Cass. Sez. III n. 39741 del 5 novembre 2021 (PU 31 marzo 2021)
Pres. Sarno Est. Aceto Ric. Petracca ed altri
Urbanistica.Cessione di cubatura e requisiti

La diversità degli indici di fabbricabilità dei fondi oggetto di cessione di cubatura costituisce certamente un elemento ostativo all’asservimento dei terreni a fini edificatori. Ma ciò non equivale a sostenere il contrario: che l’omogeneità di tali indici autorizzi senz’altro l’asservimento. La “contiguità” dei fondi resta un requisito imprescindibile ai fini dell’accorpamento. La “contiguità” deve essere intesa in senso fisico, come «effettiva e significativa vicinanza».

RITENUTO IN FATTO

            1. I sigg.ri Andrea Petracca, Raffaela Brigante, Andrea Calabrese e Lucio Ricciardi ricorrono per l’annullamento della sentenza del 08/07/2019 della Corte di appello di Lecce che, in riforma della sentenza del 14/12/2017 del Tribunale di Lecce, da loro impugnata, ha ridotto il risarcimento del danno in favore della parte civile “Italia Nostra” Onlus nella misura di 2.000,00 euro, confermando nel resto la loro condanna per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, commesso in Castrignano del Capo fino al 03/02/2014.

Petracca, Brigante.
            2. Andrea Petracca e Raffaela Brigante articolano, con ricorso congiunto, quattro motivi.
                2.1. Con il primo motivo deducono, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta applicazione della fattispecie incriminatrice ed errata applicazione di quest’ultima.
Affermano che alcuna norma vieta l’accorpamento, ai fini edificatori, di fondi aventi la medesima destinazione urbanistica e stessi indici edificatori. Nessuna norma dello strumento urbanistico comunale disciplina l’istituto della cessione di cubatura, né preclude il ricorso all’accorpamento dei fondi, sicché non si può affermare che l’intervento realizzato è in contrasto con gli strumenti urbanistici. Quanto ai concetti di contiguità/prossimità/distanza, premessa la genericità delle indicazioni fornite dal testimone De Matteis («circa due chilometri»), osservano che la continuità territoriale non deve essere intesa come condizione fisica bensì come condizione giuridica, nel senso che tra i due lotti (cedente e cessionario) non devono esserci terreni con destinazioni urbanistiche incompatibili, come nel caso di specie. L’applicazione della norma penale, proseguono, non può dipendere da mutevoli e oscillanti interpretazioni della giurisprudenza (anche amministrativa) su concetti essenziali in violazione dei principi di tassatività e tipicità della fattispecie.
                2.2. Con il secondo motivo deducono, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e l’erronea applicazione della legge penale, sotto il profilo del malgoverno dell’art. 35 delle NTA del Piano di Fabbricazione del Comune di Castrignano del Capo, e della violazione del principio di necessaria offensività. Affermano, al riguardo, che la particella accorpata, benché tipizzata come E1 dal Piano di Fabbricazione, è per prassi amministrativa annoverata tra le zone tipizzate come H1 alle quali si applica il citato art. 35 che consente il trasferimento della relativa cubatura. La particella accorpante, pur fisicamente distante due chilometri, non lo è giuridicamente perché andrebbe scorporata la consistenza del foglio 4 al cui interno si trova la particella accorpata, altrimenti ragionando il trasferimento di cubatura, pur astrattamente consentito, non sarebbe concretamente possibile con conseguente illogicità della motivazione che presuppone l’esatto contrario. A tal fine sarebbe invece opportuno annullare con rinvio la sentenza impugnata al fine di consentire un’integrazione istruttoria per stabilire la distanza tra la particella accorpante e il confine del foglio 4.  
Quanto alla necessaria offensività del reato, osservano che la maggiore cubatura accorpata è stata destinata a deposito per attrezzi lasciando inalterata quella destinata a fini residenziali che, invece, è rimasta in linea con gli indici dell’area interessata.
                2.3. Con il terzo motivo deducono, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e l’erronea applicazione della legge penale sotto il profilo della affermata macroscopica illegittimità del permesso di costruire. La ritenuta natura macroscopica della illegittimità del titolo edilizio contrasta, sul piano logico, con la assoluzione dal reato di falso ideologico con la formula «perché il fatto non sussiste» nonché con le vicissitudini interpretative che hanno caratterizzato la materia (riconosciute dalla stessa sentenza impugnata) e con le conseguenze della sopravvenuta inefficacia dell’art. 51, legge reg. Puglia n. 56 del 1980, di cui pure dà conto la Corte di appello. La sentenza impugnata omette di valutare i numerosi provvedimenti del TAR che affermano principi divergenti rispetto a quello della Corte territoriale ma anche la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione che ha più volte riconosciuto la gravità del problema esegetico. La domanda di permesso di costruire è stata presentata nel 2009, prima che la Corte di cassazione si pronunciasse (con sentenza n. 8635 del 2014) sulle modalità applicative dell’istituto dell’asservimento di volumetria. Di conseguenza, concludono, il permesso di costruire potrebbe essere ritenuto illegittimo ma non manifestamente illegittimo, con conseguente applicazione al caso di specie, dell’art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001.
