Pres. Papa Est. Petti Ric. Schembri
Acque. Nozione di scarico, acque meteoriche, bonifiche e getto pericoloso di cose
1. Nonostante il mancato riferimento nella definizione di scarico contenuta nel D.lv. 152-06 all'immissione tramite condotta e nonostante qualche imprecisione terminologica, si può escludere un ritorno allo scarico indiretto che era previsto dall'articolo 1 lettera a) della legge Merli e che non è stato riproposto nel decreto legislativo n 152 del 2006. Quindi anche in base al citato decreto legislativo per scarico si deve intendere l'immissione nel corpo recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema di canalizzazione anche se non necessariamente costituito da tubazioni.
2. La definizione di acque reflue industriali contenuta nel D.lv. 152-06, come la precedente, esclude dalle acque reflue industriali quelle meteoriche di dilavamento, precisando però che devono intendersi per tali anche quelle contaminate da sostanze o materiali non connessi con quelli impiegati nello stabilimento. Sembrerebbe perciò che quando le acque meteoriche siano, invece, contaminate da sostanze impiegate nello stabilimento, non debbano più essere considerate come "acque meteoriche di dilavamento", con la conseguenza che dovrebbero essere considerate reflui industriali”.
3. L'articolo 674 c.p.. prevede due ipotesi di reato:la prima vieta in ogni caso, salvo la limitazione del luogo , il getto (di corpi solidi ) o il versamento di cose ( liquidi) atti ad offendere, imbrattare e molestare le persone; la seconda vieta l'emissione di gas, vapori e fumo nei soli casi non consentiti dalla legge. Si tratta in entrambe le ipotesi di reato di pericolo e non di danno, come si desume dalla circostanza che ai fini della sua configurabilità è sufficiente l'idoneità a creare semplici molestie. La prima ipotesi però richiede una condotta attiva non essendo sufficiente l'omissione di cautele idonee ad evitare il possibile imbrattamento o la molestia alle persone. La seconda ipotesi invece può essere integrata sia da una condotta attiva che passiva. L'espressione nei casi non consentiti dalla legge costituisce una precisa indicazione circa la necessità che l'emissione avvenga in violazione delle norme che regolano l'inquinamento atmosferico. Di conseguenza, contenendo la legge una sorta di presunzione di legittimità di emissione dei fumi, vapori gas che non superino la soglia fissata dalle leggi speciali in materia, ai fini dell'affermazione della responsabilità penale, è necessario dimostrare il superamento dei limiti di tollerabilità stabiliti dalla legge speciale. Argomentando diversamente, si verrebbe ad ammettere che il legislatore abbia fissato prescrizioni e limiti il cui rispetto non sarebbe sufficiente a tutelare la salute . Tuttavia il problema del superamento dei limiti di tollerabilità si pone per le attività autorizzate, allorché l'emissione di fumi e vapori sia una conseguenza diretta dell'attività. Se l'attività non è autorizzata e o se l'emissione, ancorché autorizzata, non è una conseguenza naturale dell' attività, ma dipende da deficienze dell'impianto o da negligenze del gestore, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente la semplice idoneità a creare molestia alle persone.
4. La disciplina per la bonifica contenuta nel D.lv. 152-06 ha per oggetto, oltre ai suoli ed al sottosuolo, anche le acque sotterranee e prevede (art 242) che al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento debba mettere in atto entro ventiquattro ore le necessarie misure di prevenzione e dare immediata comunicazione ai sensi dell' articolo 304 del medesimo decreto legislativo nonché svolgere una preliminare indagine sui parametri oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione non sia stato superato, debba provvedere al ripristino della zona contaminata dandone notizia al comune ed alla provincia. Qualora accerti l'avvenuto superamento delle anzidette concentrazioni anche per un solo parametro deve darne immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure adottate e nei successivi trenta giorni deve presentare alle amministrazioni ed alla regione competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all'allegato n 2. La segnalazione è quindi dovuta a prescindere dal superamento delle soglie di contaminazione e la sua omissione è sanzionata dall' articolo 257 il quale non punisce solo l'omessa bonifica ma anche l'omessa segnalazione.
In fatto
Con ordinanza del 2 aprile del 2007, il tribunale
di Palermo respingeva
l’istanza di riesame proposta da Schembri Pasquale, nella qualità di
procuratore speciale dell’Area Sicilia della società “Kuwait Petroleum
Italia
S.P.A.”, avverso il provvedimento del giudice per le indagini
preliminari
presso il suddetto tribunale del 7 marzo del 2007, con cui si era
disposto il
sequestro preventivo dell’impianto di distribuzione carburanti sito in
Ficarazzi, gestito da Giuliano Salvatore, quale amministratore della
Siciliana
Carburante, e di proprietà della società anzidetta.
Secondo la ricostruzione fattale contenuta
nell’ordinanza impugnata, a
seguito di denuncia di numerosi cittadini, i quali avevano segnalato
danni
all’ambiente provocati dal suddetto distributore di carburanti, il 9
gennaio
del 2006, da parte della polizia provinciale era stato effettuato un
sopralluogo nel quale si era constatato che le condizioni di
manutenzione e
sicurezza erano carenti e si erano ipotizzati i seguenti reati: la
violazione
dell’articolo 674 c.p. con riguardo alle esalazioni nocive ed alla
dispersione
nell’ambiente di carburante; la violazione degli artt. 242 e 246 del
decreto
legislativo n. 152 del 2006, per avere il titolare dell’impianto omesso
di
attivare le procedure previste dai citati articoli per la segnalazione
e la
bonifica dei siti potenzialmente inquinati; la violazione dell’articolo
59 del
decreto legislativo n. 152 del 1999 perché l’impianto non era provvisto
di
autorizzazione allo scarico delle acque reflue ed era altresì privo di
un
sistema di raccolta delle acque di prima pioggia.
