azione cautelare conservativa di cui all’art. 316 c.p.p. che però - rapportata al danno - risente infatti delle innumerevoli difficoltà operative: la fase processuale in cui si innesta 53, la necessità che sia la parte civile a richiedere il sequestro54 e l’esistenza di un credito approssimativamente quantificabile 55 , sono tutti requisiti che rendono limitate le possibilità di garantire il costo della bonifica attraverso tale strumento 56 .

Il riferimento, poi, all’esclusione della confisca nel caso di messa in sicurezza efficace, consente una via di fuga, su cui ci si esprime a seguire.

Ancora, il fatto che la confisca del profitto sia esclusa nel caso di delitto colposo, crea sensibili conseguenze nel caso di de-rubricazione del delitto da doloso in colposo.

Alla previsione del sequestro del solo profitto (anche per equivalente) segue infatti la limitazione al solo caso di delitto doloso, con esclusione esplicita nel caso di delitto colposo : è appena il caso di sottolineare come spesso le condotte di disastro ambientale vivano nel limbo tra colpa cosciente e dolo eventuale (soprattutto riguardo ai concorrenti, non direttamente protagonisti del delitto), sicchè le valutazioni in un senso o nell’altro avranno un peso straordinario in ordine alle chance di confisca (vedi l’art. 452 undecies che esclude il 452 quinquies) e, dunque, di imputazione economica dei costi della bonifica (conseguentemente proprio della bonifica, che rischia – è un eufemismo – di restare inattuata). 

Non è saggio consentire che ciò possa accadere, in una materia come questa.

In sintesi si potrebbe sequestrare un patrimonio infinito che verrebbe restituito all’atto della de-rubricazione da doloso a colposo, pur in presenza – come spesso accade - di una danno ambientale immenso .

 

Pur essendo certamente importante l’innovazione normativa, non appare decisiva neppure la possibilità, ora prevista con la nuova Legge, di procedere alla confisca ex art. 12 sexies D.L. 306/1992, consentita dalla norma in commento nel caso di statuita responsabilità per i reati 452-quater, 452-octies e 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

Si tratta della cd. confisca “allargata”, avente ad oggetto i beni e le altre utilità di cui il condannato (e l’indagato, in fase di indagini preliminari, attraverso il sequestro preventivo) non sia in grado di giustificare la provenienza, di cui risulti essere titolare, anche per interposta persona, ovvero avere la disponibilità a qualsiasi titolo di valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla propria attività economica.

E’ appena il caso di accennare al fatto che il profitto del reato sia per definizione “ingiustificato” ai sensi della norma, sicchè, in linea teorica, il profitto – o il suo equivalente – potrebbe essere confiscato anche ai sensi dell’art. 12 sexies D.L. 306/1992, con le implicazioni che seguiranno.

E’ evidente che laddove non sia possibile calcolare il profitto ricavato dal responsabile del delitto e costui disponga di un patrimonio proporzionato al reddito dichiarato ed alla attività economica svolta, non sarà mai possibile finanziare la bonifica o messa in sicurezza con i fondi tratti dal patrimonio del reo, dovendosi necessariamente attendere l’esercizio dell’azione penale per procedere – solo nel caso vi siano i presupposti e nei limiti degli stessi – al sequestro conservativo dei beni, dunque congelati per il tempo che occorre all’irrevocabilità della sentenza, senza possibilità di utilizzarli per la bonifica.

Dove, invece, risulti possibile giungere alla confisca del patrimonio del reo, agendo ex art. 12 sexies D.L. 306/1992, i fondi non potrebbero comunque essere direttamente devoluti a sostegno della bonifica, in assenza di esplicito richiamo.

Il tutto accade, peraltro, in modo apparentemente incoerente rispetto alla previsione dell’Art. 452-duodecies. (Ripristino dello stato dei luoghi), per il quale - in caso di sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per taluno dei delitti previsti dal titolo -, il giudice ordina il recupero e, ove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi, ponendone l'esecuzione a carico del condannato e dei soggetti di cui all'articolo 197 del presente codice.

E ancora accade con analoga apparente incoerenza rispetto all’obbligo di bonifica previsto ex art. 452-terdecies (Omessa bonifica) secondo cui “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 a euro 80.000.

Posto che il Legislatore declama la necessità di ripristinare lo stato dei luoghi, recuperandoli (o meglio tentando di farlo) alla dimensione ante disastro, sanzionandone l’omissione, sarebbe stato logico che avesse creato i presupposti per consentire di disporre direttamente ed immediatamente del patrimonio del reo, commisurato al costo della bonifica, così da finanziare direttamente la stessa, limitando l’obbligo di auto-ripristino, in capo all’autore, a casi scarsamente rilevanti.

Affidare al responsabile del disastro un’attività estremamente impegnativa dal punto di vista economico (spesso inesigibile57), senza prevedere – in apparenza – un capillare controllo delle relative modalità esecutive, appare una opzione estremamente singolare: il fatto che si preferisca che il ripristino dei luoghi sia a carico economico dell’imputato, lasciando all’autorità il solo controllo delle modalità attuative, fa pensare che lo Stato possa avere interesse ad abbandonare il tutto ad una gestione meramente privatistica .

Chi abbia avuto esperienza delle procedure di bonifica direttamente attuate da Enti Pubblici o Autorità commissariali non fatica a comprenderne le ragioni.

Il concreto pericolo è che l’imputato condannato, per assolvere all’obbligo (cogente peraltro solo dopo l’irrevocabilità della sentenza), trasli altrove il disastro ovvero mascheri l’avvenuto ripristino ambientale con espedienti documentali.

Il riferimento normativo, attivato dall’Art. 452-duodecies., II comma, (Ripristino dello stato dei luoghi) è al titolo II della parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (“Al ripristino dello stato dei luoghi di cui al comma precedente si applicano le disposizioni di cui al titolo II della parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in materia di ripristino ambientale”), ossia agli artt. dal 304 a 310.

E’ qui che l’interprete dovrà sforzarsi di evitare soluzioni che rischino di rappresentare soltanto degli artifizi operati dall’imputato.

A fronte delle carenze sopra citate, il legislatore è invece direttamente intervenuto ad escludere - ex art. 452 undecies, ultimo comma - la confisca dei soli profitti, anche per equivalente58, qualora l’imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica o ripristino dello stato dei luoghi 59.

Si tratta di una conseguenza, in termini economici, del ravvedimento operoso indicato dalla disposizione di cui all’art. 452 decies, per cui è prevista una riduzione di pena per l’imputato che “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi”.

A ciò peraltro segue l’insidiosissima disposizione normativa secondo cui :

“Ove il giudice, su richiesta dell’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado disponga la sospensione del procedimento per un tempo congruo, comunque non superiore a due anni e prorogabile per un periodo massimo di un ulteriore anno, al fine di consentire le attività di cui al comma precedente in corso di esecuzione, il corso della prescrizione è sospeso”.

Dunque la messa in sicurezza dovrebbe essere necessariamente iniziata nel corso delle indagini, ovviamente dopo l’accertamento del reato, ed essere ancora in corso di esecuzione alla data di apertura del dibattimento.

Nessuna norma stabilisce quali siano i poteri del Giudice e chi sia competente, ed in quali forme, nelle diverse fasi, quanto al controllo delle relative iniziative: il G.i.p., il P.M., il G.u.p. o il Tribunale.

Si ricorda, ad esempio, che la gestione dei beni sequestrati ex art. 12 sexies L. cit. permane in capo al Gip anche dopo la fase delle indagini preliminari (ed anche nei gradi successivi)60, diversamente dal caso di sequestro per equivalente e ciò rileva considerato che non è neppure possibile accomunare le gestioni dei beni laddove i titoli siano diversi 61.

Le problematiche sono tali e tanto numerose da rendere qui impossibile una seppur rapida disamina.

La norma crea inoltre un possibile corto circuito: posto che nessuna disposizione chiarisce i poteri/doveri del Giudice ed i presupposti, è evidente la possibilità di strumentalizzazione (ossia certezza di strumentalizzazione) legata all’applicazione della stessa.

Il costo delle iniziative ha reso estremamente raro, salve ipotesi cd. bagatellari, il verificarsi di una seria e sostenibile messa in sicurezza,  bonifica e (ove possibile) ripristino dello stato dei luoghi proveniente dall’autore.

Nel caso in cui l’imputato dovesse disporre di risorse per finanziare una seria bonifica, compito dell’inquirente è certamente quello di agire per sequestrarle, attraverso le potenzialità del sistema e, con questo denaro, procedere affidandole all’Ente Pubblico incaricato – oppure ad un commissario ad acta - anche in considerazione del fatto che tali fondi potrebbero costituire parte del profitto non individuato. 

Se invece si lascia l’iniziativa al privato, è evidente la necessità di un controllo capillare per evitare che l’imputato replichi la condotta di reato, si limiti a prendere tempo, a provveda ad una bonifica simulata (ovvero, che è lo stesso, trasli altrove il disastro).

Se l’imputato opta per la bonifica – posto che è la stessa persona che ha provocato il disastro – è logico che intenderà farlo (laddove non si limiti ad affermarlo, ma agisca) a basso costo : ciò peraltro lo aiuta anche a dimostrare la limitata gravità del delitto ovvero l’assenza del reato contestato, presupposto della condotta (ad esempio: ciò gli consente di sostenere che si tratta solo di un caso di inquinamento e non quello di disastro) .

E’ difficile immaginare l’esistenza, in natura, di un imputato disinteressato dallo svilire la gravità della propria condotta, così da cumulare sia il risparmio di denaro che giorni di carcere.

Se poi, ovviamente, si intendesse verificare  la disponibilità, in capo all’imputato, di somme auto-sufficienti per sostenere i costi della bonifica, ci si potrebbe trovare in una situazione paradossale : se i fondi provengono dall’imputato, in caso di delitto doloso, gli stessi sarebbero con elevata probabilità non giustificati (dunque suscettibili di sequestro ex art. 12 sexies L. cit.) ovvero riconducibili al profitto, anche per equivalente (e dunque analogamente da sequestrare).

L’ulteriore ipotesi è che l’autore del delitto sia una persona estremamente benestante, ossia che abbia presentato dichiarazioni dei redditi capaci di giustificare le proprie disponibilità, al netto del profitto.

Si manifesta dunque il fondato dubbio che il legislatore abbia ipotizzato, senza minimente scriverlo, che l’imputato possa ottenere la restituzione di quanto sequestrato – corrispondente al solo profitto - proprio per provvedere alla bonifica, prima della sentenza, persino nella fase delle indagini preliminari 62.

In questo caso sarebbe comunque necessario – salva la ricorrenza di un caso lampante di tentativo di truffa ai danni dello Stato – che l’imputato disponga di risorse ulteriori per procedere: si è già infatti descritta la notoria sproporzione tra profitto ricavabile e danno ambientale (equivalente al costo della bonifica/ripristino), il che rende altamente improbabile la possibilità di ripristinare, utilizzando il solo profitto.

Certo, qualcuno potrà astrattamente ipotizzare l’esistenza di un soggetto terzo che voglia finanziare l’imputato (si noti bene, senza volere - invece - finanziare lo Stato nelle medesime attività), garantendogli la bonifica, nella prospettiva di consentirgli sia un trattamento sanzionatorio più mite, sia di fruire della restituzione delle somme sequestrate : si tratterà, forse, in tal caso, di un complice non emerso nelle indagini oppure un intestatario fittizio dei suoi beni ?63

Concludendo appare evidente che le nuove norme impongano una elevatissima specializzazione, una notevole sensibilità e la trasformazione del Giudice (e, prima ancora, del P.M.) non solo in un esperto di ambiente e di amministrazione dei patrimoni ma anche, in senso lato, di bonifiche, tutto ciò al fine di ridurre i rischi sottesi ad un ulteriore tombamento del disastro oppure ad una traslazione del medesimo in altro luogo, sostanzialmente un rinnovato disastro ambientale, questa volta attuato con il sigillo della “Repubblica Italiana” ed “in nome del Popolo italiano”.

E’ comunque sicuro che l’interprete/operatore non possa giungere ad una diversa opzione interpretativa quanto alla consumazione del delitto, idonea ad abbattere sensibilmente la casistica ed eludere le molteplici problematiche. Si tratta di un impedimento logico, naturalistico e giuridico che appare peraltro pienamente coerente con la necessità di tutela della integrità psico-fisica della propria ed altrui prole.

 

 

Alessandro Milita

Sostituto Procuratore della Repubblica di Napoli

1 Mancava originariamente infatti un delitto che sanzionasse adeguatamente le condotte principali e l’inquadramento del caso giudiziario nel delitto associativo comune scontava pesantemente i limiti di tale sussunzione: nell’impossibilità di configurare un delitto programmatico (i reati ambientali, in tema di rifiuti, erano infatti tutti contravvenzionali), si individuava nei delitti mezzo – ossia eventuali falsi e le corruzioni – il delitto scopo, così creandosi un vulnus interno all’investigazione, capace di annientarne le risultanze. L’operatività della norma sul disastro ambientale era minata da una scarsa portata applicativa, coerentemente al carattere “innominato” di quella disposizione ed alla volatilità del concetto di danno ambientale.

Le capacità tecniche più adeguate per affrontare il tema investigativo si rinvenivano – fino all’unificazione - tra i P.M. della Procura Circondariale ma le investigazioni incardinate presso quegli uffici nascevano inefficaci, per definizione, non potendo questi avvalersi degli strumenti d’indagine appropriati e non riuscendo gli investigatori a coordinare le diverse indagini sparse sull’intero territorio nazionale, benché le stesse fossero legate ad un unico filo.

Le competenze alle indagini preliminari nelle Procure presso il Tribunale erano appannaggio delle Sezioni assegnatarie dei delitti contro la pubblica amministrazione (quando si rilevava il delitto di corruzione o il falso) ovvero suddivise – a pioggia – tra le diverse Sezioni ed era altamente improbabile che l’impostazione degli investigatori consentisse di tracciare i rapporti tra i protagonisti del crimine ed i gruppi organizzati.