                2.4. Con il quarto motivo, che riprende gli argomenti del terzo in ordine alla ritenuta macroscopica illegittimità del permesso di costruire, deducono, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e l’erronea applicazione della legge penale sotto il profilo della ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Osservano che la “sicura consapevolezza” in ordine alla illegittimità del proprio operato contrasta con i seguenti dati di fatto e di diritto: a) l’immobile realizzato era una abitazione rurale con annesso vano deposito, non incompatibile con la destinazione di zona, e non una civile abitazione (come erroneamente affermato dalla Corte di appello); b) nessuna norma impone la qualifica di imprenditore agricolo per edificare in zona agricola; c) l’immobile, di modeste dimensioni, avrebbe dovuto essere utilizzato in funzione strumentale all’agricoltura, essendo i fondi coltivati ad oliveto; d) l’intervento era stato comunque autorizzato dalla pubblica amministrazione; e) non è stata accertata, né contestata alcuna dolosa connivenza tra i privati e i pubblici ufficiali; f) i dati di fatto esposti nella domanda erano corrispondenti a vero; g) la materia è oggetto di contrasti giurisprudenziali riconosciuti dalla stessa Corte di cassazione.

Calabrese.
            3. Il Calabrese articola quattro motivi.
                3.1. Con il primo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 603, comma 1, cod. proc. pen. Stigmatizza la decisione della Corte di appello di non rinnovare l’audizione del testimone De Matteis che aveva riferito in primo grado sulla distanza tra i fondi, senza precisare in che modo tale distanza fosse stata calcolata, se cioè tra le particelle catastali o tra i fogli di mappa (nel caso di specie adiacenti).
                3.2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione del DPCM 8 luglio 2003 e del DM Ministero agricoltura del 29 maggio 2008. Gli argomenti sono simili a quelli proposti dal Petracca e dalla Brigante con il secondo motivo del loro ricorso.
                3.3. Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606, lett. c), cod. proc. pen., la nullità del decreto che dispone il giudizio per violazione dell’art. 429, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. Osserva che non è stato posto nella condizione di comprendere il tenore dell’accusa di falso ideologico cui al capo D dell’imputazione, reato dal quale è stato assolto ma che costituisce il presupposto logico delle altre contestazioni ascrittegli nella rubrica nella quale manca ogni riferimento alle norme di legge o di regolamento che sarebbero state violate. Vertendosi in materia penale, il vuoto normativo non può essere valorizzato per affermare l’illegittimità del permesso di costruire e la rilevanza penale della condotta. L’assoluzione dal reato di falso ideologico si pone in contraddizione logica con la condanna per l’abuso edilizio.
                3.4. Con il quarto motivo deduce la prescrizione del residuo reato di cui al capo A alla data del 20/09/2019, nelle more del deposito della motivazione della sentenza.  

Ricciardi.  
            4. Il Ricciardi propone tre motivi.
                4.1. Con il primo deduce, ai sensi dell’art. 606, lett. a), b) ed e), cod. proc. pen., l’esercizio di potestà riservate alla pubblica amministrazione, l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 25, comma secondo, Cost., 1, cod. pen., 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, 5, d.l. n. 70 del 2011, 51, lett. g), legge reg. Puglia, n. 56 del 1980, nonché la violazione dei principi di legalità, riserva di legge, prevedibilità e determinatezza della norma incriminatrice, il vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica relativamente alla ritenuta incompatibilità urbanistica dell’intervento edilizio oggetto di contestazione.
