TAR Lazio (LT), Sez. I, n. 410, del 20 maggio 2015
Urbanistica.Demolizione e ricostruzione in area soggetta a vincolo ex d.lg. n.. 42 del 2004
L’ammissione che il fabbricato demolito e quello ricostruito non abbiano la medesima sagoma già implica che l’intervento non possa qualificarsi come ristrutturazione; il disposto legislativo infatti non lascia adito a dubbi; in area soggetta a vincolo ex d.lg. n.. 42 del 2004 la demolizione e ricostruzione, affinchè l’intervento sia qualificabile come ristrutturazione, presuppone che l’immobile demolito e quello ricostruito abbiano la “medesima sagoma”; se le sagome divergono, per quanto modesta possa essere la divergenza, l’intervento non è più qualificabile come ristrutturazione e quindi dovrà applicarsi la disciplina valevole per gli interventi di “nuova costruzione”. In questa prospettiva ha scarso rilievo che il volume dell’immobile ricostruito sia leggermente inferiore al volume di quello demolito, perché la legge richiede il rispetto di un doppio limite, dato sia dal volume che dalla sagoma che deve essere la medesima. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 00410/2015 REG.PROV.COLL.
N. 00479/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
sezione staccata di Latina (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso n. 479 del 2014, proposto da Rodolfo D’Ambrosio, Adalgisa Angrisani, Salvatore Ferraro, Maria Felicita Chiusaroli e Agostino Angrisani, rappresentati e difesi dall’avvocato Massimo Di Sotto, elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avvocato Mignano in Latina, via G.B. Vico n. 35;
contro
il comune di Cassino, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Alessandro Longo e elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato M. D’Aquino, in Latina, via Adua n. 34;
nei confronti di
Elle Service s.r.l., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’avvocato Alfredo Zaza d’Aulisio, da intendersi domiciliata agli effetti del presente giudizio presso la segreteria della sezione;
per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione
del permesso di costruire n. 3713 del 9 luglio 2013, del permesso di costruire in variante n. 3728 del 10 aprile 2014 e del permesso di costruire n. 3729 del 24 aprile 2014.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Cassino e di Elle Service Srl;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 aprile 2015 il dott. Davide Soricelli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso all’esame i soggetti indicati in epigrafe, nella qualità di titolari di immobili o di attività svolte nelle immediate prossimità, impugnano i permessi di costruire pure indicati in epigrafe che il comune di Cassino ha rilasciato alla Elle service s.r.l..
Con il primo permesso di costruire – cioè il permesso n. 3713 del 9 luglio 2013 - il comune ha assentito un progetto di “ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione ai sensi dell’articolo 3, comma 1 lett. d) D.P.R. 380/01 di un edificio esistente a uso commerciale alla via E. de Nicola angolo via Donizetti sul terreno distinto in catasto al foglio n. 89, mappali n. 261”.
Successivamente il comune rilasciava due ulteriori permessi di costruire; con il permesso n. 3728 del 10 aprile 2014 era assentita una “variante” al progetto già approvato consistente in “lievi modifiche all’intervento di ristrutturazione” (in particolare era prevista la riduzione a m. 4,25 dell’altezza del corpo chiuso e del portico al piano terra) e nella modifica della sagoma e della destinazione d’uso del portico al piano terra (a “portico a uso collettivo”); con il permesso di costruire n. 3729 del 24 aprile 2014, il comune autorizzava infine l’ampliamento del fabbricato (in sostanza era assentita una sopraelevazione di tre piani con copertura a tetto).
I ricorrenti – che sostengono di aver conosciuto l’esatta portata degli interventi autorizzati dal comune solo a seguito di accesso avvenuto “nella prima metà di maggio” (2014) – denunciano che i titoli edilizi rilasciati alla controinteressata sono illegittimi in quanto, in contrasto con il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e con la vigente strumentazione urbanistica comunale, permettono la realizzazione di un intervento di nuova costruzione avente a oggetto la realizzazione di un edificio di 5 piani.
Il comune di Cassino e la Elle service s.r.l. resistono al ricorso.