Quando poi l’indagine sorgeva direttamente in capo alla D.D.A. – ciò accadeva prevalentemente sulla base di delazioni collaborative e comportava la necessità inderogabile di inquadrare l’indagine nel tipo legale del delitto associativo mafioso – alla tendenziale impreparazione tecnica dei protagonisti dell’indagine seguiva la fisiologica precarietà delle cognizioni delle fonti narrative nonchè la scarsa rilevanza, generalmente attribuita al fenomeno, rispetto all’immensa mole di informazioni riguardanti delitti immediatamente percepibili come gravissimi (omicidi, associazioni mafiose ecc)..

Per quel che concerne poi i Servizi di Polizia Giudiziaria professionalmente competenti nelle specifiche indagini (in pratica, in forme stabili, i soli Carabinieri del Nucleo Tutela Ambiente: circa 400 uomini in tutta Italia, peraltro gravati da parallele funzioni amministrative), la carenza degli organici comportava la fisiologica impossibilità di attrezzare adeguatamente le investigazioni.

Gli investigatori capaci di cogliere l’interesse programmatico delle imprese mafiose nel ciclo economico dei rifiuti costituivano una rarità, coerentemente all’insensibilità generalizzata per la specifica materia.

Era infatti necessario coniugare un elevata professionalità nella trattazione delle indagini sulla criminalità organizzata di tipo mafioso ed una approfondita conoscenza di questi enti (propria dei soli P.M. della D.D.A.), con una adeguata capacità nel districarsi nella materia ambientale, il tutto congiunto con la padronanza della materia societaria.

 

2 La categoria si è progressivamente affrancata dalla sua “atipicità”, affermandosi quale “sottosistema penale”, articolato in una serie di norme di diritto penale, sostanziale e processuale, create per l’esigenza di sottoporre ad un trattamento penale “differenziato” gli appartenenti alle macro-organizzazioni delinquenziali. I principi guida per disegnare i tratti distintivi del crimine organizzato sono ricostruiti nella Sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 17706 del 22/03/2005 Cc. (dep. 11/05/2005 ) (Estensore: Fiale A.) e risultano comunque in linea con le principali precedenti sentenze della Corte.

3 In via esemplificativa , l’Ordine di servizio del Procuratore della Repubblica di Napoli prevede le seguenti modalità per le inquiries del sistema SIDDA / SIDNA. Si ricorda che gli atti reperibili sono i seguenti: verbali di interrogatorio, di assunzione di informazioni e di confronto, resi al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria delegata; verbali illustrativi dei contenuti della collaborazione; deleghe di indagini alla polizia giudiziaria, contenenti dati, notizie, circostanze, indicazione di luoghi e persone che appaiono rilevanti ed utili ai fini del coordinamento delle indagini o del bagaglio di conoscenze investigative degli altri magistrati della Direzione distrettuale antimafia; informative di polizia giudiziaria contenenti dati, notizie, circostanze, indicazione di luoghi e persone che appaiono rilevanti ed utili ai fini del coordinamento delle indagini o del bagaglio di conoscenze investigative degli altri magistrati della Direzione distrettuale antimafia ed accluse schede personali relative ai soggetti sottoposti alle indagini; decreti di fermo del pubblico ministero; richieste di misure cautelari, personali e reali; decreti di perquisizione, di sequestro e di esibizione; richieste di autorizzazione alle operazioni d’intercettazione di conversazioni e comunicazioni (art. 267, comma 1, c.p.p.) e decreti di intercettazione emessi d’urgenza dal Pubblico Ministero (art. 267, comma 2, c.p.p.); rogatorie dirette alle autorità straniere per attività di acquisizione probatoria; richieste di rinvio a giudizio e di giudizio immediato; ordinanze dei giudici in materia di misure cautelari, personali e reali; verbali di udienze dibattimentali in cui siano state compiute attività di acquisizione probatoria; sentenze dibattimentali; ogni altro atto contenente informazioni la cui circolazione sia utile ai fini del coordinamento delle indagini o del bagaglio di conoscenze investigative degli altri magistrati della Direzione distrettuale antimafia.

(Analisti delle informazioni) Alla banca dati sono addetti come analisti delle informazioni ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, appartenenti alla Sezione di polizia giudiziaria della Procura o, comunque, aggregati all’ufficio (…)

Alla struttura centrale della banca dati sono assegnati uno o più analisti delle informazioni, i quali curano i servizi centralizzati sotto il coordinamento del magistrato responsabile, assistito dal coordinatore amministrativo, provvedono alle ricerche richieste da organi di polizia giudiziaria, magistrati della Procura della Repubblica di Napoli non appartenenti alla Direzione distrettuale e magistrati di altre procure della Repubblica (…)

(Ricerche richieste dalla polizia giudiziaria sulla base dati locale) La ricerca delle informazioni sulla base dati locale può essere richiesta da organi di polizia giudiziaria per indagini in corso presso la Procura distrettuale, previa autorizzazione del magistrato assegnatario delle stesse.

Quando la polizia giudiziaria svolge accertamenti preliminari in relazione ad una notizia di reato ed intende avvalersi della ricerca di informazioni sulla base dati locale, trasmette preventivamente la notizia di reato alla Direzione distrettuale, che procede all’iscrizione del procedimento.

La ricerca può essere effettuata esclusivamente dagli analisti delle informazioni addetti alla Direzione distrettuale.

I risultati della ricerca, se concernono atti delle indagini preliminari, sono consegnati agli organi richiedenti previa sottoposizione al visto del magistrato che la autorizzò.

E’ dato avviso agli organi richiedenti che l’utilizzazione delle informazioni acquisite è regolata dalle disposizioni dell’art. 17 di questo Regolamento e che le informazioni non possono essere comunicate ad altri organi di polizia giudiziaria.

(Ricerche richieste da altri magistrati sulla base dati locale) La ricerca delle informazioni sulla base dati locale può essere richiesta, previa autorizzazione del Procuratore distrettuale o del Procuratore Aggiunto coordinatore della Direzione distrettuale, da altri magistrati della Procura della Repubblica di Napoli, non appartenenti alla Direzione distrettuale, o da magistrati di altre procure della Repubblica.

La ricerca può essere effettuata esclusivamente dagli analisti delle informazioni addetti alla Direzione distrettuale.

I risultati della ricerca, se concernono atti delle indagini preliminari, sono consegnati ai magistrati richiedenti previa sottoposizione al visto del Procuratore distrettuale o del Procuratore Aggiunto coordinatore della Direzione distrettuale che la autorizzarono, apposto d’intesa con il sostituto assegnatario delle indagini nell’ambito delle quali gli atti furono compiuti.

E’ dato avviso ai magistrati richiedenti che l’utilizzazione delle informazioni acquisite è regolata dalle disposizioni dell’art. 17 di questo Regolamento.

(Ricerche richieste da altri magistrati sulla base dati nazionale. Divieto di comunicazione del contenuto delle informazioni) La ricerca delle informazioni sulla base dati nazionale può essere richiesta, previa autorizzazione del Procuratore distrettuale o del Procuratore Aggiunto coordinatore della Direzione distrettuale, da altri magistrati della Procura della Repubblica di Napoli, non appartenenti alla Direzione distrettuale, o da magistrati di altre procure della Repubblica.

La ricerca può essere effettuata esclusivamente dagli analisti delle informazioni addetti alla Direzione distrettuale.

Il contenuto delle informazioni e degli atti delle indagini preliminari rinvenuti a seguito della ricerca non viene reso noto ai magistrati richiedenti, fornendosi a questi ultimi soltanto comunicazione dell’esistenza di informazioni presso l’Autorità giudiziaria procedente. A tale Autorità giudiziaria è data notizia della richiesta ricevuta.

4 Permanevano peraltro i limiti del sistema, connessi all’indisponibilità di efficienti strumenti investigativi per l’indagine di prevenzione antimafia il che rende l’azione di prevenzione inevitabilmente ancellare rispetto all’indagine preliminare, sicchè la stessa tendenzialmente dipenderà dall’investigazione classica, con tutte le conseguenze dovute all’assenza di una sovrapponibilità tra gli strumenti ablatori

5 A norma dell’art. 1 comma 3 del medesimo decreto del 7 luglio 2011 n. 121, si definisce Habitat all’interno di un sito protetto, “qualsiasi habita di specie per la quale una zona sia classificata come zona a tutela speciale a norma dell’art. 4 pgf 1 o 2 della Direttiva 2009/147/CE o qualsiasi habitat naturale o un habitat di specie per cui un sito sia designato come zona speciale di conservazione a norma dell’art. 4 pgf 4, direttiva 92/43/CE”

6 E’ la segretezza delle investigazioni il presupposto essenziale per l’esperimento di una indagine penetrante, il che peraltro collide astrattamente con la necessità di procedere ad accertamenti e riscontri, spesso prova decisiva dei delitti investigati.

L’esperienza concreta consente di ritenere che l’indagine necessita di utilizzare un largo spettro di strumenti cognitivi – e poi sanzionatori – non potendosi limitare o concentrare su aspetti specifici: se le intercettazioni sono in grado di cogliere l’esatta portata delle relazioni individuabili, la c.t. aiuta a giungere alle coerenti qualificazioni; le indagini patrimoniali colgono la rilevanza dei proventi tratti dall’attività e le dichiarazioni delle fonti permettono di superare l’apparenza formale per penetrare nella realtà dei fenomeni.

Se alcune indagini possono essere facilmente realizzabili senza alcuna ostensione (si pensi, ad es., al cd. pedinamento a distanza di veicoli e persone mediante sistema di rilevazione satellitare GPS; alle video-riprese di luoghi di interesse investigativo; le valutazioni comparate tra i reali consumi di energia elettrica negli impianti di produzione e le previsione dei consumi indicati in sede progettuale, onde comprendere l’inefficienza o il mancato uso di impianti), gli accertamenti sui siti utilizzati per le attività criminale – in particolare le discariche – risultano difficilmente attuabili in modo riservato.

Aldilà del carattere ipoteticamente non ripetibile di alcuni accertamenti (si tratta, in realtà, di uno pseudo-problema, poiché ogni danno ambientale permane nel tempo, al più aggravandosi, e può essere reiteratamente dimostrato), la questione principale è la possibilità di procedere all’esame approfondito di siti senza da luogo ad alcun atto invasivo o comunque allertare il soggetto indagato od altro a questi vicino.

Numerose sono le indagini tecniche di ultima (e non) generazione atte ad acclarare l’eventuale compromissione di suoli, aria ed acqua (superficiale e profonda) in aree interessate da discariche autorizzate e non.

Giova sperimentare la potenzialità della specifica indagine, in relazione allo stato dei luoghi, e modularne la tempistica in modo da evitare la compromissione delle investigazioni.

 

7 Tabelle sinottica delle tecniche moderne

Tecniche

Di indagineObbiettivi dell’indagineNoteTelerilevamento

(TLR)

Aereo1. Biogas 2. Percolati in superficie 3. Stato della vegetazione. 4. Natura dei terreni 5. Umidità dei terreni 6. Tessitura. 7. Qualità dell’acqua superficiale (laghi, fiumi, mari). Per induzione: identificazione oggetti sepolti sub-superficiali in particolari condizioni. Ricerche archeologiocheSensori termici richiedono accurate calibrazioni e voli multitemporali (diurni-notturni). Fattore essenziale è il geoposizionamento del dato e il volo a bassa quota. Dati solo qualitativi (non quantitativi)Telerilevamento

SatellitareVisione sinottica di insieme di aree vaste.Negli anni si è parlato della possibilità di utilizzare il satellite per individuare le discariche abusive. Purtroppo la risoluzione di indagine è insufficiente anche se certamente è possibile datare la formazione di una discarica. FotogrammetriaRicostruzione geometrica e multitemporale delle aree indagate.Con tecniche di fotogrammetria digitale è possibile ricostruire le volumetrie degli invasi con ottimo dettaglio (anche centimetrico) da foto storiche e acquisite per l’occasione. Con questa tecnica, ad esempio, è possibile stabilire la pendenza del fondo di un invaso per la verifica della rete di drenaggio del percolato.

Esistono numerose società di aerofotogrammetria: gli archivi si trovano:

- all’Istituto geografico militare (FI) dal 1960 in poi (ogni 4 anni),

- presso le singole Regioni (ogni 4 anni che si alternano a quelle IGM, quindi in totale ogni 2 anni).

Chi effettua rilievi in proprio (ad esempio dei Comuni consorziati) deve comunque fornire i dati per l’archivio alle Regioni che quindi sono completi. Numerosi sono stati negli anni addietro i voli della Cassa del Mezzogiorno (archivio presente sempre in Regione Campania)GeofisicaRicostruzione del sottosuolo. Ricerca teli, ricerca loro lacerazioni, ricerca perimetri degli invasi, studio sulla compattazione dei rifiuti, presenza di percolato e della falda. Ricerca fusti sotterrati e materiali metallici. Ricerca cadaveri

Studio gradiente idraulicoNon è possibile stabilire la tipologia merceologica dei rifiuti (solo la presenza). E’ possibile, con indagini in foro, inserendo un’antenna, visionare per un raggio di un paio di metri ed in profondità la natura del sottosuolo. La geofisica richiede una buona accessibilità sulle superfici (ad esempio dove si ha la presenza di ecoballe disgregate è praticamente impossibile effettuare rilievi).Laserscanner 3DRicostruzione geometrica delle superfici, solo superfici attuali (no analisi pregresse)Lo strumento può essere piazzato al centro, ad esempio di una cava, e ne effettuerà il rilievo centimetrico delle asperità delle superfici (ricostruzione tridimensionale). Non serve ad altro che a ricostruzioni geometriche.SuoloTecniche classiche + TLRPerforazioni e invio campioni in laboratorio. Prove in foro. (*)AcquaTecniche classiche + TLRPrelievi campioni.