La violazione del cd. principio della contiguità dei fondi sembra costituire, per la Corte di appello, l’unico profilo di illegittimità del permesso di costruire e dunque l’unica ragione del reato per il quale si procede; tale principio, però, non ha fonte normativa, statale o regionale, e non risulta dalla pianificazione urbanistica del Comune di Castrignano. La stessa Corte territoriale: a) non sostiene né indica mai l’esistenza, nel corpo delle NTA del PdF di Castrignano, di specifiche e puntuali norme tecniche che prescrivano la contiguità dei fondi o vietino l’accorpamento di terreni distanti; b) dà atto della omogeneità urbanistica dei fondi accorpati; c) dà atto della cessata vigenza dell’art. 51, lett. g), legge reg. Puglia, n. 56 del 1980; d) dà atto della matrice giurisprudenziale del divieto di accorpamento di fondi non contigui. Orbene, prosegue il ricorrente, contrasta con il principio di legalità sancito dagli artt. 25, Cost., e 1, cod. pen., annettere alla violazione di un principio di matrice esclusivamente giurisprudenziale la consumazione del reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 (questione, peraltro, specificamene posta in appello e lasciata completamene irrisolta). E’ piuttosto vero che il legislatore nazionale ha riconosciuto la prassi della “cessione di cubatura” con una norma, l’art. 5, d.l. n. 70 del 2011, la cui effettiva portata è stata ben chiarita dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., Sez. VI, n. 4861 del 21/11/2016) secondo cui tale prassi deve ritenersi generalmente ammessa salvo che la normativa settoriale urbanistica la vieti in modo espresso per particolari ragioni; in ogni caso è certo che la norma in questione non pone affatto il requisito della contiguità dei fondi, né tale principio si ritrova in altre norme di fonte statale o regionale: tale requisito è solo di matrice pretoria. L’art. 5, d.l. n. 70 del 2011, supera il legame fisico tra “lotto generatore” e “volumetria realizzanda” senza introdurre condizioni di sorta che non siano costituiti dalla omogeneità della zona di intervento edilizio. La radicale assenza di norme che pongono un esplicito divieto di accorpamento di fondi non contigui impedisce al giudice penale di ricavare aliunde tale divieto mediante un’inammissibile valutazione “per scopi” od “obiettivi” della disciplina urbanistica e delle previsioni di piano. Il giudice penale semplicemente non può prendere a riferimento uno statuto urbanistico ed edilizio dell’opera che sia costituito addirittura da principi e/o obiettivi di politica urbanistica che il giudice medesimo ritenga, più o meno plausibilmente, di poter ricavare implicitamente o in via sistematica dallo strumento urbanistico comunale. Sarebbe come ammettere una  “giustizia penale di scopo” (Corte cost. n. 24/2017) che consenta di integrare il precetto con divieti non espressamente previsti da una norma urbanistica comunale dotata di sufficiente grado di determinatezza e specificità, con evidente vulnus del principio di legalità. L’ossequio ai principi di legalità, prevedibilità e determinatezza della norma incriminatrice, impone che la prescrizione o il divieto che si assumono violati siano posti in essere in modo chiaro e preciso da una norma tecnica di attuazione del piano urbanistico, norma che nel caso di specie manca. Il principio al quale si è ispirata la Corte di appello è oltremodo lesivo delle prerogative della pubblica amministrazione nella misura in cui si è arrogata il potere di giudicare pregiudizievole per l’assetto urbanistico comunale l’incidenza dell’accorpamento di fondi distanti sulla densità territoriale delle diverse zone omogenee, senza peraltro tener conto del mutato quadro legislativo. Non giova alla correttezza della decisione impugnata il richiamo operato dalla sentenza alla giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto illegittimo l’accorpamento di fondi non contigui posto in essere in comuni diversi da quello di Castrignano del Capo: in questi casi oggetto di accorpamento erano fondi aventi diversa destinazione di zona e diverso indice edificatorio. L’eterogeneità dei termini di paragone non consente accostamenti di sorta a sostegno di una decisione che anche per questo è errata.
Né il divieto di accorpamento può essere desunto dall’esistenza di indici di fabbricabilità ché altrimenti, così ragionando, l’art. 5, d.l. n. 70 del 2011, non potrebbe mai trovare applicazione.
 Infine, la circostanza che i committenti avessero chiesto l’autorizzazione alla realizzazione di un’abitazione rurale con annessi accessori e vano deposito piuttosto che una “casa padronale” non costituisce argomento decisivo per dimostrare l’esistenza di un divieto non codificato di accorpamento di fondi non contigui. La confutazione della deduzione difensiva per la quale oggetto di richiesta era una abitazione residenziale è, pertanto, del tutto neutra. V’è piuttosto da rilevare che dall’art. 27 delle NTA si ricava la regola che è possibile realizzare edifici residenziali in zona agricola senza la necessità di possedere il requisito soggettivo di imprenditore agricolo. La questione, dunque, non è tanto la tipologia di intervento autorizzato ma il fatto che per la sua realizzazione non è richiesto il requisito soggettivo dell’essere imprenditore agricolo (come desumibile dal venir meno del presupposto applicativo dell’art. 9, legge reg. Puglia, n. 6 del 1979 e dalla stessa lettera dell’art. 27, u.c., NTA del PdF), questione non validamente affrontata e contrastata dalla sentenza impugnata.
                4.2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 309 del 1990, e vizio di motivazione mancante, contraddittoria e manifestamente illogica in ordine all’elemento soggettivo del reato.
La comprovata e notoria prassi amministrativa, riconosciuta e diffusamente applicata in ambito provinciale, di consentire l’accorpamento di fondi non contigui esclude il dolo ma anche la colpa. Il dubbio sulla liceità di tale prassi, che secondo la Corte di appello avrebbe imposto atteggiamenti più prudenti, fino all’astensione dall’attività richiesta, non derivava da una personale opinione del ricorrente, né da un suo deficit informativo, ma era alimentato dall’oggettiva indeterminatezza del quadro normativo (sopratutto a seguito della cessata efficacia dell’art. 51, lett. g, legge reg. Puglia n. 56, cit. e dal vuoto normativo che ne è derivato) e dal favorevole orientamento della giurisprudenza amministrativa.  
