Cass. Sez. III n. 30823 del 21 giugno 2017 (Cc 17 mag 2017)
Presidente: Amoresano Estensore: Mengoni  Imputato: Cervelloni
Urbanistica.Permesso di costruire e sopravvenuta disciplina urbanistica incompatibile con l'intervento assentito

In tema di reati edilizi, la disposizione di cui all'art. 15, comma quarto, d.P.R. n. 380 del 2001 - secondo cui il permesso di costruire decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio - riguarda la sola ipotesi in cui una disciplina, adottata ed approvata "secundum legem", venga sostituita da altra della medesima natura, così da doversi contemperare le esigenze di razionale gestione del territorio (che possono condurre a scelte anche mutevoli nel tempo) e il legittimo affidamento dei consociati su un agire coerente da parte della P.A.; l'art. 15 non trova invece applicazione qualora il titolo abilitativo risulti "ex tunc" illegittimo, sotto qualsivoglia profilo, così da rendere non consentito sin dall'origine l'intervento urbanistico, senza alcun possibile effetto sanante "a posteriori".

 RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 3/11/2016, il Tribunale del riesame di Latina rigettava il ricorso proposto da Marco Cervelloni e, per l'effetto, confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.i.p. in sede il 7/10/2016 con riguardo alla contravvenzione di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, non ravvisando, per contro, il fumus commissi delicti quanto alla diversa contestazione ex artt. 71-95, stesso decreto; all'indagato era contestata la  realizzazione - in difetto del necessario permesso di costruire - di un immobile di circa 370 mq. composto da piano seminterrato, tre piani fuori terra ad uso residenziale, con locali tecnici posti sotto il solaio di copertura.

2. Propone diffuso ricorso per cassazione il Cervelloni, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi, di seguito sintetizzati:
- violazione e falsa applicazione degli artt. 159 e 160 c.p.p., art. 161 c.p.p., comma 4. Il Tribunale avrebbe fatto malgoverno dell'art. 161 c.p.p., comma 4, in contrasto con i pacifici indirizzi giurisprudenziali di questa Corte (ampiamente richiamati) ed assegnando validità ad una notifica - eseguita presso il difensore - priva dei presupposti di leggi; in particolare, non sarebbe stata dimostrata la definitiva impossibilità di compiere la notificazione stessa presso il domicilio del ricorrente (quel che costituirebbe presupposto per l'intervento della disposizione in oggetto), nè la Polizia locale avrebbe proceduto agli adempimenti di cui all'art. 159 c.p.p., comma 1, sollecitando poi l'emissione di un decreto di irreperibilità. Ne conseguirebbe la nullità assoluta dell'incombente medesimo, sotto il duplice profilo della violazione di tutte le disposizioni citate;

- violazione e falsa applicazione dell'art. 309 c.p.p., comma 10; questione di legittimità costituzionale. Premesso che l'ordinanza in oggetto sarebbe stata depositata 40 giorni dopo la pronuncia, il ricorrente invoca una lettura critica della sentenza di questa Corte a Sezioni unite n. 18954/2016, che - in tema di misure cautelari reali, e ribadendo la tesi del cd. rinvio recettizio, o statico - avrebbe assegnato valenza esclusivamente ordinatoria al termine di cui all'art. 309 c.p.p., comma 10 (richiamato dall'art. 324 c.p.p., comma 7) per il deposito sia del dispositivo che della motivazione del provvedimento; in tal modo, infatti, il Tribunale potrebbe ritardare ad libitum il deposito medesimo, con grave ed evidente vulnus per le esigenze difensive. Qualora, poi, il Collegio non condividesse questa impostazione, si chiede che la questione venga rimessa alla Corte costituzionale, che sarebbe così chiamata a pronunciarsi sulle norme indicate nelle parti in cui non fissano un termine perentorio per la pubblicazione dell'integrale ordinanza; nessuna ragione logica, letterale o sistematica, infatti, giustificherebbe un diverso regime sul punto tra misure cautelari personali e reali. Ne conseguirebbe - palese - la violazione degli artt. 3, 10, 24, 42, 97, 111 e 117 Cost., con inefficacia della misura in atto;