Con ordinanza n. 175 del 17 luglio 2014 la sezione ha respinto l’istanza di tutela cautelare. Con ordinanza n. 3754 del 27 agosto 2014 la quarta sezione del Consiglio di Stato ha accolto l’istanza di tutela cautelare ai fini della sollecita fissazione del ricorso, la cui trattazione è stata quindi programmata per l’udienza pubblica del 2 aprile 2015.
DIRITTO
Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di tardività del ricorso sollevata dalla controinteressata; questa evidenzia come nella prospettazione dei ricorrenti l’illegittimità dell’operazione edilizia in questione discenda dall’impossibilità del rilascio del primo permesso di costruire; poiché quindi il rilascio di tale permesso risale al luglio 2013 e i relativi lavori sono stati iniziati nel settembre 2013 con apposizione del cartello di cantiere che indicava il tipo di permesso rilasciato e poichè i lavori relativi ai primi due permessi erano ultimati alla data del 10 aprile 2014 il ricorso sarebbe tardivo in quanto proposto solo nel giugno del 2014.
L’eccezione è infondata. A parte il rilievo che oggetto di impugnazione sono tre permessi di costruire (l’ultimo dei quali rilasciato il 24 aprile 2014), per regola generale è “la presa di conoscenza dell'ultimazione dei lavori a identificare il dies a quo per impugnare il permesso di costruire e la prova della piena conoscenza deve essere fornita dal soggetto che eccepisce la tardività, atteso che la semplice circostanza dell'ubicazione dell'intervento in posizione limitrofa alla proprietà dei ricorrenti facilita solo la presa di conoscenza dell'inizio dei lavori ma non dimostra ex se né la conoscenza dell'esistenza della concessione o degli elementi essenziali della stessa, né tanto meno il momento in cui tale cognizione si sia verificata e dal quale (anche prima dell'ultimazione dei lavori) può decorrere il termine di impugnazione” (così Consiglio di Stato, sez. IV, 12 febbraio 2015, n. 745); nella fattispecie – anche con riferimento soltanto al primo dei permessi di costruire impugnati - non è stata fornita la prova che in un momento anteriore di oltre sessanta giorni alla notifica del ricorso (che è stato spedito in data 21 giugno 2014) i ricorrenti fossero a conoscenza dei caratteri del progetto assentito né il semplice inizio dei lavori implicava la conoscenza della illegittimità del medesimo; a questo riguardo va rilevato che l’inizio dei lavori può assumere rilevanza ai fini della decorrenza del termine essenzialmente nei casi in cui venga in rilievo un problema di inedificabilità (in tal caso, infatti, il semplice inizio dei lavori determina la piena consapevolezza di illegittimità e lesività del progetto); il caso in esame è invece diverso perché, come oltre si vedrà, i ricorrenti denunciano l’illegittimità del tipo di intervento concretamente autorizzato ma non l’astratta possibilità di eseguire il tipo di intervento (demolizione e ricostruzione del fabbricato preesistente) che era indicato nel cartello di cantiere.
Il ricorso va quindi esaminato nel merito.
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano che l’intervento edilizio assentito con il permesso di costruire del luglio 2013 non avrebbe potuto essere qualificato come ristrutturazione, costituendo invece un intervento di nuova costruzione; trattandosi di un intervento di nuova costruzione, esso avrebbe dovuto essere conforme ai parametri previsti dall’articolo 15/0 delle n.t.a. del P.R.G. comunale (e quindi essere posto a 5 metri dai confini e a 10 metri dalle pareti finestrate e rispettare il rapporto di copertura 0,15).
La tesi dei ricorrenti è che la ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione implicherebbe che l’edificio da ricostruire abbia i medesimi forma, volume e sagoma del preesistente fabbricato da demolire; nella fattispecie invece è stato autorizzato un fabbricato con caratteristiche sostanzialmente diverse sia sotto il profilo della forma che sotto i profili del volume e della sagoma.
Le argomentazioni dei ricorrenti sono fondate.
Va premesso che la nozione di “ristrutturazione edilizia” e in particolare quella di “ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione” è stata oggetto di varie modifiche alcune delle quali risalgono proprio all’epoca dei permessi di costruire impugnati.