                4.3. Con il terzo motivo, richiamando anche le ragioni dell’assenza di un atteggiamento colpevole, deduce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., il vizio di mancanza di motivazione in ordine alla negata applicazione delle circostanze attenuanti generiche, non essendo sufficiente il generico riferimento alla “gravità dei fatti accertati”.


CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. I ricorsi sono inammissibili.

    2. I ricorrenti rispondono del (residuo) reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, per aver, nelle rispettive qualità di committenti dei lavori, il Petracca e la Brigante, di tecnico progettista e direttore dei lavori il Calabrese, di responsabile del procedimento a autore del rilascio del permesso di costruire il Ricciardi, consentito e realizzato, a seguito dell'illecito rilascio del permesso di costruire n. 78/2010, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004, perché di notevole interesse pubblico, nonché sottoposta a tutela nel PUTT P. Regione Puglia (in quanto ricadente in Ambito Esteso D), le opere edili di seguito indicate con permesso di costruire illecito in quanto rilasciato in difetto dei presupposti richiesti dalla disciplina urbanistica e dall'art. 51, lett. g), legge reg. Puglia n. 56 del 1980 ed in contrasto con la strumentazione urbanistica vigente, nonché in violazione dei parametri urbanistici per le zone agricole; effettuando un uso strumentale e non consentito dell'asservimento urbanistico e/o dell'accorpamento di aree, attraverso il quale si richiedeva ed otteneva illecitamente una volumetria assolutamente non ammissibile sul lotto. In particolare, in zona qualificata E/I (verde agricolo produttivo), con indice di fabbricabilità di 0,03 mc/mq, che avrebbe potuto esprimere una volumetria di circa 160,71 m3, veniva realizzata una costruzione con una volumetria di 198,59 m3, utilizzando illecitamente volumetrie di fondi E/I distanti; utilizzando illecitamente l'accorpamento non consentito in mancanza dei requisiti soggettivi e oggettivi, difettando nei proprietari richiedenti sia la qualifica di imprenditore agricolo aziendale sia la titolarità di azienda agricola ed altresì difettando nei proprietari richiedenti sia la qualifica di imprenditore agricolo, sia la titolarità di azienda agricola ed altresì difettando il piano di miglioramento aziendale o fondiario previsto dall’art. 27, delle NTA del PdF del Comune di Castrignano del Capo; realizzando altresì in concreto opere con destinazione diversa da quella agricola dichiarata (“demolizione di un vano deposito e nuova costruzione di un'abitazione rurale con annesso vano deposito”) evidenziata dalla tipologia costruttiva e dalle caratteristiche strutturali (non conformi alle previsioni per l'edilizia economica popolare richiamate) ed in difformità dall'autorizzalo in quanto, in sede di sopralluogo, veniva accertato l'inadempiuta demolizione del vano deposito preesistente, prevista nella proposta progettuale, al fine dello scomputo della volumetria impegnata dallo stesso sul lotto ove trovasi la nuova costruzione, nonché modifiche dell'aspetto esteriore dell'edificio con l'apertura di nuove porte e la trasformazione di porte in finestre; il tutto con titoli illeciti, anche perché contenenti le false attestazioni di regolarità e compatibilità urbanistica ed ambientale, laddove si autorizzavano le opere in contrasto con i presupposti per l’edificazione in zona agricola e con una densità abitativa non consentita e pregiudizievole per il paesaggio. Il fatto è contestato come commesso fino al 3 febbraio 2014.
        2.1. La struttura dell’editto accusatorio è chiara nel suo oggetto e nelle sue linee essenziali: l’oggetto materiale della condotta è costituito dall’immobile realizzato con volumetria pari a 198,59 metri cubi, superiore a quella che il lotto avrebbe potuto esprimere in base all’indice di fabbricabilità di 0,3 mc/mq (160,71); il maggior volume è stato possibile (ed autorizzato) mediante l’accorpamento di altro fondo non contiguo di proprietà degli stessi committenti, dotato degli stessi indici di fabbricabilità e situato anch’esso in zona agricola. Ciò che si contesta è appunto la possibilità dell’accorpamento, non assentibile, secondo l’editto accusatorio, per la mancanza dei requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dalla legislazione regionale e dagli strumenti urbanistici; in particolare, quanto ai requisiti soggettivi, perché i proprietari non erano imprenditori agricoli, né titolari di azienda agricola, quanto ai profili oggettivi perché si trattava di fondi comunque non contigui e per l’assenza di un piano di miglioramento aziendale o fondiario.    
    3. Tanto premesso, le questioni poste dai ricorrenti sono già state ampiamente analizzate da questa Corte di cassazione con le sentenze Sez. 3, n. 15767 del 14/02/2020, Rv. 279658 - 01 e Sez. 3, n. 17178 del 05/03/2020, n.m., pronunciate per fatti analoghi, relativi allo stesso comune di Castrignano del Capo e nei confronti dello stesso Ricciardi.