- violazione dell'art. 649 cod. proc. pen.. Premesso che il pubblico ministero avrebbe depositato l'istanza di (nuovo) sequestro preventivo il 6/10/2016, allorquando la precedente ed identica misura era ancora in corso, atteso che l'annullamento - disposto dal Tribunale del riesame il 4/10/2016 - produceva i propri effetti a muover dal 7/10/2016; ciò premesso, emergerebbe chiara la violazione dell'art. 649 cod. proc. pen., per divieto di secondo giudizio, non ostando alla stessa la modifica dell'imputazione compiuta nelle more dal pubblico ministero, con una addenda - la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 71-95 - riconosciuta del tutto infondata dallo stesso Tribunale del riesame;

- violazione e falsa applicazione dell'art. 25 Cost., comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, art. 15, comma 4, artt. 1, 5 e 47 cod. pen.; erronea affermazione dell'annullamento del permesso di costruire n. 17/EP del 2015. Il Tribunale avrebbe erroneamente negato efficacia - nel caso di specie - al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 15, comma 4, pur ricorrendo dello stesso tutti i presupposti; a muover dal fatto che il permesso di costruire in capo al ricorrente sarebbe valido ed efficace, non essendo stato interessato dalla Delib. commissariale n. 209 del 2016, che avrebbe annullato soltanto la Delib. n. 434 del 2014. Del pari, non potrebbe esser affermato - come invece in ordinanza - che un atto successivo possa porre nel nulla un atto precedente, come il permesso di costruire citato; il quale, dunque, manterrebbe piena efficacia, con palese rilevanza anche sotto il profilo soggettivo, ben identificabile - nel caso di specie - nel legittimo affidamento che il C. aveva posto nell'azione della pubblica amministrazione, non potendo immaginare che otto mesi dopo il rilascio del permesso di costruire sarebbe intervenuta la citata delibera del commissario straordinario. Quanto precede, peraltro, senza che, nella vicenda in questione, sia mai stato valutato l'errore ex art. 47 cod. pen., di certo invero ravvisabile. E con l'ulteriore precisazione che, in ogni caso, il pubblico ministero non avrebbe dovuto contestare l'art. 44 in esame, ma, al più, l'art. 323 cod. pen. a carico di soggetti diversi dal ricorrente; dal che, l'assenza del fumus commissi delicti, in termini oggettivi e soggettivi, in palese contrasto con l'art. 25 Cost., comma 2 ed art. 1 cod. pen.;

- violazione e falsa applicazione dell'art. 321 cod. proc. pen., con vizio motivazionale. Ribadito quanto precede in ordine al rapporto tra la delibera del commissario straordinario ed il permesso di costruire rilasciato al C., l'ordinanza avrebbe gravemente errato nel negare efficacia all'art. 15, comma 4, già citato; la giurisprudenza menzionata sul punto nel provvedimento, peraltro, risulterebbe del tutto inconferente, perchè relativa al diverso caso di cui all'art. 15, comma 2, stesso decreto, in tema di proroga del permesso di costruire;

- vizio motivazionale quanto alle contravvenzioni di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 95 e 71. L'ordinanza impugnata, pur riconoscendo l'assenza del fumus di tali condotte, avrebbe confermato il decreto del G.i.p. nella sua interezza, senza neppure accogliere il ricorso in parte qua; ne deriverebbe una motivazione illogica e contraddittoria;

- violazione e falsa applicazione dell'art. 321 cod. proc. pen.; le considerazioni che precedono comporterebbero anche l'assenza del periculum in mora, attesa la perdurante legittimità del permesso di costruire in possesso del ricorrente.