(*) Esiste presso il Genio Civile (ora Agenzia del Territorio e l’APAT) per Legge (464/84), la denuncia di tutte le perforazioni ad uso idrico (e non) che vanno oltre i 30m dal p.c. Naturalmente spesso le denunce sono molto meno della metà del reale. Verificare preliminarmente la mappa dei pozzi esistenti che hanno depositata la relativa documentazione, onde evitare sondaggi inutili.AriaTecniche classichePrelievi campioniRifiutiTecniche classichePrelievi campioniVegetazioneTecniche classiche + TLRE’ importante, all’esito degli accertamenti tecnici, qualora risulti l’inquinamento della falda (nelle sue diverse esplicazioni potenzialmente lesive), procedere a verifiche ulteriori, dirette a verificare l’eventuale presenza di pozzi estrattivi di acqua ed eventuali conseguenze correlate al suo utilizzo.

Nella specie è utile:

  • Censire i pozzi autorizzati (svolgendo accertamenti presso il Genio Civile della competente Provincia) ed identificare i titolari e/o conduttori dei terreni ivi insistenti o comunque i soggetti che fruiscono delle acque emunte dagli stessi pozzi per le successive informazioni da assumere ;

  • Individuare le eventuali derivazioni dei pozzi censiti, gestiti da Enti Consortili o altro, per le finalità di cui al punto che precede;

  • Individuare pozzi abusivi ed identificare i soggetti che risultino utilizzare l’acqua emunta dai pozzi stessi (per tale verifica, eventualmente coadiuvati dal C.t. o da altro ausiliario tecnico, è necessario preliminarmente visionare i rilievi aerofotogrammetrici per individuare eventuali terreni coltivati, provvisti di pozzo abusivo in quanto visibile ovvero verosimilmente esistente per l’assenza di pozzo autorizzato e per le caratteristiche del terreno: per tale accertamento appare preferibile servirsi di rilievi relativi al periodo estivo), il tutto per le finalità di cui ai punti che precedono;

  • Individuare l’esistenza di pozzi di captazione dell’acqua dalla falda eventualmente serventi un acquedotto: allo scopo è essenziale delegare l’attività cognitiva della P.G. presso l’ufficio Tecnico degli Enti erogatori del servizio idrico delle zone di interesse per verificare se ve ne siano presenti presso i luoghi insistenti sulla falda; in caso positivo si procederà secondo logica nell’identificazione dei soggetti di cui ai punti che precedono e comunque i soggetti interessati dal consumo dell’acqua proveniente dall’acquedotto, estratta dalla falda in esame;

  • Censire le attività produttive presenti nella zona insistente sulla falda acquifera, onde accertare i quantitativi di acqua eventualmente drenati dalla falda;

  • una volta individuati ed identificati chi siano gli attuali titolari dei terreni e/o conduttori e chi siano stati nel passato, le persone dovranno essere richieste di fornire informazioni in ordine alle seguenti circostanze:

      1. accertare l’attuale (e passata) vocazione dei terreni e le colture;

      2. accertare se l’acqua tratta dai pozzi sia stata utilizzata per l’alimentazione umana (di terzi e/o dei soli titolari) e per quali quantitativi medi;

      3. quali siano (e siano state) le colture praticate (ed i relativi prodotti agricoli destinati alla vendita e/o al consumo personale) e la provenienza dell’acqua da irrigazione e per quali quantitativi;

      4. se siano o siano stati praticati allevamenti di animali destinati all’alimentazione umana (di terzi e/o dei soli titolari), la rilevanza numerica dell’attività e la provenienza dell’acqua utilizzata per l’allevamento e per quali quantitativi;

      5. quale sia comunque stato l’eventuale ulteriore utilizzo – in passato e per il presente – dell’acqua estratta dai pozzi e per quali quantitativi (ad es. per igiene personale);

      6. quali siano state le modalità di estrazione dell’acqua, in relazione alle caratteristiche del pozzo ed alla profondità della falda (estrazione dal fondo della falda ovvero dalla superficie) ed ogni peculiare caratteristica dell’acqua rilevata nonché del pozzo (è necessario chiedere se il pozzo sia rivestito, fino a che quota, con quale materiale; dove siano posizionati i filtri; se il pozzo sia sigillato in superficie; il diametro del pozzo; caratteristiche della pompa, prevalenza e portata)

      7. se siano state rilevate dermatiti, nel caso in cui l’acqua sia stata utilizzata per l’igiene personale;

      8. se sia stata rilevata la moria – ed in quali proporzioni – di animali da cortile, nel primo periodo di vita;

      9. Se siano state rilevate malformazioni di animali alla nascita;

      10. Se sia stato riscontrato, nel tempo, un aumento dei casi di animali morti o malformati;

      11. Se vi siano stati casi di patologie tumorali del Fegato, in famiglia;

      12. Se vi siano stati casi di patologie tumorali del Rene o della Vescica, in famiglia;

      13. Se ci siano stati casi di aborti spontanei in famiglia;

      14. Si ci siano stati casi di bambini malformati, in famiglia;

  • Escutere i medici di zona e coloro che dispongano di documentazione utile quanto all’incidenza di malattie correlate alle sostanze cancerogene individuate nella falda e nella relativa area ovvero nelle altre aree, nel caso in cui risulti un’estensione nell’uso dell’acqua da parte di soggetti dimoranti in zone diverse;

Si tratta peraltro delle uniche possibilità per giungere alla comprensione – ed eventualmente alla prova – delle conseguenze lesive sull’uomo della massificata, stabile e continuativa compromissione di un ecosistema.

 

8 Il riferimento è alla nota decisione della Corte Cass. pen., sez. I, 19 novembre 2014 (dep. 23 febbraio 2015), n. 7941, Pres. Cortese, Est. Di Tomassi, imp. Schmidheiny.

9 In questo momento si fa principale riferimento alle due macro-categorie, per esigenze di speditezza.

10 E’ appena il caso di sottolineare che la confisca dei proventi per il delitto di disastro ambientale è consentita, per le condotte rientranti nella precedente normativa, solo quanto ai mezzi, profitto, prodotto e prezzo ex art. 240, I co. e II co, c.p.. A seguire verranno indicate le difficoltà di tracciare il profitto del reato e l’impossibilità di rinvenirlo, a distanza di tempo, nel patrimonio del responsabile.

11 E’ sufficiente pensare al caso Eternit, collocare le condotte foriere del disastro ambientale fino al maggio del 2015, osservare il tempo che trascorre tra l’accertamento ed il processo, e verificare se il reato di prescriverebbe lo stesso, o meno. Oppure basta pensare ad un classico caso di tombamento di rifiuti pericolosi, con effetti nocivi per lo più differiti, anche di molto, nel futuro (quanto alle matrici ambientali acqua ed aria), ovviamente scoperto molti anni dopo.

12Il riferimento è all’Art. 452-undecies. - (Confisca): “Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per i delitti previsti dagli articoli 452-bis (ndr: inquinamento ambientale), 452-quater (ndr: Disastro ambientale), 452-sexies (ndr: Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività), 452-septies (ndr: Impedimento del controllo) e 452-octies (ndr: Circostanze aggravanti previste per il reato associativo comune e mafioso) del presente codice, è sempre ordinata la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commettere il reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando, a seguito di condanna per uno dei delitti previsti dal presente titolo, sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca. I beni confiscati ai sensi dei commi precedenti o i loro eventuali proventi sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione competente e vincolati all'uso per la bonifica dei luoghi”.

13 Il riferimento è all’art. 452-undecies, ultimo comma, secondo cui: “L'istituto della confisca non trova applicazione nell'ipotesi in cui l'imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi”.

Analogamente è da osservare come non sia prevista la confisca dei profitti per i reati colposi, laddove gli stessi risultano invece analogamente generatori di danno ambientale e nonostante la difficoltà a determinare il discrimine tra la condotta caratterizzata da colpa cosciente e quella connotata da dolo eventuale. E’ il caso di sottolineare come sia estremamente pericoloso ipotizzare il finanziamento di una bonifica con il patrimonio dei soggetti responsabili, legando la disponibilità dei fondi all’accertamento definitivo dell’elemento soggettivo.

 

14 Premesso che risulta ardua, per quel che si dirà, la relativa quantificazione, in ogni caso non era prevista la confisca per equivalente ex art. 322 ter c.p., sicchè l’operatività dello strumento risultava nei fatti inesistente: non è infatti noto alcun caso in cui il profitto di un delitto di disastro ambientale sia stato individuato e reperito ancora presente nel patrimonio dell’autore.

15 Il riferimento è, in particolare alla confisca ex art. 12 sexies D.L. 306/1992, consentita dalla nuova disposizione in commento, previa integrazione dell’articolo 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, e successive modificazioni, dopo la parola: «416-bis,» sono inserite le seguenti: «452-quater, 452-octies, primo comma,» e dopo le parole: «dalla legge 7 agosto 1992, n. 356,» sono inserite le seguenti: «o dall'articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni».

Prima del nuovo strumento normativo citato – dunque fino all’entrata in vigore della nuova norma – la confisca era impedita dal testo della disposizione di cui all’art. 12 sexies cit. che non prevedeva, quale delitto presupposto, né il richiamo esplicito alla norma di cui all’art. 260 TUA, né indiretto tramite il riferimento alla previsione generale di cui all’art. 51 co 3 bis c.p.p., riportando invece un lungo elenco, non del tutto omogeneo, di delitti.

Ovviamente nessun riferimento vi era al delitto di disastro ambientale di cui all’art. 434 c.p.

Il P.M. poteva agire soltanto facendo leva sul meccanismo dei richiami normativi alle norme di cui agli artt. 416 bis., 648 bis, 648 ter c.p., alla previsione normativa di cui all’art. 12 quinquies D.L. 306/1992 D.L. 306/1992 ovvero “attingere” alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 L. 203/1991, ossia analizzare il crimine ambientale come attuato da e per un ente mafioso. Si tratta comunque di utilizzare norma eccentriche rispetto a quelle principali.

16 La normativa in tema di misura di prevenzione antimafia L. n. 575 del 1965 è stata caratterizzata da numerose innovazioni e, per effetto combinato delle Leggi n. 125 del 2008, L. n. 94 del 2009 e L. n. 136 del 2010, si sono allargate le chance di confisca dei cd. eco-criminali: la previsione, di cui all’art. 10 co. 1 lett. A) della L. n. 125 del 2008, dell’azione di prevenzione patrimoniale nei cfr. dei soggetti indiziati “di uno dei reati di cui all’art. 51 co 3 bis c.p.p.” e la successiva inclusione della norma di cui all’art. 260 TUA nel catalogo dei delitti di competenza della DDA, ha comportato l’astratta diretta applicazione della misura di prevenzione anche ai trafficanti “organizzati” di rifiuti, condotta spesso antecedente alla consumazione del delitto di disastro ambientale, trattandosi dell’evento dei traffici. Ancorché siano state estremamente rare le azione di prevenzione patrimoniale esercitate nei riguardi di persone, esponenti del crimine organizzato in materia ambientale, il richiamo normativo consente di giungere ad una conclusione positiva: seppure il crimine in materia ambientale risulta formalmente non riferibile al caso di cui all’art. 1 L. n. 575 del 1965, l’indicazione dei “traffici delittuosi” ed il richiamo al riciclaggio o re-impiego può ben essere valorizzato per attivare lo strumento della misura di prevenzione patrimoniale, individuando – quale requisito presupposto – ed esempio il ruolo di riciclatore (anche auto-riciclatore), mansione funzionale spesso presente nei traffici di rifiuti .

17 Vedi l’Art. 452-undecies. - (Confisca), III comma: “I beni confiscati ai sensi dei commi precedenti o i loro eventuali proventi sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione competente e vincolati all'uso per la bonifica dei luoghi”. Si ricorda però che tale devoluzione è possibile, a stretto rigore, solo per il profitto del reato ovvero i beni confiscati per equivalenza: è dunque esclusa nel caso di confisca operata, ex art. 12 sexies D.L. 306/1992, nel caso di condanna dell’autore del delitto di disastro ambientale doloso.