Alla data del rilascio del primo di essi – cioè alla data del 9 luglio 2013 – era vigente la definizione recata dall’articolo 3, comma 1, lettera d), come modificata dall’articolo 30 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69. Il testo vigente alla data del 9 luglio 2013 riconduceva alla ristrutturazione gli interventi di demolizione e ricostruzione alla condizione che l’immobile da ricostruire avesse il medesimo volume di quello demolito (il testo previgente prevedeva il doppio limite del rispetto della sagoma e della volumetria); tuttavia per gli immobili soggetti a vincolo ex d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 era in pratica fatta salva la disciplina precedente, e quindi il doppio limite della sagoma e del volume, perché il nuovo testo stabiliva che “rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente” (questo limite è rimasto anche nel testo attualmente vigente).
L’immobile che viene in rilievo ricade incontestatamente in area soggetta a vincolo (si legga la relazione tecnica) tant’è che sul progetto è stata acquisita l’autorizzazione paesaggistica (che è infatti citata nel preambolo del permesso di costruire; d’altra parte una seconda autorizzazione paesaggistica datata 18 marzo 2014 è stata rilasciata per il progetto in variante e quest’ultima autorizzazione è citata anche nel preambolo del permesso di costruire del 24 aprile 2014). Di conseguenza, affinchè il progetto potesse qualificarsi nei termini di una ristrutturazione, sarebbe stato necessario che la prevista ricostruzione avvenisse nel rispetto della sagoma del preesistente fabbricato; la sagoma è stata invece modificata (per quanto di poco) e di conseguenza l’intervento non è qualificabile come ristrutturazione.
Sul punto non appaiono convincenti le argomentazioni del comune e della società controinteressata che evidenziano come il mutamento della sagoma risulti modesto e come il volume del fabbricato da ricostruire risulti persino inferiore (anche se di poco) a quello demolito.
Per quanto riguarda il primo profilo, l’ammissione che il fabbricato demolito e quello ricostruito non abbiano la medesima sagoma già implica che l’intervento non possa qualificarsi come ristrutturazione; il disposto legislativo infatti non lascia adito a dubbi; in area soggetta a vincolo ex d.lg. n.. 42 del 2004 la demolizione e ricostruzione, affinchè l’intervento sia qualificabile come ristrutturazione, presuppone che l’immobile demolito e quello ricostruito abbiano la “medesima sagoma”; se le sagome divergono, per quanto modesta possa essere la divergenza, l’intervento non è più qualificabile come ristrutturazione e quindi dovrà applicarsi la disciplina valevole per gli interventi di “nuova costruzione”.
In questa prospettiva ha scarso rilievo che il volume dell’immobile ricostruito sia (leggermente) inferiore al volume di quello demolito, perché la legge richiede il rispetto di un doppio limite, dato sia dal volume che dalla sagoma (che deve essere la “medesima”).
Parimenti non fondato è l’argomento basato sul disposto dell’articolo 17 della legge regionale 11 agosto 2008, n. 15 (cui fa riferimento la relazione tecnica al progetto e che è stato invocato nelle difese); che le divergenze tra immobile demolito e immobile ricostruito non superino il limite della variazione essenziale come definita in quell’articolo non è rilevante nella fattispecie, perché la definizione dell’articolo 17 attiene alla materia del trattamento sanzionatorio delle divergenze tra progetto assentito dall’amministrazione e quanto di fatto realizzato (come del resto lo stesso primo comma precisa con l’inciso “ai fini dell’applicazione degli articoli 15 e 16”); del resto – se anche si ritenesse di poter desumere argomenti per la decisione dall’articolo 17 citato - l’ultimo comma di esso stabilisce che “gli interventi di cui al comma 1 (tra cui rientra la “modifica della sagoma quando la sovrapposizione di quella autorizzata, rispetto a quella realizzata in variante, dia un'area oggetto di variazione, in debordamento od in rientranza, superiore al 10 per cento della sagoma stessa”), effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti in aree naturali protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal titolo abilitativo”.
Quanto alle argomentazioni basate sulla disciplina introdotta dall’articolo 1 d.lg. 27 dicembre 2001, n. 201 (cioè sulla norma che ha modificato la definizione di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione sostituendo all’espressione “demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente” quella di “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”) anch’esse, benché suggestive, non sono condivisibili; il ricorrente sostiene che il concetto di ricostruzione con stessa sagoma e stessa volumetria non possono interpretarsi come identica sagoma e identica volumetria ma come “standard massimi”, dato che altrimenti sarebbe vanificata la novella del 2002.