    4. In particolare, con la sentenza Sez. 3, n. 1576 del 2020, è stato affermato il principio di diritto secondo il quale, in tema di reati urbanistici e paesaggistici, ai fini del giudizio sull'illegittimità della cessione di cubatura fondato sulla sola ritenuta non prossimità dei terreni interessati, seppur aventi la medesima destinazione urbanistica ed il medesimo indice di cubatura, quanto più sia ridotta la distanza fra gli stessi, tanto più, nella motivazione, deve essere penetrante la valutazione sulla concreta strumentalità - e conseguente illegittimità - dell'operazione rispetto all'attuazione dei criteri contenuti negli strumenti urbanistici.
        4.1. Il caso scrutinato dalla sentenza è emblematico posto che anche in quella circostanza la volumetria edificata - non consentita dall'indice di fabbricabilità del fondo agricolo direttamente interessato dalla costruzione - era stata ottenuta in base all’asservimento urbanistico di terreni distanti aventi il medesimo indice di fabbricabilità fondiaria. La sentenza ricorda, al riguardo, che la legittimità del negozio di cessione di cubatura «è stata ripetutamente avallata anche dalla giurisprudenza amministrativa (per tutte si richiama C. St., Sezione V, 28 giugno 2000, n. 3636), in forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto». E, tuttavia, ammonisce la Corte, «onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, il legittimo ricorso a tale meccanismo è tuttavia soggetto a determinate condizioni, una delle quali (…) è costituita dall'essere i terreni in questione, se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità, perché altrimenti, attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, contrastanti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio».
        4.2. La diversità degli indici di fabbricabilità dei fondi oggetto di cessione di cubatura costituisce certamente un elemento ostativo all’asservimento dei terreni a fini edificatori (Sez. 3, n. 35166 del 28/3/2017, Nespoli e aa., non massimata; Sez. 3, n. 30040 del 30/1/2018, Strambone, non massimata; Sez. 3, n. 30025 del 4/12/2017, dep. 2018, Scrudato, non massimata; Sez. 3, n. 2281 del 24/11/2017, dep. 2018, Siciliano e aa., Rv. 271770; Sez. 3, n. 56085 del 18/10/2017, Melcarne, non massimata; Sez. 3, n. 52605 del 4/10/2017, Renna, non massimata; Sez. 3, n. 26714 del 14/1/2015, Tedoldi, non massimata). Ma ciò non equivale a sostenere il contrario: che l’omogeneità di tali indici autorizzi senz’altro l’asservimento (Sez. 3, n. 39337 del 09/07/2018, Renna; Sez. 3, n. 46225 del 09/07/2018, Vertua e aa.; Sez. 3, n. 46226 del 09/07/2018, De Marini e a.; Sez. 3, n. 51833 del 03/10/2018, Sangalli e aa.). La “contiguità” dei fondi resta un requisito imprescindibile ai fini dell’accorpamento. La “contiguità” deve essere intesa - ricorda la sentenza - in senso fisico, come «effettiva e significativa vicinanza (così C. St., Sez. V, n. 6734, 30 ottobre 2003; C. St., Sez. V, n. 400, 1 aprile 1998; più recentemente, TAR Campania - Salerno, Sez. H n. 1675 del 19/7/2016)». Tali principi sono stati richiamati anche da questa Corte nelle numerose decisioni più sopra citate sicché può certamente affermarsi che si tratta di “diritto vivente”, niente affatto mutevole ed oscillante.