18Quanto al delitto in questione si rileva che “per la configurabilità del reato di avvelenamento (ipotizzato, nella specie, come colposo) di acque o sostanze destinate all'alimentazione, pur dovendosi ritenere che trattasi di reato di pericolo presunto, è tuttavia necessario che un "avvelenamento", di per sé produttivo, come tale, di pericolo per la salute pubblica, vi sia comunque stato; il che richiede che vi sia stata immissione di sostanze inquinanti di qualità ed in quantità tali da determinare il pericolo, scientificamente accertato, di effetti tossico- nocivi per la salute. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto fondata ed assorbente la censura con la quale, da parte dell'imputato, dichiarato responsabile del reato "de quo" a causa dello sversamento accidentale in un corso di acqua pubblica di un quantitativo di acido cromico, si era denunciato il mancato accertamento, in sede di merito, dell'effettiva pericolosità della concentrazione di detta sostanza in corrispondenza del punto d'ingresso delle acque nell'impianto di potabilizzazione, essendosi ritenuto sufficiente il mero superamento dei limiti tabellari)”(vedi Sez. 4, Sentenza n. 15216 del 13/02/2007 Ud.  (dep. 17/04/2007 ) Rv. 236168 ; Ugualmente “Ai fini della configurabilità del delitto di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari, l'avvelenamento delle acque destinate all'alimentazione non deve necessariamente avere potenzialità letale, essendo sufficiente che abbia idoneità a nuocere alla salute. (Nella specie, concernente l'applicazione di una misura di cautela personale, si è ritenuta la sussistenza del reato nel versamento di vetriolo presso la sorgente di un fiume, finalizzato a raccogliere pesci da destinare all'alimentazione)”(Sez. 1, Sentenza n. 35456 del 26/09/2006 Cc.  (dep. 23/10/2006 ) Rv. 234901)

Analizzando il testo della motivazione la Corte di Cassazione osserva che “In relazione alla configurabilità del reato contestato, questa Corte ha ritenuto che "L'avvelenamento delle acque destinate alla alimentazione non deve avere necessariamente potenzialità letale, essendo sufficiente che abbia la potenzialità di nuocere alla salute". (Cass. Sez. 4^, 8 marzo 1984, ric. Bossi, RV. 169990). Nella specie non vi è dubbio, secondo la valutazione del Tribunale del Riesame, che la sostanza in sequestro sia nociva per l'alimentazione, in quanto riconosciuta di elevata tossicità e quindi dannosa per la salute non soltanto in caso di sua diluizione nelle acque di un fiume, ma anche se presente in organismi acquatici entrati in contatto con la stessa, da destinare all'alimentazione. Non assume quindi rilevanza il grado di concentrazione di detta sostanza, purché, come ha affermato la già citata giurisprudenza di legittimità, essa sia potenzialmente nociva per la salute. I rilievi formulati in relazione a tale aspetto dalla difesa non hanno quindi alcun pregio; gli altri profili dedotti, secondo i quali i pesci raccolti non sarebbero stati destinati al solo uso personale non valgono ad escludere la sussistenza del reato, poiché la norma in questione non richiede che l'avvelenamento delle acque o delle sostanze destinate all'alimentazione possa pregiudicare la salute di un numero indeterminato di soggetti, essendo sufficiente anche la possibilità di avvelenamento di un numero limitato di persone. Nè è richiesto che l'acqua o le sostanze destinate all'alimentazione siano poste in commercio”.

Quanto poi alla concreta possibilità di ritenere il delitto di avvelenamento tentato di acque di falda sul presupposto di uno smaltimento illecito di rifiuti pericolosi in grado di contaminare la falda si rileva che “occorre dare la dimostrazione non solo della univocità della azione ma anche della oggettiva idoneità degli atti a determinare l'avvelenamento delle acque destinate alla alimentazione. (Fattispecie nella quale era stata emessa misura cautelare personale in relazione allo smaltimento - mediante spandimento su terreni agricoli - di fanghi provenienti da un depuratore e contenenti sostanze pericolose in quantità superiori al consentito. Il Tribunale della libertà aveva rilevato la mancata dimostrazione, sia pure a livello indiziario, del fatto che nei fanghi vi fossero sostanze pericolose in quantità tali da dare luogo ad effettivo pericolo di contaminazione di acque di falda, pozzi e coltivazioni. La Corte ha ritenuto che tale assunto fosse corretto)” (vedi sentenza ez. 5, Sentenza n. 23465 del 26/04/2005 Cc.  (dep. 22/06/2005 ) Rv. 231930 ).

Nessun dubbio poi che anche le acque di falda risultino contemplate dalla norma incriminatrice, ex art. 439 cod. pen., evidenziandosi che le acque contemplate dal legislatore “sono quelle destinate all'alimentazione umana, abbiano o non abbiano i caratteri biochimici della potabilità secondo la legge e la scienza. Pertanto è configurabile la fattispecie criminosa prevista dall'indicata norma anche se l'avvelenamento delle acque sia stato operato in acque batteriologicamente non pure dal punto di vista delle leggi sanitarie ma comunque idonee e potenzialmente destinabili all'uso alimentare. Fattispecie in cui, trattandosi di sversamento nel terreno di sostanze inquinanti di origine industriale penetranti in falde acquifere, con conseguente avvelenamento dell'acqua di vari pozzi della zona, è stata respinta la tesi difensiva secondo cui per acqua destinata all'alimentazione deve intendersi solo l'acqua "potabile" a norma dell'art. 249 T.U. Leggi sanitarie)”( Sez. 4, Sentenza n. 6651 del 08/03/1984 Ud.  (dep. 29/06/1985 ) Rv. 169989).

Nessun dubbio poi che si tratti di delitto di evento, permanente, e che le condotte, anche risalenti nel tempo – come nel caso di massiccio sistematico smaltimenti di rifiuti pericolosi in luoghi inadeguati -, tipicamente dirette a produrre i loro effetti in periodi differiti, siano suscettibili di prensione punitiva a partire – nel caso di ipotesi consumata – dal momento di insorgenza dell’avvelenamento.

E’ sufficiente richiamare nel caso di specie, in considerazione dell’analogia tra organismo umano ed ambiente, seppur ricordando che l’avvelenamento è delitto permanente, la giurisprudenza in tema di lesioni derivanti da malattia professionale caratterizzata da evoluzione nel tempo, nel qual caso “il momento di consumazione del reato non è quello in cui sarebbe venuta meno la condotta del responsabile causativa dell'evento, bensì quello dell'insorgenza della malattia prodotta dalle lesioni, sicché ai fini della prescrizione il "dies commissi delicti" va retrodatato al momento in cui risulti la malattia "in fieri", anche se non stabilizzata in termini di irreversibilità o di impedimento permanente. (Fattispecie in tema di malattia professionale derivante da prolungata esposizione a polveri di amianto)( vedi Sez. 4, Sentenza n. 37432 del 09/05/2003 Ud.  (dep. 02/10/2003 ) Rv. 225989).

Quanto alla prova, vedi Sez. 1, Sentenza n. 45001 del 19/09/2014 Cc.  (dep. 29/10/2014 ) Rv. 261135 secondo cui “Ai fini della configurabilità del delitto di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari non è sufficiente, neppure ai limitati fini dell'apprezzamento del "fumus" del reato, l'esistenza di rilevamenti attestanti il superamento dei livelli di contaminazione CSC (concentrazioni soglia di contaminazione) di cui all'art. 240, comma primo, lettera b) D.Lgs. n. 152 del 2006, trattandosi di indicazioni di carattere meramente precauzionale, il cui superamento non è sufficiente ad integrare nemmeno la fattispecie prevista dall'art. 257 D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, la quale sanziona condotte di "inquinamento", ossia causative di un evento che costituisce evidentemente un "minus" rispetto all'ipotesi di "avvelenamento".

 

19 E’ evidente che non sarebbe logico sostenere che nel caso di falda contaminata (ma non avvelenata), ci si trovi innanzi ad un delitto istantaneo ad effetti permanenti mentre nel caso di falda avvelenata si tratterebbe di delitto permanente .

20 E’ necessario osservare che il termine sostituisce una formulazione precedente, molto più insidiosa per l’interprete, che puniva invece la condotta solo se realizzata “in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale”. L’eliminazione del riferimento alle sole violazioni poste a tutela dell’ambiente risulta quanto mai opportuna, attesi i pericoli legati all’esigenza di individuare comunque la violazione di una norma, costituente quanto meno illecito amministrativo, infrazione posta a tutela dell’ambiente. Plurime sono poi le decisioni della Suprema Corte che si sono soffermate sull’interpretazione della medesima formula, già presente nella previsione di cui all’articolo 260 del D. Lgs. 152/2006, escludendo il pericoloso sillogismo abusività=clandestinità, nelle sue svariate possibili letture: vedi Sez. 3, n. 4503 del 16 dicembre 2005, Samarati, Rv. 233292, Sez. 3, n. 358 del 20 novembre 2007, Putrone, Rv. 238559; Sez. 3, n. 40945 del 21 ottobre 2010, Del Prete, Rv. 248629; Sez. 5, n. 40330 del 11 ottobre 2006, Pellini, Rv. 236294, Sez. 3, n. 40828 del 6 ottobre 2005, Fradella, Rv. 232350; Sez. 3, n. 19018 del 20 dicembre 2012, Accarino Rv. 255395.

 

21 La questione interpretativa risulta centrale per casi definibili come “disastro ambientale di Stato”, ipotesi non remote ma comunque limitate: è estremamente raro che una condotta che ha provocato un disastro ambientale sia pienamente conforme a norme di legge a norme secondarie o a provvedimenti amministrativi legittimi. E’ poi il caso di osservare che in casi eccezionali in cui l’attore abbia agito con assoluto ossequio alla norma e vi sia a monte un atto del potere esecutivo (in ipotesi anche del potere legislativo) che, nella piena consapevolezza degli effetti nocivi e disastrosi, abbia comunque regolamentato così da divenire genesi del successivo danno, la condanna di tutti gli autori sarebbe comunque ardua, anche senza l’esplicita previsione dell’”abusività” della condotta.

Giova inoltre rammentare come il possibile destinatario del precetto sia anche il responsabile di omissioni rilevanti ex art. 40 cpv c.p. e come l’Ente di controllo possa essere incluso nella filiera dei co-autori di una condotta colposa, per omissione.

 

22 Vedi la Sentenza della Corte cost. n. 327 del 2008 che tratteggiava gli elementi costituenti il delitto di disastro ambientale cd. innominato, secondo diritto vivente: da un lato, secondo la Corte, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall'altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l'evento deve provocare - in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la "pubblica incolumità") - un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti.

23 Vedi, con le diverse sfumature legate ai singoli casi, Cass. Sez. III sent. n. 22539 del 10.06.02, rel. Fiale, imp. P.M. in proc. Kiss Gmunter in RV 221880 e Cass. Sez. III sent. 439 del 19.01.94, rel. Postiglione, imp. Mattiuzzi in RV 197044); Cass. Sez. III, n. 9837 del 19.11.1996, rel. Postiglione, imp. Locatelli, in RV 206473; (Cass. Sez. 1 sent. n. 30216 del 17.07.03 in RV 225504, imp. Barillà) secondo cui “(…) è necessario che (…) abbia assunto la fisionomia di un disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità e complessità da porre in concreto pericolo la vita e l’incolumità delle persone, indeterminatamente considerate (…)”; cfr. Cass. Sez. 1 sent. n. 226459 del 11.12.03, imp. Bottoli, in RV226459) secondo cui “(…) occorre che il fatto dia luogo a concreto pericolo da valutarsi ex ante per la vita o l’incolumità di un numero indeterminato di persone, anche se appartenenti tutte a determinate categorie, restando irrilevante il mancato verificarsi del danno (…)”; la Sez. 3, Sentenza n. 9418 del 16/01/2008 Cc.  (dep. 29/02/2008 ) Rv. 239160, “Requisito del reato di disastro di cui all'art. 434 cod. pen. è la potenza espansiva del nocumento unitamente all'attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane. (Fattispecie di disastro ambientale caratterizzata da una imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi)”. Secondo la Corte di Cass., Sez. 4, Sentenza n. 19342 del 20/02/2007 Ud.  (dep. 18/05/2007 ) Rv. 236410, “Per la configurabilità del reato di disastro innominato colposo di cui agli articoli 449 e 434 cod. pen. è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti. A tal fine, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere, con valutazione "ex ante", accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l'evento dannoso non si è verificato: ciò perché si tratta pur sempre di un delitto colposo di comune pericolo, il quale richiede, per la sua sussistenza, soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per l'incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno.” Nella motivazione la Corte dettagliava che “il delitto di disastro colposo innominato - di cui agli artt. 449 e 434 c.p., contestati agli odierni ricorrenti al capo B) dell'imputazione - richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita o l'incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere, con valutatone ex ante, accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l'evento dannoso non si è verificato”.
E’ dunque sufficiente rilevare “la effettiva capacità diffusiva del pericolo per la pubblica incolumità, dalla quale l'evento, per assumere le dimensioni del disastro, deve essere caratterizzato”; nel procedere a tale valutazione è necessario procedere con “prospettiva ex ante dell'accertamento … al fine di verificare se un certo fatto abbia avuto attitudine a mettere in pericolo un numero non definito di persone e di cose… in quanto essa si pone in logica correlazione con la nozione di pericolo come realtà futura che si presente necessariamente incerta, anche se probabile”. E’ dunque “corretta la logica conclusione che la prova del pericolo non debba essere traslata da quella dell'avvenuto danno cagionato dalla condotta colposa, in quanto si andrebbe incontro inevitabilmente ad una contraddizione in punto di diritto, quella cioè di travisare la vera natura del delitto di disastro innominato (alias, altro disastro) colposo, di cui all'art. 449 c.p., negandone l'appartenenza al genus dei delitti colposi di comune pericolo, il quale richiede - per effetto del richiamo alla nozione di altro disastro preveduto dal capo 1^ del titolo 6^ del libro 2^ del codice di rito, del quale fa parte l'art. 434 c.p. - soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per la incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno”. La sufficienza dell’esposizione al pericolo di un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti, è esplicitamente affermata dalla Corte di Cass. Sez. 4, Sentenza n. 5820 del 03/03/2000 Ud.  (dep. 19/05/2000 ) Rv. 216602 , secondo cui “Il delitto di disastro colposo di cui all'art. 449 cod. pen. richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita o l'incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, casualmente, l'evento dannoso non si è verificato”. Soluzione coerente con la decisione della Corte di Cassazione Sezione 5 sentenza 11486/1989, secondo cui Quando la durata in termini temporali e l’ampiezza in termini spaziali delle attività di inquinamento (in specie gestione illecita di rifiuti), giustificano la sussunzione della fattispecie concreta nella contestata ipotesi di reato di disastro innominato; questo delitto comporta un danno, o un pericolo di danno, ambientale di eccezionale gravità non necessariamente irreversibile, ma certamente non riparabile con le normali opere di bonifica.” .Secondo Cass. Sez. 3, Sentenza n. 46189 del 14/07/2011 Ud.  (dep. 13/12/2011 ) Rv. 251592 infatti “Il delitto di disastro innominato (art. 434 cod. pen.), che è reato di pericolo a consumazione anticipata, si perfeziona, nel caso di contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, con la sola "immutatio loci", purché questa si riveli idonea a cagionare un danno ambientale di eccezionale gravità”. Dalla lettura della motivazione si rilevano spunti di rilievo: “Per quanto attiene al delitto di disastro di cui all'art. 434 c.p. (capo Y), la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che nell'ipotesi dolosa di cui al primo comma, la soglia per integrare il reato è anticipata - diversamente dall'ipotesi colposa per la quale è necessario che l'evento si verifichi - al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità, mentre qualora il disastro si verifichi risulterà integrata la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dello stesso art. 434 c.p. (Cfr. Sez. 4, n. 4675 del 17/5/2006, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235668). Requisito del reato di disastro di cui all'art. 434 c.p. è "la potenza espansiva del nocumento unitamente all'attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane" (cfr. Sez. 3, n. 9418 del 16/1/2008, Agizza, Rv. 239160). È stato precisato (Sez. 5, n. 40330 dell'11/10/2006, Pellini, Rv.236295) che "è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone che l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva; in tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo". Quindi il delitto di disastro innominato di cui all'art. 434 c.p., comma 1, quindi, è reato di pericolo a consumazione anticipata che si perfeziona con la condotta di "immutatio loci", purché questa si riveli idonea in concreto a mettere in pericolo l'ambiente; esso si realizza quando il pericolo concerne un danno ambientale di eccezionale gravità, seppure con effetti non necessariamente irreversibili qualora venga a verificarsi, in quanto il danno provocato potrebbe pur sempre essere riparabile con opere di bonifica. 5.4. Nel caso concreto, i giudici di appello, con ampia ed esaustiva motivazione (pagg. 33-37), hanno innanzitutto affermato quale necessaria premessa metodologica la verifica della sussistenza del pericolo per la salute pubblica, da accertare con un giudizio ex ante, dovendosi ritenere raggiunta la prova del pericolo a fronte della "elevata probabilità" della compromissione del bene ambiente, senza necessità di ricercare la prova dei verificarsi di tale compromissione. Hanno poi ripercorso le risultanze degli accertamenti svolti nel territorio di Acerra, Nola, compresi i dati delle analisi dell'ARPAC (che avevano ritenuto trattarsi di "rifiuti pericolosi costituiti da scorie di fonderia unite a polveri di abbattimento fumi misti al cd. "fluff", corrispondente alla parte leggera delle autovetture, cioè le spugne, i filtri, i tubi di frizione, tutto materiale non riciclabile", così come menzionato nella sentenza di primo grado a pag. 25) e quelli della disposta consulenza tecnica, la quale ha stabilito che le sostanze illecitamente smaltite erano rifiuti pericolosi provenienti dalla metallurgia termina dell'alluminio, con rischio R45 cancerogeno, sostanze che erano state sversate in territori particolarmente vulnerabili per le loro caratteristiche morfo-lito-idrogeologiche. In tale situazione i giudici di merito hanno ritenuto che l'imponente contaminazione di siti realizzata dagli indagati mediante le condotte ripetute di scarico di una quantità ingente di rifiuti ed il loro occultamento mediante sotterramento, qualifichi tali condotte, nel senso che le stesse sono state idonee in concreto ad incidere nell'ambiente con conseguenze gravi e potenzialità lesive nei confronti dell'incolumità fisica di un numero indeterminato di persone, sicché hanno causato un pericolo concreto ed effettivo, sia per la durata nel tempo del traffico illecito, sia per l'incidenza concreta dell'attività di interramento con inquinamento del terreno e contaminazione altamente probabile. Di conseguenza i giudici hanno concluso ritenendo la sussistenza dell'ipotesi delittuosa di disastro ambientale di cui al comma 1 dell'art. 434 c.p..Quanto all'elemento psicologico, i giudici di appello hanno ritenuto, con motivazione immune da censure, che risultasse evidente, anche per lo specifico expertise degli imputati a ragione delle attività svolte, la piena consapevolezza in capo agli stessi della "qualità/pericolosità" dei rifiuti che venivano ad essere illecitamente smaltiti e quindi hanno ritenuto sussistente il dolo del delitto di disastro ambientale, reato che non richiede come obiettivo specifico la volontà di porre in pericolo l'incolumità pubblica, bastando la consapevolezza che le condotte poste in essere, magari per altri fini come quello di profitto, siano idonee a mettere a repentaglio il bene ambiente. L'analisi e la valutazione degli elementi sulla cui base è stata affermata l'esistenza del pericolo di disastro ambientale (e la consapevolezza e volizione di tale pericolo in capo agli imputati) - pericolo ritenuto nel caso di specie più che concreto per la contaminazione del suolo, attese le connotazioni di durata, ampiezza e intensità delle condotte di traffico illecito di rifiuti - è stata espressa nella decisione impugnata con motivazione ampia, coerente, plausibile e rappresenta un giudizio sul fatto, giudizio di merito come tale insindacabile in questa sede.