3. Con requisitoria scritta del 22/3/2017, il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto annullarsi senza rinvio l'ordinanza limitatamente alle contestazioni D.P.R. n. 380 del 2001, sub artt. 71-95con rigetto nel resto alla luce dell'infondatezza dei relativi motivi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Ritiene questa Corte che il ricorso sia infondato, ad eccezione della doglianza in ordine al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 71-95 alla luce delle considerazioni che seguono.

5. Con riguardo, innanzitutto, alla questione concernente l'art. 161 c.p.p., comma 4, relativo alla notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza innanzi al Tribunale del riesame, osserva il Collegio che la stessa è stata correttamente affrontata e decisa dal Giudice della cautela di merito, con argomento qui non censurabile e privo della dedotta violazione di legge.

Sul punto, occorre richiamare il costante e condiviso indirizzo di legittimità in forza del quale la disposizione di cui all'articolo in esame, che prevede la consegna degli atti al difensore nel caso in cui risulti l'impossibilità della notificazione all'imputato presso il domicilio dichiarato, richiede, quale condizione sufficiente, l'accertamento da parte dell'ufficiale giudiziario dell'avvenuto trasferimento di domicilio o di altra causa che renda definitivamente impossibili le notificazioni in quel luogo (tra le altre, Sez. 3, n. 10227 del 24/1/2013, Imbastari, Rv. 254422; Sez. 2, n. 45991 del 7/11/2007, Gencarelli, Rv. 238510; in termini analoghi, Sez. 3, n. 15454 del 12/1/2016, Bignotti, Rv. 267087, a mente della quale, ai fini della notificazione mediante consegna al difensore, di cui all'art. 161 c.p.p., comma 4, è sufficiente la redazione di un verbale di vane ricerche da parte della polizia giudiziaria che attesti l'impossibilità di procedere alla notifica degli atti all'imputato presso il domicilio dichiarato). In forza di tali principi, dunque, non è necessario procedere ad una verifica di vera e propria irreperibilità (come invece sollecitato dal ricorrente), così da qualificare come definitiva l'impossibilità di ricezione degli atti nel luogo eletto dall'imputato, considerato l'onere incombente su quest'ultimo, una volta avvisato della pendenza di un procedimento a suo carico, di comunicare ogni variazione dell'iniziale elezione di domicilio (tra le altre, Sez. 3, n. 12909 del 20/1/2016, Pinto, Rv. 268158; Sez. 3, n. 21626 del 15/4/2015, Cetta, Rv. 263502).

Orbene, tutto ciò premesso, osserva la Corte che il Tribunale del riesame ha fatto buon governo dei principi indicati, rappresentando - quel che il ricorso non contesta affatto - che la notifica ex art. 161 c.p.p., comma 4, era seguita a ben dieci tentativi compiuti senza esito, tra il 25/10/2016 ed il 28/10/2016, 1) presso il domicilio eletto; 2) presso la sede legale della società riferita al ricorrente medesimo; 3) per le vie brevi, ossia tramite un numero telefonico fornito alla Polizia municipale, proprio a tal fine, dalla madre del C.. Dal che, con ogni evidenza, la legittimità della procedura infine seguita, vertendosi proprio in un caso di impossibilità di compiere la notificazione presso il domicilio eletto, ai sensi della giurisprudenza appena richiamata; e senza che, peraltro, occorresse procedere all'emissione di un decreto di irreperibilità, invero non necessario proprio alla luce dell'elezione di domicilio in precedenza eseguita e della piena operatività delle condizioni che così consentivano l'intervento proprio dell'art. 161 c.p.p., comma 4.