Al contrario va rilevato che la novella del 2002 ha fatto venir meno il vincolo della fedele ricostruzione dell’immobile demolito ma ha comunque mantenuto quello della identità di sagoma e di volume; il vincolo della identità di sagoma è poi venuto meno per effetto delle modifiche del 2013 ma è stato mantenuto per gli immobili da demolire e ricostruire in ambito soggetto a vincolo ex d.lg. n. 42. In definitiva medesima sagoma non può che significare che le sagome dell’immobile demolito e dell’immobile da ricostruire debbano essere uguali; se non lo sono l’intervento – allorchè si tratti di ambito vincolato - non è più una ristrutturazione ma una nuova costruzione con tutte le relative implicazioni.
Né può sostenersi che le modifiche siano state rese necessarie dall’adeguamento alla normativa antisismica, dato che non è stato dimostrato – e invero appare decisamente improbabile - che non fosse possibile ricostruire un immobile avente la medesima sagoma di quello demolito conforme alla normativa antisismica (ovvero perché la sagoma preesistente fosse incompatibile con la normativa antisismica).
In definitiva la controinteressata aveva due alternative; o presentare un progetto che prevedesse un nuovo fabbricato con sagoma e volume identici a quello da demolire ovvero presentare un progetto che superasse questo limite; in quest’ultimo caso però – trattandosi di nuova costruzione – si sarebbero dovuti rispettare i parametri urbanistici previsti per questa categoria di intervento; l’operazione autorizzata dal comune si è invece tradotta nella realizzazione di una nuova costruzione con la elusione dei limiti previsti dalle n.t.a. del P.R.G. per questa categoria di interventi (che, ove correttamente applicati, avrebbero implicato la realizzazione di un intervento ben più modesto data la necessità di rispettare le distanze dai confini e il prescritto rapporto di copertura).
Di conseguenza è fondato il primo motivo, cosicchè il permesso di costruire del 9 luglio 2013 è illegittimo ed è illegittimo per invalidità derivata anche il permesso in variante assentito il 10 aprile 2014.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano che il permesso di costruire del 24 aprile 2014 è stato rilasciato in violazione dell’articolo 15/3 delle n.t.a. del P.R.G., in quanto alla data dell’assentimento l’edificio assentito in base ai permessi di costruire del 9 luglio 2013 e del 10 aprile 2014 non poteva ancora ritenersi esistente e la disposizione dell’articolo 15/3 menziona la sopraelevazione di fabbricati “esistenti”. I ricorrenti evidenziano che l’istanza della controinteressata è stata presentata il 16 aprile 2014, cioè il giorno successivo alla comunicazione del rilascio della variante assentita il 10 aprile e nello stesso giorno in cui essa comunicava l’ultimazione delle strutture in cemento armato del primo piano.
Anche questa censura risulta fondata. La disposizione delle n.t.a. del P.R.G. invocata dai ricorrenti infatti consente la sopraelevazione di “edifici esistenti” a condizione che “la cubatura complessiva dell’edificio … sopraelevato risponda alla prescrizione del tipo edilizio previsto nella zona ….”.
Affinchè possa essere assentita una sopraelevazione è quindi necessario che il preesistente fabbricato sia quantomeno “chiuso” nel senso che esso sia completo nella struttura e interamente tamponato, dato che solo a queste condizioni è possibile verificare se la somma del volume esistente e di quello programmato risponda alla prescrizione del tipo edilizio previsto nella zona.
Nella fattispecie dalla documentazione depositata risulta che alla data di richiesta del permesso di costruire il piano terra era completo nella sola struttura in cemento armato; e infatti nella comunicazione inviata dalla Elle Service il 28 aprile 2014 è comunicato che il piano terra è ultimato nella struttura in cemento armato e la stessa relazione tecnica allegata al progetto, nel descrivere il fabbricato esistente, parla di un edificio “completo nelle strutture” senza nemmeno menzionare le tamponature esterne. Sul punto non può fare a meno di rilevarsi che in questa situazione il comune avrebbe dovuto quantomeno eseguire un sopralluogo per acclarare la situazione; al contrario esso ha rilasciato il permesso richiestogli a distanza di soli otto giorni dalla presentazione della istanza (e, poco comprensibilmente, anche se sul punto non risultano censure, sulla base dell’autorizzazione paesaggistica del 18 marzo 2014, cioè della medesima autorizzazione citata nel permesso di costruire in variante sicchè parrebbe che sul progetto di ampliamento mediante sopraelevazione non sia stata rilasciata l’autorizzazione paesaggistica).