Analogamente la Cass. Sez. 4, Sentenza n. 36626 del 05/05/2011 Cc.  (dep. 11/10/2011 ) Rv. 251428 , secondo cui “Il disastro innominato di cui all'art. 434 cod. pen. è un delitto a consumazione anticipata, in quanto la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a consumare il reato mentre il verificarsi dell'evento funge da circostanza aggravante; il dolo è intenzionale rispetto all'evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità. (Fattispecie di reiterata abusiva attività estrattiva da una cava con alterazione di corsi d'acqua, inondazioni, infiltrazioni, instabilità ambientale e pregiudizio per la dinamica costiera)”.

La sufficienza dell’esposizione al pericolo di un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti, è esplicitamente affermata dalla Corte di Cass. Sez. 4, Sentenza n. 5820 del 03/03/2000 Ud.  (dep. 19/05/2000 ) Rv. 216602 , secondo cui “Il delitto di disastro colposo di cui all'art. 449 cod. pen. richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita o l'incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, casualmente, l'evento dannoso non si è verificato”.

La delimitazione dell’evento nella fattispecie incriminatrice è ben delineata dalla Sez. 5, Sentenza n. 40330 del 11/10/2006 Cc.  (dep. 07/12/2006 ) Rv. 236295 , secondo cui “si identificano danno ambientale e disastro qualora l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo”. Esaminando la motivazione della sentenza appaiono chiari i confini normativi, rilevando infatti la Corte, in via preliminare, che “i rifiuti si distinguono in rifiuti urbani (da insediamenti abitativi) e rifiuti speciali (da insediamenti produttivi) e, quindi, i rifiuti di ciascuna categoria in pericolosi e non pericolosi. I rifiuti speciali sono a loro volta classificabili come assimilabili o non assimilabili ai rifiuti urbani, e la normativa conosce anche rifiuti speciali classificati come tossici e rifiuti speciali nocivi, ma ne' la categoria dei rifiuti speciali assimilabili ne' quelle dei rifiuti speciali non tossici o non nocivi coincidono con i rifiuti urbani non pericolosi. Vigono perciò in materia, per effetto della normativa comunitaria direttamente applicabile e recepita nel nostro ordinamento, i principi di autosufficienza, prossimità (cioè della vicinanza) e di correttezza dello smaltimento. La Comunità Europea ha delegato gli Stati alla pianificazione dello smaltimento, in linea, quindi, con un'accezione ampia di autosufficienza. L'Italia ha delegato la pianificazione alle Regioni, nel rispetto dei principi prima richiamati (autosufficienza, prossimità, correttezza), costituiti a principi fondamentali dell'ordinamento. Nel bilanciamento, tuttavia, tra le esigenze di cui sono espressione, il principio di autosufficienza (che consente alle Regioni di vietare di convogliare nelle loro discariche rifiuti provenienti da altre Regioni) è vinto da quello della correttezza dello smaltimento, e cioè del "trattamento adeguato" dei rifiuti, che privilegiando le tecniche di smaltimento più corrette in relazione alle diverse tipologie dei rifiuti, impone di ritenere prevalente l'esigenza di specializzazione, anche a largo raggio, degli impianti. I cosiddetti rifiuti speciali, ancorché non tossici o non nocivi, potendo provenire dagli insediamenti produttivi più disparati, possono difatti richiedere i più disparati trattamenti. È su questa base che è stato affermata la possibilità di circolazione per il raggiungimento dello stabilimento adeguato più prossimo dei rifiuti che abbisognano di trattamenti particolari. Così, con la sentenza n. 505 del 2002, la Corte costituzionale ha ribadito che il principio dell'autosufficienza locale nello smaltimento dei rifiuti in ambiti territoriali ottimali vale, ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 5, comma 3, lettera a), per i soli rifiuti urbani non pericolosi (ai quali fa riferimento l'art. 7, commi 1 e 4, dello stesso decreto) e non anche per altri tipi di rifiuti, per i quali vige invece il diverso criterio della vicinanza di impianti di smaltimento "appropriati", per ridurre sì il movimento dei rifiuti stessi ma compatibilmente con la necessità di impianti specializzati per il loro smaltimento, ai sensi della lettera b) del medesimo comma 3: "a siffatto criterio sono stati ritenuti soggetti i rifiuti speciali (definiti dall'articolo 7, commi 3 e 4), sia pericolosi (sentenza n. 281 del 2000) che non pericolosi (sentenza n. 335 del 2001)".Non solo, perciò, non esiste alcun "principio" di indistinta libera circolazione dei rifiuti: tanto più nei termini, assoluti, formulati dal ricorrente; ma vige, al contrario, un principio di trattamento adeguato - prossimità (dal quale discende altresì nei confronti della Comunità l'obbligo statuale di dare attuazione al principio di responsabilità di chi, eludendolo, "inquina"), che solo consente, in base al diritto positivo, il trasferimento nell'impianto extraregionale o extraterritoriale più vicino realmente adatto al rifiuto speciale, tanto più se pericoloso, da trattare: principio che risulta microscopicamente violato dalle condotte ritenute sussistenti.”. Quanto poi all’accezione di "disastro", questo “implica che sia cagionato un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità "straordinariamente grave e complesso", non nel senso, però, di "eccezionalmente immane", essendo necessario e sufficiente che il nocumento abbia un "carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone" e che l'eccezionalità della dimensione dell'evento abbia destato un esteso senso di allarme (Sez. 5, n. 11486 del 12/12/1989; Sez. 4, Sentenza n. 1686 del 20/12/1989; Sez. 4, Sentenza n. 1616 del 04/10/1983). Quel che caratterizza, insomma, la nozione di disastro è la diffusione del danno cui è connesso il pericolo per l'integrità alla salute, in guisa "da potersene dedurre l'attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità" (Rel. min. sul progetto del codice penale, 2^, p. 222). Sicché non è richiesto, per l'integrazione dell'illecito, che il fatto abbia direttamente prodotto, collettivamente, morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga una pencolo grave e per la salute collettiva (già avvisando che "Del danno o del pericolo alle cose si tiene conto solo in quanto da esso possa sorgere un pericolo per la vita o per l'integrità delle persone" la Rei. min. cit., p. 212). Se dunque il concetto di disastro sta nella "potenza espansiva del nocumento" (così il Guardasigilli nella Rel. al Re) alla integrità e alla sanità, ben si comprende come si profili in linea astratta esigua la linea di demarcazione tra disastro e il danno ambientale allorché questo sia costituito da una importante contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana, e come siffatta demarcazione si riveli inesistente allorché la attività di contaminazione diretta e indiretta (realizzata cioè mediante accumulo nei territori e versamento nelle acque di rifiuti speciali altamente pericolosi nonché mediante diffusione di prodotti di compostaggio destinati alla concimazione contenenti residui pericolosi) assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tali da risultare, in concreto, "straordinariamente grave e complessa", come è accaduto nella vicenda in esame secondo la ricostruzione dei giudici di merito. Mentre, occorre ribadirlo, la prova di immediati ed evidentemente "tragici" effetti sull'uomo prodotti dall'evento non può essere assunta a parametro o a misura esclusiva del "disastro" (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 20370 del 20.4.2006). (…) Rileva infatti il Tribunale, richiamando la ben più ampia motivazione della misura custodiale (nella quale risultavano meticolosamente riportate le sostanze nocive immesse nell'ambiente attraverso le procedure illecite di smaltimento di rifiuti pericolosi), e le diffuse conclusioni dei consulenti e dell'ARPAC, che il perito Dott. Auriemma aveva ampiamente dato conto del nocumento all'ambiente e alla salute prodotto dall'apparente trattamento e dallo smaltimento illecito di "migliaia di tonnellate" di rifiuti pericolosi mediante impianti illegali, inidonei al trattamento dei rifiuti che effettivamente loro pervenivano, situati su terreni agricoli; che l'immissione di ingenti quantità di percolato di discarica dall'impianto dei Pellini nei Regi Lagni e, poi, per tale via, direttamente in mare era dimostrata dalla ripresa video effettuata dagli inquirenti ("autobotti della società Pellini hanno immesso percolato di discarica direttamente nei Regi Lagni, senza passare per l'impianto di trattamento, tanto che il corso d'acqua ha improvvisamente cambiato colore assumendo quello tipico, del percolato di discarica") nonché dai dati relativi ai flussi di percolato conferiti agli impianti Pellini che, paragonati alla impossibilità di gestione alla luce delle effettive capacità dell'impianto di depurazione, ne confermavano l'illecita dispersione; che il fatto che il materiale prodotto dall'azienda e spacciato come compost di qualità costituisse in realtà un assemblaggio di rifiuti contenente residui non consentiti, contenenti pure diossine, risultava dimostrato dagli accertamenti tecnici, dall'esame anche visivo del prodotto, dal materiale destinato al compostaggio rinvenuto. Giova inoltre segnalare l’irrilevanza, per integrare il delitto in contestazione, dell’eventuale coesistenza di altri fattori inquinanti, insistenti nella medesima località, affermando esplicitamente la Corte come tale evenienza imponga una cautela maggiore della previsione: “A fronte di ciò il fatto, evidenziato in ricorso, che nella piana di Acerra insistessero "centinaia" di altre "industrie insalubri", non è argomento escludente ne' attenuante la responsabilità. Da tale circostanza assertivamente notoria sarebbe disceso, al contrario, in ragione del principio di precauzione, un obbligo d'ancora maggiore cautela e di più rigorosa osservanza in termini di legalità delle prescrizioni in materia di raccolta, trasporto, trattamento e smaltimento dei rifiuti”.