6. Infondato, di seguito, risulta poi anche il secondo motivo di doglianza, concernente il rapporto tra l'art. 324 c.p.p., comma 7 e l'art. 309 c.p.p., comma 10, per come letto dalla recente sentenza di questa Corte, a Sezioni Unite, n. 18954 del 31/3/2016, Capasso, Rv. 266789, chiamata proprio da questa Sezione a dirimere un potenziale contrasto ermeneutico; pronuncia a mente della quale il rinvio operato dalla prima norma al comma 10 dell'altra deve intendersi come recettizio, ossia statico, ossia, ancora, come riferito alla formulazione codicistica originaria della norma, senza cioè tener conto delle interpolazioni in essa apportate, da ultimo, dalla L. 16 aprile 2015, n. 47. Orbene, rinviando integralmente al testo di questa pronuncia, che si distingue per la particolare esaustività degli argomenti e la ricchezza motivazionale, osserva il Collegio che la stessa ha ampiamente affrontato - e risolto - proprio il nodo sollevato dal ricorrente con il motivo in esame, relativo alla differente disciplina così delineata tra misura cautelari reali e personali. Al riguardo, infatti, il Supremo Collegio ha richiamato la "scelta risalente e collaudata dal legislatore, che è stata quella di lasciare la procedura del riesame reale non assoggettata, nella sua integralità, al rigidissimo regime proprio delle impugnazioni in materia di coercizione personale. Come è reso lampante, tra l'altro, dalla assoluta divergenza dei due istituti anche in punto di sospensione dei termini procedurali nel periodo feriale nonchè di ampiezza del sindacato di legittimità sui provvedimenti conclusivi. E ciò in ragione, evidentemente, della diversa graduabilità dei valori che risultano esposti all'esercizio del potere limitativo in via cautelare, come già riconosciuto dalla Corte costituzionale (v. Corte cost., sentt. n. 268 del 1986 e n. 48 del 1994; ma la presa d'atto della necessaria diversificazione dei due tipi di misure, personale e reale, è anche alla base della ordinanza n. 153 del 2007), nonchè dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26268 del 2013, Cavalli. Nella stessa prospettiva merita di essere ricordata anche la recentissima sentenza delle Sezioni Unite n. 51207 del 17/12/2015, Maresca, Rv. 265112-265113, la quale è giunta alla conclusione di giustificare la diversità di rito camerale da riservare ai due diversi tipi di impugnazione (partecipato ai sensi dell'art. 127 cod. proc. pen. per la trattazione dei ricorsi per cassazione in tema di misure cautelari personali e non partecipato ai sensi dell'art. 611 cod. proc. pen. per la trattazione dei ricorsi in tema di misure reali), proprio per la ribadita differenza - derivante da una razionale scelta del legislatore - tra il regime cautelare personale e quello reale. Che anche il legislatore del 2015 abbia inteso porsi lungo tale direttrice, è evenienza parimenti desumibile dal testo della L. n. 47 cit., art. 13 che può definirsi inequivocabile norma "spia" della volontà di insistere sulla differenziazione dei due tipi di riesame. Con essa è stato forgiato un inedito comma 5-bis, aggiunto nell'art. 311 cod. proc. pen., contenente disposizioni gemelle a quelle del comma 10 sui termini per la decisione e per il deposito della ordinanza nonchè sulle sanzioni connesse al loro mancato rispetto, per la fase del giudizio di rinvio, a seguito di annullamento della Cassazione, in talune delle ipotesi di incidente cautelare personale attivato dall'indagato. Ebbene, tale ulteriore "stretta" anche sui tempi del giudice di rinvio che deve rendere la propria decisione in tema di misura coercitiva, non ha riguardato la procedura di riesame delle misure reali, posto che l'art. 311, comma 5-bis, non essendo richiamato, a differenza dei propri commi 3 e 4, dall'art. 325 cod. proc. pen. - cioè dalla norma che disciplina il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse nelle procedure della impugnazione, nell'incidente cautelare reale - non opera in relazione a queste".