        4.3. Nè tali criteri possono dirsi venuti meno a seguito della emanazione del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, il cui art. 5, comma 1, lett. c), si è limitato a prevedere (senza peraltro disciplinarla) «la tipizzazione di un nuovo schema contrattuale diffuso nella prassi: la "cessione di cubatura”». Il contratto di “cessione di cubatura” ha natura privatistica, iscrivendosi a pieno titolo nell’area dell’autonomia negoziale, e non può disporre degli interessi pubblici sottesi al governo del territorio, né derogarvi in assenza di un’esplicita previsione in tal senso. Il n. 2-bis), dell’art. 2643 cod. civ., aggiunto dall’art. 5, comma 3, d.l. n. 70, cit., prevede che siano pubblicizzati, mediante trascrizione, i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale. Nell’interpretazione che fornisce Cons. St., Sez. 6, n. 4861 del 21/11/2016, citata anche dal Ricciardi, «il trasferimento di cubatura, riconosciuto dal legislatore statale come schema negoziale tipico (recependo l’istituto già affermatosi nella prassi dei mercatores immobiliari) – nell’esplicazione della potestà legislativa esclusiva attribuita allo Stato in materia di ordinamento civile –, deve ritenersi generalmente ammesso, salvo che la normativa settoriale urbanistica (…) ovvero gli strumenti di pianificazione territoriale lo vietino per particolari ragioni o lo assoggettino a particolari condizioni, in tal senso dovendo essere inteso il rinvio del novellato art. 2643, n. 2-bis), cod. civ., alle «normative statali o regionali», ovvero agli «strumenti di pianificazione territoriale» (in altri termini, il trasferimento di diritti edificatori trova il proprio limite, oltre che in eventuali discipline speciali della legislazione urbanistica, nelle statuizioni degli strumenti urbanistici, i quali potrebbero vietare tali operazioni per alcune aree, oppure contenere previsioni inerenti alla determinazione della volumetria realizzabile fondata su criteri incompatibili con il suo trasferimento) (…) in difetto di espresso divieto, la densità edificatoria del singolo lotto può essere ridistribuita, con lo strumento del trasferimento di diritti edificatori (olim, cessione di cubatura), tra i vari lotti di una stessa zona omogenea, nel rispetto dell’indice territoriale dell’intera zona e del relativo complessivo carico urbanistico». Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, i fondi erano ubicati nella medesima zona omogenea ed erano confinanti, sicché, afferma la sentenza, dovevano «ritenersi tra di loro contigui per gli effetti urbanistici, essendo anche tali lotti ubicati nella medesima zona servita dalle medesime opere di urbanizzazione, e avendo gli stessi la medesima destinazione residenziale». Nella sentenza Cons. St. Sez. 6, n. 1398 dell’8 aprile 2016, richiamata dalla citata Sez. 6, n. 4861 del 2016, i fondi erano situati a 140 metri di distanza e serviti dalle medesime opere di urbanizzazione, realizzate per l’intera zona. Nella sentenza Cons. St., Sez. 5, n. 2220 del 19/04/2013, pure richiamata dalla Sez. 6, n. 4861, cit., i fondi invece erano fisicamente contigui ma situati in sottozone diverse (F2 ed F3) della medesima zona F (di qui l’inapplicabilità della cessione di cubatura).
        4.4. Dunque, alcuna legge, né alcuna sentenza della giustizia amministrativa hanno ritenuto non più necessario il requisito della contiguità tra lotti quale limite all’applicazione del negozio di cessione di cubatura. Nè, salvo quanto oltre si dirà, si può sostenere che  che il divieto debba essere espressamente previsto dalla normativa statale o regionale oppure dagli strumenti di pianificazione urbanistica, ben potendo ricavarsi ‘aliunde’ (come nel caso, per esempio, del divieto di accorpamento di fondi pur contigui ma situati in zone urbanistiche diverse o sottozone diverse della medesima zona urbanistica). La razionalità della previzione
        4.5. Come più recentemente ricordato da Cass. civ., Sez. U, n. 16080 del 09/06/2021 (pubblicata nelle more della stesura della presente sentenza), «è proprio il collegamento di entrambi i fondi interessati con la stessa zona di intervento e pianificazione che rende legittimo e meritevole di tutela l'istituto [della cessione della cubatura] (difatti sviluppatosi nella prassi proprio a seguito dell'introduzione delle tecniche di standardizzazione ex I. 765/67) facendo sì, per un verso, che l'alterazione privatistica della volumetria fruibile risulti sostanzialmente indifferente, visto il rispetto complessivo della densità edilizia programmata, per le scelte distributive e di governo del territorio; e che, per altro verso, sia evitato ogni fenomeno di migrazione delle cubature verso zone diverse del territorio cittadino, con conseguenti patologici effetti tanto di svuotamento quanto di affollamento del carico edilizio urbano».
        4.6. Va dunque respinta la tesi difensiva secondo la quale la “contiguità” deve essere intesa come condizione giuridica (primo motivo dei ricorsi Petracca, Brigante), dovendosi dunque escludere che la distanza di due chilometri tra i due fondi soddisfi tale requisito.
        4.7. Nel caso di specie viene in rilievo l’applicazione dell’art. 27 delle NTA del Piano di Fabbricazione del Comune di Castrignano che disciplina le zone agricole E1. Nel testo riportato nelle sentenze di merito, la norma così recita: «Sono ammesse costruzioni al servizio dell'agricoltura e cioè: fabbricati rurali, case coloniche, laboratori a carattere artigiano-agricolo, magazzini per la lavorazione di prodotti agricoli commisurati alle normali esigenze dell'azienda agricola su cui dovranno sorgere (…) Sono ammesse costruzioni di case padronali per residenza estiva unifamiliare per iniziativa del singolo proprietario su lotti di congrua estensione, con indice di fabbricabilità fondiaria non superiore a 0,03 mc/mq e con altezze non superiore a due piani».
        4.8. I ricorrenti ne hanno tratto spunto per affermare che: a) la norma non vieta l’accorpamento di fondi non contigui; b) nelle zone agricole è comunque consentito realizzare abitazioni residenziali da parte di persone che non sono imprenditrici agricole (requisito che il Ricciardi ritiene in ogni caso non necessario).