24 Vedi la Corte di Cass sez. I, 19 novembre 2014 (dep. 23 febbraio 2015), n. 7941, Pres. Cortese, Est. Di Tomassi, imp. Schmidheiny che concludeva, quanto al secondo comma dell’art. 434 c.p. (“la pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene”), per la circostanza aggravante, conclusione peraltro esplicitamente ritenuta irrilevante quanto alla consumazione del delitto, avendo la Corte incluso tale momento – l’avvenuto disastro ambientale - all’interno della consumazione, con effetti sulla decorrenza della prescrizione; vedi espressamente la parte della relativa motivazione: “La consumazione del delitto aggravato. La considerazione della realizzazione del disastro alla stregua di aggravante non comporta tuttavia, ad avviso del Collegio, che, ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e della decorrenza quindi dei termini di prescrizione, l'evento non debba essere considerato. Secondo la definizione più comune, il reato è consumato allorché la fattispecie è compiutamente realizzata e si ha così piena corrispondenza tra modello legale e fatto concreto. Dottrina attenta e una parte considerevole della giurisprudenza distinguono però perfezione e consumazione, osservando che la realizzazione di tutti gli elementi della fattispecie nel loro contenuto "minimo" coincide con la perfezione del reato, e segna così la linea di confine per la configurabilità del tentativo, ma non sempre e non necessariamente ne esaurisce la consumazione, da intendere quale momento in cui si chiude l'iter criminis e il reato perfetto raggiunge la massima gravità concreta riferibile alla fattispecie astratta e si apre la fase del posi factum. Con il corollario essenziale, dunque, che esaurimento della consumazione non significa esaurimento di tutti gli effetti dannosi collegati o collegabili alla realizzazione della fattispecie, giacché: o gli effetti dannosi coincidono con l'evento, ed allora l'esaurimento coincide con la consumazione; oppure si tratta di effetti ulteriori, ed allora questi possono essere presi in considerazione ai fini della gravità del reato o del danno risarcibile, ma non incidono sul momento (consumativo) del reato. 6.2. La distinzione viene così sostanzialmente a coincidere con quella tra inizio e cessazione della consumazione ed assume rilevanza, ai fini del decorso del termine della prescrizione, nei reati a consumazione protratta per definizione normativa, quali sono i reati permanenti, in cui (come evidenziano Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro, Rv. 221400, e Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Lauriola, Rv. 213932, citando Corte cost. n. 520 del 1987) la fattispecie è caratterizzata dal fatto che "la durata dell'offesa è espressa da una contestuale duratura condotta colpevole dell'agente", o i reati necessariamente abituali; e può in concreto venire in rilievo nei reati eventualmente abituali e nei reati cosiddetti istantanei realizzati mediante una condotta prolungata, o frazionata, non richiesta dalla fattispecie astratta pur non essendo con essa incompatibile (si pensi all'omicidio realizzato mediante somministrazione di dosi via via più letali di un veleno, al crollo determinato mediante la provocazione di successive insistenti lesioni strutturali; all'estorsione con cui si richiedono pagamenti rateali). Ma non esplica alcuna funzione, come riconoscono dottrina e giurisprudenza consolidate, ai fini della individuazione del momento consumativo, e quindi anche del dies a quo della prescrizione, in riferimento agli effetti prolungati o permanenti dei reati istantanei o a condotta comunque esaurita (tra moltissime, oltre a Sez. U, Lauriola, citata, Sez. U, n. 3 del 22/03/1969, Brunetti, Rv. 111410, in tema di contraffazione di atto pubblico; Sez. U, n. 8 del 28/02/2001, Ferrarese, Rv. 218768, in tema di fraudolento trasferimento di valori; Sez. 6, n. 25976 del 04/05/2010 Silvestri, Rv. 247819, in tema di evasione; Sez. 3, n. 42343 del 09/07/2013, Pinto Vraca, Rv. 258313, in tema di abbandono di rifiuti). Ciò appunto perché nei cosiddetti reati ad effetti permanenti non si ha il protrarsi dell'offesa dovuta alla persistente condotta del soggetto agente, ma ciò che perdura nel tempo sono le sole conseguenze dannose del reato. E poiché quasi tutti i reati possono avere conseguenze più o meno irreparabili in relazione non solo alla loro intima struttura (si pensi all'omicidio) ma anche alle imponderabili variabili dei singoli casi concreti (si pensi all'evasione, al danneggiamento), in realtà quella dei reati ad neppure può considerarsi categoria dotata di autonoma rilevanza, se non, forse, ai fini di precisarne la distinzione rispetto ai reati permanenti, abituali o a consumazione prolungata.

25 E’ fondamentale sottolineare che le questioni, indicate come estremamente rilevanti, non avevano accesso al caso Eternit per le ritenute peculiarità del caso di specie. Si riporta il passo della motivazione, sul punto, a seguire: “ Nessuna di dette evenienze, invero, assume rilievo nella fattispecie in esame. Non l'ipotesi dell'evento a distanza (sicuramente riconducibile alla nozione di consumazione rilevante ai sensi dell'art. 158 cod. pen.), perché nel caso in esame l'evento, consistendo nella immutatio loci, si è realizzato ed è venuto ad acquistare le connotazioni di straordinaria portata degenerativa dell'habitat naturale parallelamente e contestualmente alla prosecuzione dell'attività di lavorazione dell'amianto, e il momento di sua massima espansione sotto l'aspetto del fenomeno distruttivo naturalistico così innescato per fatto dell'imputato non può collegarsi a momenti successivi alla chiusura degli stabilimenti.

Non l'ipotesi del danno lungo-latente riferita alle patologie asbesto correlate, perché, a prescindere dal problema della possibile rilevanza anche in materia penale del momento della manifestazione piuttosto che della teorica insorgenza del male conseguente a condotta illecita, malattie e morti, come detto, non costituiscono l'evento del reato di disastro e potevano semmai venire presi in considerazione quali eventi individuali di reati di lesioni e omicidi, invece non contestati.

Non infine l'ipotesi dell'evento occulto, giacché - ripetuto che il danno rilevante ai fini della consumazione e del decorso della prescrizione è soltanto quello che coincide con l'evento tipizzato, e dunque con il disastro ambientale - l'impostazione accusatoria e le condanne pronunziate dai giudici di merito presuppongono che già quando l'odierno imputato aveva assunto la responsabilità della gestione del rischio di amianto per le aziende Eternit Italia, gli effetti "disastrosi" della lavorazione (almeno quella non adeguatamente controllata) dell'asbesto erano scientificamente noti. 8.3. D'altronde non può dimenticarsi che, come ricordano tra molte Corte cost. n. 434 del 2003 e n. 376 del 2008, il problema della efficacia morbigena delle polveri di amianto, ancorché non bene identificati i modi, i tempi e i livelli di concentrazione della esposizione produttiva delle patologie tumorali, venne posto in luce in sede comunitaria agli inizi degli anni ottanta, e la lavorazione dell'amianto è stata oggetto di interventi dapprima limitativi poi inibitori che partono dalla direttiva CEE n. 477 del 19 settembre 1983. Nelle considerazioni premesse a tale direttiva già si dava atto della nocività dell'amianto e si rilevava che erano numerose le situazioni di lavoro in cui tale agente nocivo era presente, pur ammettendosi che le conoscenze scientifiche dell'epoca non consentivano di stabilire il livello al di sotto del quale non vi fossero più rischi per la salute. Sulla base di tali considerazioni, la direttiva dettava una serie di disposizioni volte, anzitutto, ad accertare, mediante le opportune notifiche da parte delle imprese, le lavorazioni comunque comportanti l'uso dell'amianto ed i livelli di concentrazione e ad ottenere la eliminazione di un certo tipo di lavorazione (applicazione dell'amianto a spruzzo: art. 5), l'adozione di misure concernenti le modalità di svolgimento delle lavorazioni, la protezione degli ambienti in cui si svolgevano, ed, infine, l'accertamento delle condizioni di salute dei lavoratori e la dotazione di idonei equipaggiamenti individuali, qualora non fosse stato possibile eliminare altrimenti i rischi. A tale direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto dare attuazione entro il 1 gennaio 1987, ad esclusione che per le attività estrattive dell'amianto, per le quali era previsto un termine più lungo. L'Italia non adottò per tempo i provvedimenti dovuti, e la Corte di giustizia delle Comunità Europee, a seguito di procedura di infrazione promossa dalla Commissione, con sentenza 13 dicembre 1990, n. 240, la dichiarò inadempiente agli obblighi che le incombevano in forza del Trattato CEE.

Successivamente il Consiglio emise la direttiva n. 382 del 1991 con la quale, "considerando che, l'amianto è un agente particolarmente pericoloso che può provocare malattie gravi ed è presente in varie forme in numerose situazioni di lavoro", vietò, in aggiunta alla applicazione a spruzzo, altre forme d'impiego del materiale e indicò nuovi valori-limite, pur dando atto che non poteva ancora essere adottata una decisione che stabilisse "un unico metodo di misurazione del tenore di amianto nell'aria a livello comunitario". Per dare attuazione alla direttiva n. 477 del 1983 e alle altre concernenti la protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, in esecuzione della delega di cui alla L. 30 luglio 1990, n. 212, art. 7 venne emanato il D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, il quale, tra l'altro, all'art. 31 fissava valori-limite di esposizione alla polvere di amianto espressi come media ponderata in funzione del tempo di riferimento di otto ore. Con la L. 27 marzo 1992, n. 257, pubblicata un anno dopo, nella Gazzetta Ufficiale del 4 agosto 1993, vennero infine dettate "Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto". E in detto contesto normativo vale ricordare che l'art. 1, comma 1, individuava le finalità perseguite nella dismissione dell'amianto dalla produzione e dal commercio, nella cessazione dell'estrazione, dell'importazione, dell'esportazione, dell'utilizzazione di detto materiale e dei prodotti che lo contengono, nonché nella bonifica delle aree inquinate, nella ricerca di materiali sostitutivi e nella riconversione produttiva, mentre l'art. 10, comma 1, prevedeva che regioni e province autonome adottassero, entro centottanta giorni dalla data di emanazione del D.P.C.M. di cui all'art. 6, comma 5, piani di protezione dell'ambiente, di decontaminazione, di smaltimento e di bonifica ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall'amianto. A tutto voler concedere, ed ammettendo in ipotesi che ai fini della nozione di evento "occulto" possa rilevare anche il ritardo nella informazione scientifica degli organi pubblici legato alla lentezza della risposta politica a problemi di tale fatta, almeno a far data dall'agosto dell'anno 1993 non poteva ignorarsi a livello comune l'effetto del rilascio incontrollato di polveri e scarti prodotti dalla lavorazione dell'amianto, definitivamente inibita, con comando agli enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti. E da tale data a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (del 13 febbraio 2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti, con eventuali atti interruttivi (12 anni più un quarto), per la maturazione della prescrizione in base alla L. n. 251 del 2005, per il reato in esame.

26 Per l’applicazione, in tema di lottizzazione abusiva del reato progressivo nell’evento, vedi Sez. 3, Sentenza n. 12772 del 28/02/2012 Cc.  (dep. 04/04/2012 ) Rv.: “La contravvenzione di lottizzazione abusiva è reato progressivo nell' evento, che sussiste anche quando l'attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o alle opere già eseguite, non esaurendo tali iniziali attività il percorso criminoso e protraendosi quest'ultimo attraverso gli interventi successivi incidenti sull'assetto urbanistico”(analogamente Sezione 3 n. 36940/2005 RV. 232190); in tema di riciclaggio, vedi Sez. 2, Sentenza n. 52645 del 20/11/2014 Ud.  (dep. 18/12/2014 ) Rv. 261624 “In tema di riciclaggio, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva, che viene a cessare con l'ultima delle operazioni poste in essere. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto realizzata la condotta consumativa del reato per l'intero arco temporale di operatività di una società costituita al fine di ripulire denaro, beni ed altre utilità, risultate in origine riconducibili ad esponenti di primo piano di "Cosa Nostra").

27 Queste le conclusioni della sentenza n. 4675 del 2007 (riguardante Porto Marghera), in cui il disastro innominato veniva indicato avente il carattere di reato eventualmente permanente, nel qual caso il reato si consuma in tale caso "sino a che perdura l'evento-disastro, ma ciò a condizione che l'evento-disastro perduri nel tempo per effetto di una persistente condotta del reo". La categoria è stata evocata in relazione a diverse norme, in tema di delitto di turbata liberta dell'industria o del commercio (vedi Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6251 del 22/12/2010 Ud.  (dep. 21/02/2011 ) Rv. 249534 secondo cui “Il delitto di turbata liberta dell'industria o del commercio, ove la condotta fraudolenta si protragga nel tempo, ha natura di reato eventualmente permanente, identificandosi il momento di cessazione dell'antigiuridicità con l'ultimo atto illecito. (Fattispecie in tema di prescrizione, nella quale la Corte ha precisato che, in assenza di indicazioni circa l'epoca di ultimazione della condotta illecita, è legittimo computare il termine di decorrenza della prescrizione dalla data della querela)”), di riciclaggio (vedi Sez. 2, Sentenza n. 34511 del 29/04/2009 Ud.  (dep. 07/09/2009 ) Rv. 246561 “il delitto di riciclaggio, pur essendo a consumazione istantanea, è a forma libera e può anche atteggiarsi a reato eventualmente permanente quando il suo autore lo progetti e lo esegua con modalità frammentarie e progressive.”) e di usura (Sez. 1, Sentenza n. 11055 del 19/10/1998 Ud.  (dep. 22/10/1998 ) Rv. 211610: ” In tema di usura, qualora alla promessa segua - mediante la rateizzazione degli interessi convenuti - la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un "post factum" penalmente non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell'originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo "sostanziale" del reato, realizzandosi, così, una situazione non necessariamente assimilabile alla categoria del reato eventualmente permanente, ma configurabile secondo il duplice e alternativo schema della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a consumazione prolungata. (Principio enunciato con riferimento a una fattispecie relativa all'incasso degli interessi usurari da parte di soggetti diversi da quelli partecipanti alla stipula del patto, dei quali la S.C. ha ritenuto la responsabilità a titolo di concorso nel reato)”.