I ricorrenti denunciano infine che il progetto di sopraelevazione viola sotto vari profili le vigenti norme urbanistico-edilizie del comune.
In particolare essi denunciano che illegittimamente non è stato computato nel volume complessivo del fabbricato il volume del porticato al piano terra; a questo riguardo i ricorrenti da un lato negano che il porticato possa essere qualificato come porticato a “uso collettivo”, come dichiarato in progetto (l’articolo 23, n. 11 del regolamento edilizio comunale esclude infatti dal computo del volume quello dei porticati destinati a uso collettivo) e dall’altro denunciano la violazione del punto 3.8 della circolare della regione Lazio n. 45 del 3 dicembre 1999 secondo cui “la superficie del portico non può essere superiore al 25% della superficie dell’unità immobiliare afferente” (in questo caso il porticato avrebbe una superficie pari a quasi la metà del locale commerciale posto al piano terra); a ciò si aggiunge che la medesima disposizione della circolare qualifica il portico come “lo spazio coperto dal fabbricato o con strutture indipendenti o semindipendenti” (nel caso in esame invece il portico è un tutt’uno con la struttura portante del fabbricato e al più potrebbe qualificarsi come piano pilotis da computare nel volume, date le caratteristiche previste).
I ricorrenti infine denunciano anche che il previsto sottotetto non costituisce un volume tecnico ma è in realtà un vero proprio quinto piano; di conseguenza il suo volume avrebbe dovuto essere interamente computato e risultano violate le disposizioni delle n.t.a. che prevedono un numero massimo di 4 piani e un’altezza massima di m. 14. Puntualizzano i ricorrenti che, se si computano questi ulteriori volumi (e anche se si computa il solo volume del porticato), risulta superata la volumetria massima realizzabile sul lotto della controinteressata.
Per quanto concerne la questione della necessità di computare nel volume del fabbricato il volume del portico, il Collegio non condivide le argomentazioni dei ricorrenti. Premesso che alla fattispecie non si applica la circolare n. 45 del 1999, che si riferisce alla formazione dei piani regolatori, ma la previsione del regolamento edilizio comunale che esclude dal computo del volume i porticati, se destinati all’uso collettivo, può ritenersi che l’uso collettivo sussista.
Benchè non sia corretto affermare, come sostiene la controinteressata, che il porticato garantisca l’accesso non solo al locale commerciale al piano terra ma anche al fabbricato da parte degli abitanti delle realizzande unità immobiliari e l’accesso di questi ultimi all’autorimessa collocata nell’interrato (se si esaminano gli elaborati progettuali risulta che l’accesso alle unità immobiliari costruite in elevazione non avviene attraversando il porticato ma entrando nel vano scala attraverso l’accesso posto sul prospetto nord-ovest e che la rampa di accesso all’autorimessa è separata dal portico), non vi sono comunque elementi che facciano ritenere che il portico sia a uso esclusivo del locale commerciale. In questa prospettiva non rileva che di “uso collettivo” l’originario progetto assentito nel luglio 2013 non parlasse e che l’uso collettivo sia stato dichiarato solo in occasione della variante. Al riguardo va osservato, da un lato, che anche nell’originario progetto il volume del porticato non era computato (evidentemente nel presupposto della sua accessibilità da parte di chiunque, essendo il medesimo aperto su tre lati) e, dall’altro, che, come già rilevato, dal progetto non risultano elementi che inducano a ritenere che il porticato non sia di uso collettivo.