Sì da concludere, con argomento che il Collegio condivide integralmente, che "non vi è motivo, pertanto, letterale o sistematico, per non riconoscere che la divaricazione nella regolamentazione dei due tipi di riesame è perdurante e confermata e che si apprezza una intrinseca coerenza nella complessiva disciplina del riesame in materia reale il quale, a differenza dell'omologo istituto in materia di misure coercitive personali, sebbene in assonanza con l'istituto dell'appello ex art. 310 cod. proc. pen. che è anche la impugnazione ordinaria contro la ordinanza genetica che applica misure personali interdittive (richiamato a sua volta dall'art. 322-bis cod. proc. pen.), non (era e non) è scandito da termini perentori e sanzionati per la trasmissione degli atti da parte del giudice procedente, nè lo è (divenuto) per il deposito della ordinanza e tantomeno per la decisione in sede di rinvio. E neppure soffre il divieto, per quanto condizionato, di rinnovazione della misura divenuta inefficace per tali inadempimenti. Esso è invece regolato con la previsione di un termine perentorio soltanto per il deposito del dispositivo di decisione, termine che, al pari di quello solo ordinatorio per il deposito della ordinanza (rimasto fissato, per le decisioni del riesame reale, dall'art. 128 cod. proc. pen. come era già stato riconosciuto, peraltro in via generale, da giurisprudenza costante a partire da Sez. U, n. 7 del 17/04/1996, Moni, Rv. 205256), è divenuto oggi procrastinabile, in base al nuovo disposto dell'art. 309, comma 9-bis nella stessa misura nella quale venga accolta la richiesta personale dell'imputato, di differimento della data di udienza per giustificati motivi".

Dal che, la ragionevolezza di un sistema cautelare improntato a differente disciplina, sotto taluni profili, a seconda che la misura interessata involga la libertà personale o sia limitata, diversamente, al solo vincolo sulla res.

7. Alla luce delle considerazioni che precedono, inoltre, deve poi affermarsi anche la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale che il ricorrente sollecita, peraltro ex se inammissibile perchè generica quanto ai parametri di riferimento (artt. 3, 10, 24, 42, 97, 111 e 117 Cost.), oggetto di mera elencazione priva di riferimento contenutistico. Questione, ancora, che il C. propone muovendo dal presupposto - più volte ribadito - secondo il quale la disciplina in vigore consentirebbe al Tribunale del riesame, ai sensi dell'art. 324 cod. proc. pen., "di ritardare ad libitum il deposito tanto del dispositivo dell'ordinanza, quanto dell'integrale provvedimento"; orbene, tale assunto risulta errato, atteso che - per costante indirizzo, già sopra richiamato il principio secondo il quale il provvedimento che dispone la misura cautelare reale perde immediatamente efficacia se la decisione sulla richiesta di riesame non interviene entro il prescritto termine di dieci giorni dalla trasmissione degli atti al tribunale deve essere inteso nel senso che è necessario e sufficiente, affinchè non si produca l'effetto caducatorio, che, entro il termine predetto, il tribunale abbia deliberato in merito alla richiesta ed abbia depositato il dispositivo, mentre è irrilevante la data di deposito della motivazione (tra le altre, Sez. 3, n. 14603 del 24/3/2015, Ricci, Rv. 263334; Sez. 2, n. 23211 del 9/4/2014, Morinelli, Rv. 259652; Sez. 5, n. 48557 del 6/10/2011, Vecchiarelli, Rv. 251699).

Il dispositivo del provvedimento, pertanto, deve esser depositato nel termine perentorio di 10 giorni dalla trasmissione degli atti; quel che risulta avvenuto nel caso di specie, riferendosi pacificamente il deposito 40 giorni più tardi alla sola motivazione.