28 Vedi la Corte di Cassazione, nella decisione del 19 novembre 2014 (dep. 23 febbraio 2015), n. 7941, Pres. Cortese, Est. Di Tomassi, imp. Schmidheiny, quanto all'ipotesi del “reato a evento differito”, nel quale si ha semplicemente un distacco temporale fra la condotta e l'evento tipico ad essa causalmente collegato”.

29 La massima della decisione è la seguente: “La prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito decorre da quando il danneggiato, con l'uso dell'ordinaria diligenza, sia stato in grado di avere conoscenza dell'illecito, del danno e della derivazione causale dell'uno dall'altro; ne consegue che, nel caso di danno aquiliano derivante dall'illegittimo trattamento di dati personali, ove il documento contenente i dati indebitamente diffusi sia allegato agli atti di un procedimento penale, la prescrizione del diritto al risarcimento decorre dal momento in cui il preteso danneggiato ha legalmente la possibilità di attivarsi per conoscere gli atti di indagine”.

30 L’indirizzo è costantemente seguito a partire dalle sentenza a seguire citate e, da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 28464 del 19/12/2013 (Rv. 629132) : “La responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi è di natura extracontrattuale, né sono ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di prescrizione (epidemia colposa o lesioni colpose plurime); ne consegue che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, primo comma, cod. civ., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche, da ritenersi coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui all'art. 4 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, ma con la proposizione della relativa domanda amministrativa, che attesta l'esistenza, in capo all'interessato, di una sufficiente ed adeguata percezione della malattia.

31 Il caso risultava il seguente: un medico redigeva un certificato medico, con il quale chiedeva che la parte lesa fosse sottoposto al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO); consegnava il certificato ai Carabinieri, invece che al Sindaco; i Carabinieri lo inviavano, oltre che al Sindaco, alla locale Procura della Repubblica; nei dicembre 2002 gli era stato notificato l'avviso di richiesta di archiviazione di un procedimento penale, da lui avviato con querela (contro un terzo soggetto) e che, anni dopo, prendendo visione dei suddetto fascicolo, aveva scoperto che il certificato era confluito nello stesso; la divulgazione di dati sensibili relativi alla sua persona aveva comportato un danno all'immagine, atteso che nel piccolo Paese dove viveva si era diffusa la voce che fosse pazzo ed era stato costretto a trasferirsi, e che la trasmissione alla Procura aveva comportato che le sue querele fossero considerate provenienti da un folle; nel settembre 2007 aveva messo in mora il Dottore. Il soggetto del quale si richiedeva la sottoposizione al TSO, che assumeva di essere stato danneggiato, deduceva di aver avuto conoscenza della suddetta violazione quando, avvisato, come persona offesa, della richiesta di archiviazione di una propria querela (ex art. 408 c.p.p., comma 2), ha preso visione degli atti del procedimento penale, segreti ai sensi dell'art. 329 cod. proc. pen., e vi ha trovato la richiesta di TSO (trasmessa dai Carabinieri alla Procura della Repubblica). Secondo il principio affermato il termine di prescrizione dell'azione di danno decorre dalla data del fatto, da intendersi riferito al momento in cui il soggetto danneggiato abbia avuto - o avrebbe dovuto avere, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche - sufficiente conoscenza della rapportabilità causale del danno lamentato. Nella specie, caratterizzata dall'esistenza del segreto su atti - che per essere confluiti nel fascicolo del P.M. sono sottoposti al regime proprio degli atti di indagine - da cui si assume essere derivato il danno, il momento, rilevante per la rapportabilità causale del danno lamentato a un comportamento posto in essere da un soggetto determinato e della conseguente decorrenza della prescrizione, coincide con quello in cui il preteso danneggiato ha avuto legalmente la possibilità di attivarsi per conoscere quei documenti; cioè la ricezione dell'avviso di richiesta di archiviazione, che costituisce il momento in cui, secondo la previsione legislativa dell'art. 408 cit., è stata portata a sua conoscenza la cessazione del regime di segreto.

32 in realtà si tratta di dieci sentenze relative a cause discusse nella stessa udienza: nn. 576-585. Questo il principio di diritto di cui alla massima della Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008 (Rv. 600901)  “La responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi è di natura extracontrattuale, né sono ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di prescrizione (epidemia colposa o lesioni colpose plurime); ne consegue che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, primo comma, cod. civ., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche (a tal fine coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui all'art. 4 della legge n. 210 del 1992, bensì con la proposizione della relativa domanda amministrativa).”

 

33 Rileva sul punto anche la decisione della Corte Cass. 21 febbraio 2003, n. 2645

34 Vedi Corte di Cass. 8 maggio 2006, n. 10493

35 Vedi Cass. 2 febbraio 2005, n. 2002

36 Ad integrare si cita anche la Corte di Cassazione Sez. 3, Sentenza n. 12699 del 25/05/2010 (Rv. 613040) e le sentenze ivi citate, secondo cui “In tema di risarcimento del danno da fatto illecito, la prescrizione decorre non dal momento in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all'altrui diritto, bensì da quello in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno, divenendo conoscibile, ossia dal momento in cui il danneggiato abbia avuto - o avrebbe dovuto avere, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche - sufficiente conoscenza della rapportabilità causale del danno lamentato.

….Costituisce giurisprudenza ormai sostanzialmente consolidata che in tema di risarcimento del danno da fatto illecito (così come di quello dipendente da responsabilità contrattuale) il termine di prescrizione decorre non dal momento in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all'altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 19022 del 11/09/2007; Cass. Sentenza n. 16148 del 20/07/2007; e Cass. Sentenza n. 12666 del 29/08/2003). Ma la vera questione nella fattispecie è stabilire quando la produzione del danno si è manifesta all'esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile.

Soccorre sul punto quanto affermato da questa Corte Suprema nella sentenza n. 27337 del 18/11/2008 ove si afferma che il termine iniziale "...decorre dalla data del fatto, da intendersi riferito al momento in cui il soggetto danneggiato abbia avuto - o avrebbe dovuto avere, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche - sufficiente conoscenza della rapportabilità causale del danno lamentato". Si consideri anche quanto rilevato da Cass. Sez. U, Sentenza n. 27337 del 18/11/2008:
"Qualora l'illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche per difetto di querela, all'azione risarcitoria si applica l'eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato (art. 2947 c.c., comma 3, prima parte) perché il giudice, in sede civile, accerti "incidenter tantum", e con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed aggettivi. Detto termine decorre dalla data del fatto, da intendersi riferito al momento in cui il soggetto danneggiato abbia avuto - o avrebbe dovuto avere, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche - sufficiente conoscenza della rapportabilità causale del danno lamentato nello stesso senso: Cass. Sentenza n. 23930 del 12/11/2009. Quest'ultimo principio di diritto, nella sua prima parte (sopra riportata in corsivo grassetto), risolve anche la questione in ordine al difetto di querela in senso diverso (pure in tal caso) da quello affermato nell'impugnata sentenza.

 

37 Vedi Cass. 25 maggio 2010, n. 12699

38 Vedi Cass. sez. 3^, 28 luglio 2004, n. 14249; Cass. sez. 2^, 10 settembre 2007, n. 19012; Cass. sez. 1^, 25 giugno 2008, n. 17334)

39 Cass. sez. 3^, 23 luglio 2003, n. 11451; Cass, sez. 3^, 7 novembre 2005, n. 21495; Cass. sez. 3^, 7 novembre 2005, n. 21500; Cass. sez. 3^, 22 giugno 2007, n. 14576

 

40 Vedi in tal senso Sez. 3, Sentenza n. 7139 del 21/03/2013 (Rv. 625504), Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto che il fatto lesivo della perforazione di un occhio, manifestatosi inizialmente con sdoppiamento dell'immagine e riduzione del "visus" correggibile con l'uso di lenti, evoluto successivamente in strabismo, si traduceva, poi, in ulteriore riduzione del "visus" non più migliorabile con lenti, fino alla definitiva perdita dello stesso, integrando così il passaggio dall'indebolimento permanente di un senso alla sua perdita, e, quindi, una lesione nuova idonea ad escludere la prescrizione del diritto al risarcimento.

 

41 Anche il caso classico della violazione urbanistica ed i principi sovente espressi in tema di consumazione e prescrizione, dovrebbero essere totalmente rivisti almeno nei casi di edificazione occultata, individuata incolpevolmente in ritardo, con causazione di danno lungo-latente.

 

42 Con la decisione la Svizzera è stata condannata dalla Corte di Strasburgo a risarcire i prossimi congiunti di un lavoratore rimasto vittima di esposizione prolungata all’amianto.

La violazione del diritto convenzionale – e segnatamente dell’art. 6 della CEDU, nella parte che prevede il diritto ad un processo “equo” nella sua valenza primaria di diritto di accesso effettivo alla giustizia – era nella fattispecie rinvenibile nel particolare regime di decorrenza del termine di prescrizione dei diritti vigente in quello Stato.

La richiesta di risarcimento venne rigettata in quanto la relativa azione , sulla base della legge federale svizzera sulla responsabilità civile e quella sulle assicurazioni sociali, risultava prescritta essendo passati più di dieci anni da quando il danno è stato cagionato. Le eredi ricorrevano alla Corte di Strasburgo lamentando la lesione dell’art. 6 della CEDU, per avere le autorità nazionali rigettato le loro pretese fissando la decorrenza del termine di prescrizione a partire da un momento in cui il soggetto leso non può avere minimamente contezza dello stato patologico, per tale via di fatto comprimendo nella sua sostanza il diritto a portare l’istanza di tutela all’attenzione del giudice.

 

43 Onde evitare possibili eccessi interpretative, fondati su un’erronea traduzione, si riportano I passi salient in lingua inglese: “The Court considered that in cases where it was scientifically proven that a person could not know that he or she was suffering from a certain disease, that fact should be taken into account in calculating the limitation period. In view of the exceptional circumstances in the present case it considered that the application of the periods in question had restricted the applicants’ access to a court to the point of breaching Article 6 § 1 of the Convention”,

E francese : “Partant, au vu des circonstances exceptionnelles de la présente espèce, la Cour estime que l’application des délais de péremption ou de prescription a limité l’accès à un tribunal à un point tel que le droit des requérantes s’en est trouvé atteint dans sa substance même, et qu’elle a ainsi emporté violation de l’article 6 § 1 de la Convention”.

 

44 Principi ribaditi a seguire dalla Corte di cass. Sez. 6, Sentenza n. 17897 del 26/03/2009 Cc.  (dep. 29/04/2009 ) Rv. 243319 , Sez. 6, Sentenza n. 26176 del 17/03/2009 Cc.  (dep. 23/06/2009 ) Rv. 244522 , secondo cui “Ai fini del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente art. 322-ter cod. pen., il profitto confiscabile al corruttore va identificato nel solo incremento di valore che il bene abbia ricevuto per effetto dell'attività corruttiva. Ne consegue che il giudice deve prima stabilire il valore dell'incremento del bene e, successivamente, disporre il vincolo cautelare nei limiti del valore corrispondente all'incremento stesso. (Fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto illegittimo il sequestro preventivo di terreni divenuti edificabili in conseguenza di una rimozione di vincoli disposta grazie all'ipotizzata stipula di un accordo corruttivo).

45 vedi Cass Sez. 6, Sentenza n. 42530 del 05/10/2012 Cc.  (dep. 05/11/2012 ) Rv. 254482 secondo cui “Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 322 ter cod. pen., presuppone che sia precisamente determinato ed accertato in concreto il profitto del reato realmente lucrato. (Nella specie, la Corte ha annullato il decreto di sequestro preventivo, disposto nell'ambito di un procedimento per corruzione connessa all'aggiudicazione di pubblici appalti, di una somma di denaro, individuata come congrua in base ad un apprezzamento meramente presuntivo)”)

46 Vedi, sul punto, la Corte di Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8339 del 12/11/2013 Cc.  (dep. 21/02/2014 ) Rv. 258787 secondo cui “In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 322 ter cod. pen., il profitto del reato è costituito dal vantaggio economico, già conseguito dall'imputato e di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, calcolato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato dal reato. (Fattispecie, nella quale la Corte ha annullato il provvedimento di sequestro preventivo - disposto nell'ambito di un procedimento per truffa aggravata e corruzione, connesse alla realizzazione di un parcheggio pubblico in "project financing" - che aveva considerato come profitto del reato anche utilità prospettiche e non ancora acquisite, determinate sulla base delle previsioni degli utili, che nell'arco temporale di oltre tre decenni sarebbero stati tratti dalla gestione economica del parcheggio medesimo)”; analogamente la Corte di Cass Sez. 5, Sentenza n. 25450 del 03/04/2014 Cc.  (dep. 13/06/2014 ) Rv. 260750 secondo cui “In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, il profitto derivante dal reato di manipolazione del mercato può consistere per l'azionista nella acquisizione della plusvalenza delle azioni ovvero nella evitata perdita di valore delle stesse, sempre che il vantaggio presenti i caratteri della immediata derivazione dell'illecito penale e della concreta effettività. (Nella specie, il profitto era stato individuato nella mancata perdita di valore delle azioni per effetto del reato di manipolazione di mercato, ma la Corte ha ritenuto non provata la realizzazione concreta del profitto e la sussistenza del nesso causale tra l'evitata perdita di valore delle azioni e il reato ipotizzato).