In realtà nel progetto originario probabilmente il riferimento all’uso collettivo mancava perché non era stato ritenuto necessario non ponendosi problemi di superamento dei limiti volumetrici; questi problemi si sono invece evidentemente posti allorchè la proprietà ha deciso l’ampliamento in elevazione; di qui la variante del 10 aprile 2014 in cui l’uso collettivo viene esplicitato evidentemente in funzione del progetto di ampliamento che in quel momento era probabilmente in corso di elaborazione; va solo aggiunto in relazione a quest’ultimo profilo – che i ricorrenti enfatizzano per sostenere che l’intera operazione era sin dall’inizio preordinata alla realizzazione del fabbricato a quattro piani (cinque nella loro prospettazione) - che la circostanza che la proprietà potesse aver sin dall’inizio l’intendimento di sfruttare interamente le potenzialità edificatorie del lotto non dà luogo di per sé a illegittimità; è fisiologico infatti che un’impresa cerchi di massimizzare la propria redditività e l’unico limite che incontra è quello del rispetto delle leggi. In altri termini, se fosse stato evitato l’errore di alterare la sagoma, ben avrebbe potuto la controinteressata dapprima demolire e ricostruire l’immobile (che era il frutto di un abuso edilizio condonato e che pertanto era probabilmente di scarso pregio, come del resto testimonia la documentazione fotografica dello stato originario dei luoghi) e quindi ottenere il permesso per la sopraelevazione nel rispetto dei parametri urbanistici di riferimento (distanza dai confini, rapporto di copertura etc. ….).
Può ora passarsi alla problematica del sottotetto.
Per la migliore comprensione della questione va premesso che il progetto assentito dal permesso di costruire del 24 aprile 2014 prevede la realizzazione di un fabbricato di 4 piani (che è il numero massimo ammesso dalle n.t.a.); in pratica al piano terra (ove – come si è visto – sono localizzati il locale commerciale e il portico a uso collettivo) si aggiungono tre piani nei quali sono localizzati 3 appartamenti (per un totale di nove appartamenti); al di sopra del quarto piano il progetto prevede una copertura a tetto curvilinea; il sottotetto, che così si viene a creare, è collegato ai piani sottostanti dalla scala (il previsto ascensore quindi non raggiunge il sottotetto); esso è destinato ad alloggiare in 8 vani distinti - ciascuno dotato di porta finestra comunicante con il terrazzo (salvo il locale impianti televisivi che è dotato di semplice finestra) – gli impianti tecnologici (sono quindi previsti una centrale termica, un locale “impianti forza motrice accumulo acqua piovana”, un locale “serbatoio idrico per accumulo acqua piovana”, un locale “impianti televisivi”, un locale “impianto condizionamento”, un locale “impianti fotovoltaico”, un locale “impianti solare termico” e un locale “serbatoio idrico per accumulo acqua calda”). Nella relazione tecnica è precisato che il sottotetto “avrà un’altezza media di m. 2,20 misurata dal piano di calpestio finito all’intradosso della linea di colmo della copertura”; va precisato che il tetto presenta una doppia struttura: sono infatti previsti un manto di copertura in tegola canadese e una struttura secondaria in legno lamellare (nello spazio compreso tra le quali è stata ricavata una camera di ventilazione). Nel calcolo dei volumi della costruzione il piano sottotetto è stato computato nella misura di mc. 182,33 (cioè dal piano di calpestio alla linea di gronda).
La tesi dei ricorrenti è che il piano sottotetto non costituisce una copertura con volumi tecnici ma è un vero e proprio quinto piano (vietato dalle n.t.a. che consentono un massimo di quattro piani).