8. Infondato, ancora, risulta poi il terzo motivo di gravame, con il quale si deduce la violazione dell'art. 649 cod. proc. pen.: osserva la Corte, infatti, che anche tale questione è stata adeguatamente verificata dal Tribunale di Latina, con motivazione che non si presta ad alcuna censura. Ed invero, pur ribadito che la seconda misura era stata richiesta dal pubblico ministero il 6/10/2016, allorquando la precedente - sul medesimo bene - era ancora in vigore, giusta l'ordinanza 4/10/2016 del Tribunale del riesame che l'aveva annullata solo a far data dal 7/10/2016; pur ribadito ciò, il provvedimento in oggetto ha richiamato il pacifico indirizzo a mente del quale il divieto di cui all'art. 649 cod. proc. pen. richiede che il nuovo giudizio concerna il merito della (stessa) questione già precedentemente decisa, non potendo invece operare qualora il primo Giudice si sia limitato - come nel caso di specie - ad un provvedimento meramente formale, fondato sulla pacifica violazione di una norma processuale, dal che l'annullamento della precedente ordinanza senza alcuno spazio valutativo, ma come esito necessitato della riscontrata violazione di legge (concernente, nel caso, il difetto di notifica ed il termine di tre giorni liberi tra una nuova notifica e la data dell'udienza camerale). D'altronde, questa Corte ha già avuto occasione di affermare che è legittima l'emissione di un provvedimento di sequestro, preventivo o probatorio, dopo che un primo analogo provvedimento sia stato revocato, vertendosi in ipotesi di provvedimenti reiterabili ed autonomi l'uno dall'altro, purchè la revoca intervenuta in sede di riesame o di appello sia basata su profili formali e/o processuali e non sulla insussistenza del "fumus delicti" (tra le altre, Sez. 3, n. 29975 dell'8/5/2014, Betti, Rv. 259944; Sez. 3, n. 43806 del 5/11/2008, Spirito, Rv. 241415).

9. Da rigettare, di seguito, risulta poi pure la quarta doglianza, in punto di fumus commissi delitti; al riguardo, peraltro, occorre preliminarmente ribadire il principio in forza del quale, in sede di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l'art. 325 cod. proc. pen. ammette il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge. Nella nozione di "violazione di legge" rientrano, in particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, ma non l'illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all'art. 606 c.p.p., lett. e) (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).

Orbene, osserva la Corte che il Tribunale del riesame ha steso sul tema una motivazione congrua, fondata su concreti elementi investigativi e priva della dedotta violazione di legge.

10. In primo luogo, ha riconosciuto il fumus della contravvenzione D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 44, comma 1, lett. b), in forza della documentazione fotografica, del verbale di sequestro e dell'annotazione di polizia giudiziaria in atti, "da cui emerge con chiarezza come, a seguito del controllo effettuato in via Ombrone, gli agenti operanti verificavano che era in corso di realizzazione un manufatto della superficie di mq 370 composto come meglio descritto"; opera priva del prescritto titolo abilitativo, in quanto travolto - quello invero rilasciato (permesso di costruire n. 17/EP del 2015, oltre a variante in s.c.i.a.) - dalla Delib. n. 209 del 2016 del Commissario prefettizio che aveva annullato la Delib. G.M. n. 434 del 2014 e tutti gli atti conseguenti (compreso il permesso di costruire in esame). Ne consegue che la doglianza - con la quale, peraltro, si tende ad una non consentita verifica nel merito del provvedimento impugnato, con particolare attenzione al compendio motivazionale - non merita accoglimento, poichè si limita a sostenere - e ribadire più volte, anche nel quinto motivo - che l'opera risulterebbe, in realtà, assentita, non essendo stato il permesso di costruire investito dalla delibera di annullamento del Commissario; conclusione che, però, l'ordinanza ha congruamente escluso in forza proprio del tenore di quest'ultimo provvedimento (peraltro allegato dal ricorrente), che alla luce delle "gravi irregolarità procedimentali riscontrate", in uno con "le acclarate violazioni della normativa urbanistica di riferimento", ampiamente descritte - ha annullato la Delib. giunta municipale 7 agosto 2014, n. 434 in uno con "tutti gli atti ad essa riconducibili, preordinati, susseguenti e conseguenti e comunque ad essa correlati", tra i quali - quel che il Tribunale afferma ed il ricorso non contesta - il permesso di costruire già rilasciato al C..