        4.9. I rilievi difensivi sono totalmente infondati e non colgono affatto nel segno.
        4.10. Va in primo luogo rilevato che, secondo quanto affermano i Giudici di merito (non contestati sul punto) i committenti ed il progettista avevano presentato domanda di permesso di costruire per la realizzazione di una abitazione rurale con annessi accessori e vano deposito, non di una casa padronale. La questione relativa al rapporto di servizio con l’attività agricola da disimpegnare sul fondo esisteva e certamente si poneva; ed è un fatto che i richiedenti il permesso non svolgevano alcuna attività agricola, ciò che certamente aveva (e doveva avere) un rilievo nell’ottica anche di chi era chiamato ad esprimersi sulla possibilità del rilascio del permesso. Ed infatti, non va dimenticato che le zone E) sono le parti del territorio destinate ad usi agricoli nelle quali la destinazione residenziale, fine a se stessa, costituisce pur sempre  un’eccezione, non la regola. Il punto, dunque, non era il possesso o meno della qualifica di imprenditore agricolo principale quanto, piuttosto, l’esistenza del rapporto strumentale fondo/abitazione rurale del tutto mancante nel caso di specie.
        4.11. Si obietta che le case padronali sono tuttavia ammesse in zona agricola. Osserva il Collegio che: a) le case padronali sono certamente ammesse ma solo per le “residenze estive”, non per la stabile residenza sul fondo agricolo (ciò che prova il carattere “eccezionale” delle residenze non hanno alcuna connessione con la conduzione del fondo); b) presupposto per l’edificazione è che il lotto sia di congrua estensione. Il requisito della “congrua estensione” richiede che il lotto (si noti il singolare) possieda “ex se” la caratteristica di (limitata) edificabilità non essendo consentito ottenere questo risultato mediante l’accorpamento di fondi non contigui la cui vocazione agricola verrebbe posta a servizio di finalità puramente (ed eccezionalmente) residenziali.
        4.12. Ne consegue che non è affatto vero che la condanna si fonda sulla violazione di un divieto di matrice “pretoria”.
        4.13. Nel caso di specie, peraltro, il precetto violato è quello sanzionato dall’art. 44, d.P.R. n. 380 del 2001, del quale il “permesso di costruire” costituisce elemento normativo della fattispecie la cui sussistenza deve essere valutata dal giudice alla luce delle condizioni e dei presupposti del suo rilascio così come indicati dagli artt. 11 e 12, d.P.R. n. 380, cit., tra i quali “la conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistica vigente” (art. 12, cit.). Del fatto che il divieto di accorpamento di fondi non contigui costituisca diritto vivente, espressione di un principio generale di ordine pubblico che disciplina il diritto urbanistico, s’è già detto.
        4.14. Possono ora essere esaminati i singoli ricorsi.

    5. I ricorsi di Petracca, Brigante.
        5.1. I due ricorrenti sono i committenti delle opere e titolari del permesso di costruire.
        5.2. Il primo, il secondo ed il terzo motivo sono, alla luce delle considerazioni appena esposte, manifestamente infondati.
        5.3. Il secondo è anche inammissibilmente fattuale e rivalutativo, essendosi i ricorrenti limitati a (ri)proporre, in questa sede, la medesima questione già devoluta in appello (circa la tipizzazione e la effettiva distanza tra i due lotti) mediante non consentite allegazioni fattuali volte a sollecitare un diverso esame delle prove delle quali non viene nemmeno dedotto il travisamento.  
        5.4. Il divieto di accorpamento, a fini edificatori, di fondi non contigui costituisce, come detto, principio mai messo in discussione dalla giurisprudenza di legittimità e da quella amministrativa, sicché la sua cogenza e validità non può essere messa in discussione da una prassi amministrativa chiaramente “contra legem”, finalizzata, come nel caso di specie, a consentire l’edificazione in violazione degli inderogabili indici di densità fondiaria stabiliti prima ancora del PRG, dall’art. 7, d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, per le zone E (mc. 0,03 per mq.) e che, al più, avrebbe potuto far sorgere qualche dubbio, ma nessuna certezza (ché, anzi, la scelta di asservire un fondo non contiguo esprime la consapevolezza della impossibilità di sviluppare sull’area di sedime una volumetria maggiore di quella consentita).  
        5.5. La macroscopica illegittimità del permesso di costruire non contrasta affatto, sul piano logico, con la affermata insussistenza del falso ideologico contestato al capo D della rubrica posto che la illegittimità del permesso di costruire deriva dal contrasto con le norme che disciplinano l’edificabilità dei suoli non da false rappresentazioni della realtà circa la (non) contiguità dei fondi accorpati.
        5.6. Le considerazioni esposte al § 5.3 militano a favore della manifesta infondatezza anche dell’ultimo motivo.

    6. Il ricorso di Calabrese
        6.1. Il primo motivo è generico. La Corte di appello ha spiegato che la distanza fra i fondi indicata dal testimone De Matteis non può essere considerata inattendibile e che le contrarie deduzioni proposte in sede di gravame erano del tutto generiche «non facendo riferimento ad alcuna differente “misurazione” alla stregua della quale indurre la Corte a porre in dubbio le dichiarazioni del teste, tanto più che soltanto una distanza estremamente contenuta potrebbe prospettare differenti conclusioni, circostanza nella fattispecie neppure allegata».