Essi anzitutto evidenziano che l’altezza del sottotetto di m. 2,20 è stata misurata sotto la trave e non al colmo del tetto (che si colloca a m. 3 dal piano di calpestio) e nemmeno all’intradosso della struttura secondaria in legno lamellare (che si colloca a un’altezza dal piano di calpestio di m. 2,60). Essi sostengono che la struttura secondaria in legno lamellare non è in grado di svolgere la funzione di ventilazione ma ha semplicemente la funzione strumentale di abbassare l’altezza del sottotetto che altrimenti sarebbe del tutto rispondente a un ulteriore piano (con violazione delle previsioni dell’articolo 14/0 delle n.t.a.); a ciò si aggiunge che, anche se si considerasse come altezza massima 2,60 m., si avrebbe un ambiente con un’altezza media di m. 2,05 (l’altezza minima, misurata sotto la struttura secondaria, è di 1,40) che è chiaramente sovradimensionato rispetto all’esigenza di contenimento degli impianti e che sarebbe agevolmente trasformabile in tre appartamenti, dato che il sottotetto è già suddiviso in veri e propri vani, è raggiungibile dalle scale che raggiungono gli altri piani e ciascun vano è dotato di finestre (inoltre sui lati “corti” sono previste ampie vetrate); si tratta di elementi che sono del tutto inutili in un volume tecnico e che risultano invece funzionali a fini abitativi. Concludono i ricorrenti che il carattere di volume tecnico di un ambiente non dipende dal suo utilizzo ma dalle sue caratteristiche intrinseche essendo necessario, da un lato, che il volume in questione si ponga in rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione e, dall’altro, che siano impossibili soluzioni progettuali diverse e che vi sia un rapporto di proporzionalità con le esigenze edilizie (nel senso che il volume tecnico, per non entrare nel calcolo del volume, deve assumere le caratteristiche di un vano chiuso assolutamente inutilizzabile a fini abitativi); nella fattispecie, ad avviso dei ricorrenti, questi elementi non sussistono in quanto il sottotetto è sovradimensionato rispetto alle esigenze di contenimento degli impianti (che avrebbero potuto in larga misura essere collocati più utilmente altrove) e risulta, per le sue caratteristiche di accessibilità, altezza e aperture, senz’altro idoneo all’utilizzo a fini abitativi.
Le argomentazioni dei ricorrenti sono sostanzialmente fondate. Ad avviso del collegio il sottotetto, per le sue caratteristiche quali risultano dal progetto, va considerato come un vero e proprio quinto piano (vietato dalle n.t.a.) il cui volume avrebbe dovuto essere computato ai fini della determinazione del massimo volume assentibile.
Anzitutto il Collegio ritiene condivisibile l’assunto dei ricorrenti secondo cui l’altezza massima del sottotetto non è pari a quella dichiarata di m. 2,20.
Se infatti l’altezza va misurata a partire dal piano di calpestio e sino alla linea di colmo della copertura, la misura non è quella di m. 2,20 che non rappresenta la distanza tra il piano di calpestio e il margine inferiore della struttura secondaria in legno lamellare risultante dal progetto ma la (minore) distanza tra il piano di calpestio e la linea inferiore delle travi portanti principali (si veda la sezione B-B del progetto); nel progetto l’esatta misura della distanza tra il piano di calpestio e il margine inferiore della struttura secondaria in legno lamellare non è indicata per cui non può dirsi se essa sia pari a m. 2,60 come sostenuto dai ricorrenti; deve però senz’altro escludersi che, come sostenuto in memoria dalla controinteressta, vi sia coincidenza tra la linea inferiore delle travi portanti principali e la linea della struttura portante secondaria dato che quest’ultima nella sezione B-B è chiaramente collocata in un punto più alto di almeno 20 cm. (dato che il dislivello tra la linea inferiore delle travi portanti e la linea della struttura in legno lamellare è chiaramente superiore all’ampiezza della camera di ventilazione che le perizie della controinteressata indicano in cm. 20).
Se quindi si considera che i locali situati nel sottotetto presentano un’altezza che li rende chiaramente idonei all’uso abitativo (tanto più che sono raggiungibili con le scale al servizio degli appartamenti collocati ai piani inferiori e sono muniti di finestre e vetrate che certo non sono necessarie all’uso dichiarato) e se si aggiunge che tali locali sono effettivamente sovradimensionati rispetto alla loro funzione (nel senso che superano chiaramente la misura “strettamente” occorrente al contenimento degli impianti, anche ammettendo l’impossibilità di ubicare altrove questi ultimi) ne risulta confermato l’assunto dei ricorrenti che il sottotetto non avrebbe potuto essere considerato un volume tecnico ma un vero e proprio quinto piano, vietato dalle n.t.a. e il cui volume avrebbe dovuto essere computato in base all’articolo 23, n. 10, del regolamento edilizio comunale.
Conclusivamente il ricorso va accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione staccata di Latina, definitivamente pronunciandosi sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati.
Condanna in solido i resistenti al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro cinquemila, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Latina nella camera di consiglio del giorno 2 aprile 2015 con l'intervento dei magistrati:
Carlo Taglienti, Presidente
Davide Soricelli, Consigliere, Estensore
Antonio Massimo Marra, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 20/05/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)