47 Vedi Cass. Sez. 6, Sentenza n. 24558 del 22/05/2013 Cc.  (dep. 05/06/2013 ) Rv. 256812 secondo cui “Ai fini dell'adozione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, la nozione di profitto del reato coincide con il complesso dei vantaggi economici tratti dall'illecito e a questi strettamente pertinenti, senza che possano essere sottratti i costi sostenuti per la commissione del reato. (In applicazione del principio, la Corte, in relazione ad una contestazione di abuso di informazioni privilegiate che aveva dato luogo ad un'operazione di compravendita di azioni da cui erano derivati ricavi di gran lunga superiori a quelli conseguibili attraverso una normale cessione, ha ritenuto legittimo il sequestro per equivalente anche con riferimento al valore corrispondente alle somme trattenute dalle società acquirenti a titolo di "retrocessione").

48 Vedi Sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654, Fisia Impianti s.p.a. e altri, Rv. 239924): La Corte ammise la possibilità di includere nella nozione di profitto anche le utilità aggiuntive (introiti), nonché i risparmi di spesa, ma escluse che nella specie potesse “propriamente parlarsi, per quello che emerge, di "risparmio di spesa", presupponendo tale concetto un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo concretamente determinato dalla contestata condotta di truffa”. L’affermazione in questione è stata interpretata nel senso che le Sezioni unite ritennero che una componente strutturale del profitto confiscabile può essere costituita anche da un risparmio di spesa, a condizione, tuttavia, che tale concetto sia recepito non in senso assoluto, cioè quale profitto cui non corrispondano beni materialmente affluiti al reo -, quanto, piuttosto, in senso relativo, cioè come ''ricavo introitato'' cui non siano stati decurtati i ''costi che si sarebbero dovuti sostenere'. Il riferimento fu, quindi, ad un profitto materialmente conseguito, benché superiore a quello che sarebbe stato lucrato senza il risparmio di spese dovute. (Sul tema, nello stesso senso, Sez. VI, 17 giugno 2010 , n. 35748, P.M. e Impregilo s.p.a., Rv. 247913). Analogamente Sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 3635/2014, Riva Fire s.p.a., Rv. 257788 intervenuta in una fattispecie in cui era stato disposto, ai sensi degli artt. 19-53 d. lgs. n. 231 del 2001, secondo cui “Sulla base di quanto previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, la confisca per equivalente, essendo finalizzata a colpire beni non legati da un nesso pertinenziale con il reato, potrebbe avere ad oggetto, in ipotesi, anche dei vantaggi economici immateriali, fra i quali ben possono farsi rientrare, a titolo esemplificativo, quelli prodotti da economie di costi ovvero da mancati esborsi, ossia da comportamenti che determinano non un miglioramento della situazione patrimoniale dell'ente collettivo ritenuto responsabile di un illecito dipendente da specifiche implicazioni della linea interpretativa tracciata con la su menzionata pronuncia n. 26654/2008 delle Sezioni Unite” (il riferimento è a Fisia Impianti) “laddove si è osservato che la nozione di risparmio di spesa presuppone "un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo", concretamente determinato dalla contestata condotta delittuosa (che nel caso ivi esaminato, peraltro, riguardava la diversa ipotesi di truffa). Ne discende che quella nozione non può essere intesa in termini assoluti, quale profitto cui non corrispondano beni materialmente entrati nella sfera di titolarità del responsabile, ossia entro una prospettiva limitata all'apprezzamento di una diminuzione o semplicemente del mancato aumento del

passivo, ma deve necessariamente intendersi in relazione ad un "ricavo introitato" dal quale non siano stati detratti i costi che si sarebbero dovuti sostenere, ossia nel senso di una non diminuzione dell'attivo. Occorre, pertanto, un profitto

materialmente conseguito, ma di entità superiore a quello che sarebbe stato ottenuto senza omettere l'erogazione delle spese dovute. Nè è possibile, del resto, colpire più volte, attraverso un'ingiustificata duplicazione di oneri a carico dell'ente, le medesime somme di denaro, una volta considerate in termini positivi, ossia come accrescimento patrimoniale, ed un'altra volta in termini negativi, come risparmio di spese, potendo essere sottoposta ad espropriazione solo l'eccedenza tra l'incremento patrimoniale effettivamente maturato e quello che sarebbe stato conseguito senza l'indebito risparmio di spese”.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno affermato invece il diverso principio secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente ex art. 1, comma centoquarantatreesimo, l. 24 dicembre 2007, n. 244 è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito

tributario (Sez. un., 31 gennaio 2013, n. 18734, Adami, Rv. 255036). Anche le Sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561, Gubert, hanno espressamente qualificato come risparmio di spesa il profitto derivante dal mancato pagamento del tributo a seguito dell’accertamento del debito tributario.

 

49 Vedi Cass. Sez. 5, Sentenza n. 40042 del 07/03/2014 Cc.  (dep. 26/09/2014 ) Rv. 260546 secondo cui “In tema di reati transnazionali, è legittimo il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, del profitto di un delitto che "sia commesso nello Stato ma abbia prodotto effetti sostanziali in un altro Stato", in virtù della previsione dell'art. 3 lett. d) della l. n. 146 del 2006 che, con tale dizione, si riferisce a tutti gli eventi che costituiscono una concreta e diretta conseguenza della commissione del delitto, ivi compreso l'incremento del patrimonio dell'autore del reato reso possibile dall'investimento in territorio estero dei proventi del delitto consumato in territorio italiano. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro preventivo "per equivalente" di alcuni cespiti appartenenti all'indagato, costituenti profitto derivante da un'associazione per delinquere operante in Italia e finalizzata alla commissione di furti nel territorio nazionale, i cui proventi erano stati reinvestiti all'estero).

 

50 Vedi Sez. 4, Sentenza n. 28158 del 02/07/2007 Cc.  (dep. 16/07/2007 ) Rv. 236907, secondo cui “Ai fini della sussistenza del dolo specifico richiesto per l'integrazione del delitto di gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti, previsto dall'art. 53 bis D.Lgs. 22 del 1997 (ora sostituito dall'art. 260 D.Lgs. n. 152 del 2006), il profitto perseguito dall'autore della condotta può consistere anche nella semplice riduzione dei costi aziendali”.

 

51 E’ chiaro che una soluzione di questo tipo avrebbe comportato il dissolvimento per ablazione – in numerosi casi – dell’intero patrimonio dei responsabili, attraverso la via dell’azione reale accessoria a quella penale, che diverrebbe anticipatoria di quella civile.

52 L’ART. 311 TUA prevede infatti che : 1. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto. 2. Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, e' obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato. 3. Alla quantificazione del danno il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio provvede in applicazione dei criteri enunciati negli Allegati 3 e 4 della parte sesta del presente decreto. All'accertamento delle responsabilità risarcitorie ed alla riscossione delle somme dovute per equivalente patrimoniale il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio provvede con le procedure di cui al titolo III della parte sesta del presente decreto.

53 Si tratta dunque di un momento in cui non sono ipotizzabili iniziative del P.M. a sorpresa.

54 La previsione di cui all’art. 316, I e II co., c.p.p. esclude la possibilità che il P.M. agisca autonomamente – facoltà limitata alle sole somme dovute all’erario ed alle spese del procedimento, essendo il potere d’azione prerogativa esclusiva della parte civile, dunque necessariamente costituita in giudizio. Sul punto tranciante è la decisione della Corte di Cass. Sez. 6, Sentenza n. 37666 del 10/07/2014 Cc.  (dep. 12/09/2014 ) Rv. 259982 secondo cui “L'istituto del sequestro preventivo non può essere utilizzato per tutelare privati interessi in sostituzione dei rimedi di tipo civilistico apprestati dall'ordinamento quando non ricorre la concreta possibilità che la libera disponibilità del bene possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato il provvedimento di sequestro preventivo di quote sociali, motivato sulla base di finalità conservative della garanzia patrimoniale della persona offesa).

55 Vedi Cass. Sez. 6, Sentenza n. 14065 del 07/01/2015 Cc.  (dep. 07/04/2015 ) Rv. 262951, secondo cui “E’ illegittimo il provvedimento che dispone il sequestro conservativo a tutela di un credito il cui importo non sia stato ritenuto determinabile nemmeno in via approssimativa, essendo tale indicativa quantificazione indispensabile per la verifica della proporzionalità della misura, dell'idoneità dell'eventuale cauzione offerta e della sussistenza del pericolo di dispersione”.

56 Giova qui segnalare l’ampliamento delle maglie quanto alla sussistenza del periculum in mora: vedi in proposito Sez. U, Sentenza n. 51660 del 25/09/2014 Cc.  (dep. 11/12/2014 ) Rv. 261118 secondo cui “Per l'adozione del sequestro conservativo è sufficiente che vi sia il fondato motivo per ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l'adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 316, commi 1 e 2, cod. proc. pen., non occorrendo invece che sia simultaneamente configurabile un futuro depauperamento del debitore. “

57 L’esperienza induce a sottolineare che neppure lo Stato – inteso in senso lato - è stato capace di bonificare siti per indisponibilità di fondi.

58 Il lato positivo è che risulta così esclusa in radice la possibilità di “neutralizzare” la confisca dei beni ex art. 12 sexies L. cit., simulando la bonifica: ossia qualora sia stato sequestrato, attraverso l’utilizzo delle disposizioni relative alla cd. confisca allargata, un patrimonio valutabile in 100, parte del quale, valutabile in 10, quale equivalente del profitto, il responsabile che abbia bonificato il sito otterrebbe la restituzione di una porzione del suo patrimonio corrispondente a 10. Risulterebbe comunque confiscata la somma di 90.

59 Vedi il relativo comma: “L’istituto della confisca non trova applicazione nell’ipotesi in cui l’imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica o ripristino dello stato dei luoghi”.

60 Vedi, quanto alla persistente competenza del Gip in materia di custodia/amministrazione, Sez. 1, Sentenza n. 51190 del 16/09/2014 Cc.  (dep. 10/12/2014 ) Rv. 261981 secondo cui “In tema di sequestro preventivo ordinario, il giudice per le indagini preliminari che ha emesso il provvedimento è competente a decidere delle eventuali istanze in materia di custodia, gestione ed amministrazione dei beni sottoposti a vincolo in procedimento relativo ai delitti di cui all'art. 51, comma terzo bis, cod. proc. pen., anche durante la pendenza del processo, poiché per tali reati si applicano le disposizioni in materia di amministrazione dei beni sequestrati e confiscati previste dal D.Lgs. del 6 settembre 2011, n.159, in forza dell'art. 12 sexies, comma quarto bis del D.L. n. 306 del 1992. (In applicazione del principio la Corte ha dichiarato la competenza del g.i.p. a decidere sull'istanza di liquidazione dei compensi, presentata dal custode giudiziario in relazione a processo per reati di cui agli artt. 416, 473 e 474 cod. pen. pendente davanti al giudice del dibattimento)”.

61 Vedi, quanto all’inesistenza di un principio di assorbimento, la Corte Sez. 6, Sentenza n. 33883 del 02/07/2012 Cc.  (dep. 05/09/2012 ) Rv. 253655 secondo cui : “Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 12- sexies D.L. 8 giugno 1992, n. 306, che presuppone l'esistenza di una sproporzione tra l'importo nella disponibilità dell'indiziato ed il reddito dichiarato nella propria attività economica di cui non possa essere giustificata la provenienza, non consente di poter ritenere assorbito, per diversità di tipologia e di presupposti, il sequestro previsto dall'art. 322-ter cod. pen., che postula l'accertamento di un collegamento tra il reato e il bene da sequestrare o il valore equivalente”; da ciò segue che se, nella fase delle indagini preliminari, l’amm.re dei beni, sequestrati sulla base dei due diversi titoli giuridici , può essere la stessa persona fisica e dunque far capo allo stesso Gip, nelle fasi successive muterà totalmente il Giudice competente per le decisioni in tema di sequestro per equivalente, seguendo le diverse fasi: Gip, Gup, Tribunale, Corte d’Appello.

 

62 Potrebbe persino accadere l’assurdo: non viene calcolato il quantum del profitto (dunque non viene sequestrato alcunché) ma si procede a sequestrare beni dell’imputato ai sensi dell’art. 12 sexies L. Cit, risorse finanziarie che non potrebbero essere direttamente utilizzate per la bonifica (in assenza di richiamo normativo); in questo caso l’imputato potrebbe dichiarare il quantum del profitto, indicando alcuni o tutti i beni sequestrati ex art. 12 sexies L. Cit, per poi chiederne la restituzione al fine di procedere alla bonifica in modo dunque da recuperarli con questo espediente.

 

63 E’ appena il caso di rilevare che, nell’ipotesi del complice successivamente emerso, è possibile procedere ad entrambe le tipologie di confisca e, dunque, sequestro; nel caso dell’intestatario fittizio dei beni, è possibile procedere al sequestro ex art. 12 sexies L. Cit: ne sorgerebbero dunque ulteriori appendici cautelari reali.

Si deve rammentare il principio della solidarietà piena tra concorrenti quanto al profitto confiscabile per equivalente: Le Sezioni Unite n. 26654 del 27/03/2008 Cc.  (dep. 02/07/2008 ) Rv. 239926 hanno affermato infatti la necessaria applicazione del principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente, sicchè la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato (entro logicamente i limiti quantitativi dello stesso ed escluso i casi in cui la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d'individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione; è comunque escluso che l'espropriazione possa essere duplicata o comunque eccedere nel "quantum" l'ammontare complessivo dello stesso): vedi da ultimo Sez. 2, Sentenza n. 2488 del 27/11/2014 Cc.  (dep. 20/01/2015 ) Rv. 261852 secondo cui “In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, il provvedimento cautelare può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato. (Fattispecie in materia di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche).

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