Dal che, non solo una motivazione priva di alcuna censura, ma anche la corretta esclusione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 15, comma 4, più volte indicato nel ricorso. Come correttamente affermato dal Tribunale, infatti, tale norma (a mente della quale il permesso di costruire decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio) concerne la sola ipotesi in cui una disciplina adottata ed approvata secundum legem venga sostituita da altra della medesima natura, sì da doversi contemperare le esigenze di razionale gestione del territorio, con scelte anche mutevoli nel tempo, e legittimo affidamento dei consociati su un agire coerente da parte della pubblica amministrazione. Quel che, all'evidenza, non si ravvisa nel caso in cui il titolo abilitativo risulti ex tunc illegittimo, sotto qualsivoglia profilo, tale da rendere ex se ed ab origine non consentito l'intervento urbanistico, senza alcun possibile effetto sanante a posteriori; sì che - come da delibera del Commissario ed in contrasto con quanto affermato nel gravame - ben può accadere che un atto amministrativo successivo ponga nel nulla un atto precedente, magari esercitando quello ius poenitendi che - come si legge nella Delib. n. 209 - "nella fattispecie di che trattasi non tollera, e giammai potrebbe tollerare, limiti temporali".

11. Ancora, quanto al profilo soggettivo della condotta ascritta (nei termini dedotti del legittimo affidamento), osserva in primo luogo il Collegio che - per consolidato indirizzo di legittimità - lo stesso può trovare esame in sede cautelare soltanto laddove emerga ictu oculi, configurando, diversamente, accertamento proprio del giudizio di merito, non proponibile in questa sede. Ciò premesso, si rileva che il Tribunale del riesame ha esaminato la questione in oggetto, fornendo della stessa una risposta congrua - e non certo sanzionabile nei termini della mera apparenza - con la quale ha escluso tale evidenza: l'ordinanza, in particolare, ha sottolineato che il C. aveva ricevuto l'atto di revoca n. 209/2016, "ed ha continuato i lavori ben sapendo che il precedente permesso a costruire era stato annullato", sì da negare ogni affidamento incolpevole od errore ex art. 47 cod. pen. e, per contro, ben raffigurare quantomeno nella presente fase cautelare - anche il necessario elemento psicologico della contravvenzione.

Della quale, pertanto, l'ordinanza ha adeguatamente individuato caratteri oggettivo e soggettivo; e senza che, peraltro, possa discutersi in questa sede se il pubblico ministero avrebbe dovuto, in realtà, ipotizzare il delitto di cui all'art. 323 cod. pen., a carico di soggetti diversi, trattandosi - questa - di materia estranea al presente giudizio di legittimità.

12. Con riferimento, poi, al periculum, osserva ancora il Collegio che la motivazione del Tribunale risulta nuovamente priva di vizi; in particolare, l'ordinanza ha evidenziato che - essendo i lavori ancora in corso al momento del sequestro - la libera disponibilità dell'immobile potrebbe determinare un aggravamento delle conseguenze del reato, "permettendo all'autore dell'abuso edilizio di portare a termine le opere abusive con ulteriore pregiudizio per l'assetto del territorio, così come inciso dalle opere poste in essere in assenza di titolo abilitativo edilizio". Motivazione che, peraltro, il C. contesta nell'ultima doglianza - non con riguardo a tale profilo argomentativo, ma ribadendo l'argomento già più volte enunciato della legittimità del permesso di costruire n. 17/EP, così negando la portata demolitiva della Delib. commissariale n. 209 del 2016.

13. Da ultimo, rileva la Corte che tutto quanto precede - motivo n. 6 - vale per certo soltanto con riferimento alla violazione di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), atteso che quelle ex artt. 71 e 95, stesso decreto, sono risultate prive di fumus, giusta la chiara lettera dell'ordinanza impugnata (pag. 9); ne

consegue che il decreto del G.i.p. avrebbe meritato annullamento in parte qua, mantenendosi il vincolo cautelare esclusivamente sul profilo abusivo della costruzione contestata. Annullamento che, pertanto, deve esser disposto da questa Corte, con rigetto del ricorso nel resto.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata limitatamente alla conferma del provvedimento del GIP quanto ai reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 71 e 95. Rigetta il ricorso nel resto.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2017.