        6.2. In disparte le inammissibili deduzioni fattuali, il ricorrente non prende posizione sulla affermata genericità della questione posta in appello. Dalla lettura della sentenza di primo grado risulta che il De Matteis, all’epoca in servizio presso la Polizia Provinciale di Lecce, aveva riferito che tra i due lotti intercorreva una distanza di circa due chilometri. Nell’atto di appello non si afferma l’esistenza di alcuna evidenza probatoria, in tesi ignorata dal primo Giudice, che sconfessasse la testimonianza del De Matteis circa la non “contiguità” dei due lotti nel senso sopra già indicato, con evidente genericità (e natura esplorativa) della deduzione difensiva oltretutto contraddetta dalla ribadita rivendicazione della legittimità dell’accorpamento di fondi non contigui.
        6.3. Valgano, per il secondo motivo, gli argomenti già ampiamente illustrati in sede di premessa.
        6.4. La nullità del decreto che dispone il giudizio non è mai stata eccepita nei gradi di merito, con conseguente inammissibilità della sua deduzione per la prima volta in questa sede di legittimità. La nullità della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto di citazione a giudizio per indeterminatezza e genericità dell'imputazione ha natura relativa e, in quanto tale, è non rilevabile d'ufficio e deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine previsto dall'art. 491 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 19649 del 27/02/2019, Rv. 275749 - 01; Sez. 6, n. 50098 del 24/10/2013, Rv. 257910 - 01; Sez. 5, n. 20739 del 25/03/2010, Rv. 247590 - 01).
        6.5. L’inammissibilità del ricorso osta alla rilevazione della prescrizione maturata dopo la pubblicazione (mediante lettura del dispositivo) della sentenza impugnata (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266 - 01).

    7. Il ricorso di Ricciardi
        7.1. Ricciardi è il pubblico ufficiale che ha istruito il procedimento amministrativo concluso con il rilascio del permesso di costruire. Nei suoi confronti questa Corte si è già pronunciata con le due sentenze sopra indicate.
        7.2. Il primo motivo, alla luce delle considerazioni già ampiamente svolte, è totalmente infondato. Occorre solo aggiungere che non è vero che nel caso esaminato dalla sentenza Sez. 3, n. 15767 del 14/02/2020, Rv. 279658 - 01 i fondi non contigui avessero un diverso indice di densità fondiaria; anche in quel caso si trattava di fondi ricadenti entrambi in zona E1.
        7.3. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato. A tutto concedere, come già detto, il dubbio sulla liceità di una prassi amministrativa palesemente  “contra legem” non esclude il dolo e certamente non la colpa.
        7.4. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
        7.5. La applicazione delle circostanze attenuanti generiche non costituisce oggetto di un diritto con il cui mancato riconoscimento il giudice di merito si deve misurare poiché, non diversamente da quelle “tipizzate”, la loro attitudine ad attenuare la pena si deve fondare su fatti concreti, sicché il loro diniego può essere legittimamente giustificato con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica dell'art. 62 bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente non è più sufficiente lo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986; Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini, Rv. 260610; Sez. 1, n. 3529 del 22/09/2013, Stelitano, Rv. 195339). Peraltro, già prima della suddetta modifica normativa, la Corte di cassazione, in tema di attenuanti generiche, aveva affermato il principio di diritto secondo il quale, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381; nello stesso senso, più recentemente Sez. 3, n. 11539 del 08/01/2014, Mammola, Rv. 258696, che ha ribadito il principio secondo cui il giudice di merito non è tenuto a riconoscere le circostanze attenuanti generiche, né è obbligato a motivarne il diniego, qualora in sede di conclusioni non sia stata formulata specifica istanza). Ne consegue che l’obbligo di motivazione non sussiste tanto se la richiesta manca, quanto in caso di richiesta generica che non alleghi gli specifici indicatori di una possibile attenuazione della pena (sulla necessità della specificità della richiesta, oltre le pronunce già citate, anche Sez. 3, n. 23055 del 23/04/2013, Banic, Rv. 256172; Sez. 1, n. 5917 del 12/03/1990, Bagli, Rv. 184129; Sez. 2, n. 2344 del 13/07/1987, Trocarico, Rv. 177678). La presunzione di non meritevolezza, in ultima analisi, non impone al giudice di spiegare le ragioni della mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche in mancanza di richiesta dell’imputato o in caso di richiesta generica (Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, Rv. 275440; Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, Rv. 266460).
        7.6. Nel caso di specie le circostanze attenuanti generiche sono state correttamente negate in considerazione della assenza di elementi postivi valutabili in tal senso e della natura generica dell’appello sul punto.

        7. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 3.000,00 ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 31/03/2021