Osservava il tribunale che erano astrattamente
configurabili tutti i
reati contestati. Con riferimento a quello di cui all’articolo 674 c.p.
evidenziava che si era accertato lo sversamento di carburante, sia in
occasione
delle operazioni del rifornimento da parte degli utenti, che durante
quelle di
riempimento delle cisterne nonché la presenza di acqua e carburante nei
pozzetti di spurgo delle cisterne (cosiddetti passi d’uomo). Tale
ristagno, che
provocava esalazioni nocive, si verificava durante le operazioni di
riempimento
delle cisterne che avvenivano con cadenza trisettimanale per le ridotte
capacità contenutistiche delle stesse e per la mancanza di un
dispositivo di
conteggio del carburante scaricato.
Con riguardo alla violazione degli artt. 242 e 246
del decreto
legislativo n. 152 del 2006, sanzionata dal successivo articolo 257,
rilevava
che i responsabili, nonostante la potenziale contaminazione del sito,
constatata nei vari sopralluoghi, non avevano attivato le procedure
previste
dalle norme anzidette. Inoltre la ditta aveva provveduto a svuotare i
pozzetti
lasciando però i fusti di carburante in giacenza per qualche settimana
presso
l’impianto.
Infine, con riferimento al reato di cui
all’articolo 59 del decreto
legislativo n. 152 del 1999, il collegio, dopo avere premesso che il
contenuto
di tale norma era stato riprodotto in quello di cui all’articolo 137
del testo
unico n. 152 del 2006, osservava che gli indagati non erano in possesso
di
alcuna autorizzazione allo scarico o alla raccolta delle acque piovane.
Rilevava infine che sussisteva il periculum in mora occorrendo evitare
la
perpetuazione del danno all’ambiente.
Ricorre per cassazione lo Schembri sulla base di
quattro motivi.
In
Diritto
Con i primi tre motivi di gravame il ricorrente
lamenta la violazione
delle norme incriminatici nonché la carenza dei presupposti per
l’adozione del
provvedimento ablatorio e mancanza di motivazione, il tutto in base ai
mezzi di
annullamento di cui all’articolo 606 c.p.p. lettere b e c). Assume che
i tre
reati ipotizzabili non sarebbero configurabili neppure astrattamente:
il primo
non sarebbe configurabile per i motivi già indicati nell’istanza del
riesame ai
quali rinvia; il secondo perché le norme citate dal tribunale non
prevedevano
reati ma solo regole procedurali cui non potevano essere parametrate
condotte
penalmente rilevanti, tanto più che non risultavano essere state
superate le
soglie di rischio né era stato dimostrato l’inquinamento del suolo,
sottosuolo
o acque, ma solo quello dei pozzetti di spurgo appositamente costruiti
per
contenere gli sversamenti accidentali. Sostiene inoltre che la
comunicazione di
cui all’articolo 242 decreto legislativo citato era stata inoltrata a
seguito
della segnalazione giornalistica del fatto. In ordine alla
configurabilità del
terzo reato deduce l’insussistenza di uno scarico di acque reflue
industriali e
sottolinea che il mancato convogliamento delle acque meteoriche poteva
essere
sanzionato solo in presenza di apposita legislazione regionale mai
emanata.
Con il quarto motivo deduce la violazione
dell’articolo 321 c.p.p. e
mancanza di motivazione sul periculum in mora. Assume che, dopo
l’adozione del
provvedimento cautelare, la società aveva chiesto ed ottenuto la
rimozione dei
sigilli per espletare alcune indagini sull’impianto all’esito delle
quali erano
stati esclusi sversamenti di prodotti petroliferi riconducibili a
carenze del
distributore.
Il ricorso è parzialmente fondato e va accolto per
quanto di ragione. I
primi tre motivi, essendo logicamente connessi perché attengono
all’astratta
configurabilità dei reati ipotizzati, vanno esaminati congiuntamente.
L’articolo 674 c.p.. prevede due ipotesi di reato:
la prima vieta in ogni
caso, salvo la limitazione del luogo, il getto (di corpi solidi) o il
versamento di cose (liquidi) atti ad offendere, imbrattare e molestare
le
persone; la seconda vieta l’emissione di gas, vapori e fumo nei soli
casi non
consentiti dalla legge. Si tratta in entrambe le ipotesi di reato di
pericolo e
non di danno, come si desume dalla circostanza che ai fini della sua
configurabilità è sufficiente l’idoneità a creare semplici molestie. La
prima
ipotesi però richiede una condotta attiva non essendo sufficiente
l’omissione
di cautele idonee ad evitare il possibile imbrattamento o la molestia
alle
persone. La seconda ipotesi invece può essere integrata sia da una
condotta
attiva che passiva. Per quanto concerne le emissioni gassose, secondo
la
giurisprudenza prevalente di questa corte, l’espressione nei casi non
consentiti dalla legge costituisce una precisa indicazione circa la
necessità
che l’emissione avvenga in violazione delle norme che regolano
l’inquinamento
atmosferico (Cass. 216621 del 2000: 220678 del 2002). Di conseguenza,
contenendo la legge una sorta di presunzione di legittimità di
emissione dei
fumi, vapori gas che non superino la soglia fissata dalle leggi
speciali in
materia, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, è
necessario
dimostrare il superamento dei limiti di tollerabilità stabiliti dalla
legge
speciale. Argomentando diversamente, come si è sottolineato dalla
dottrina, si
verrebbe ad ammettere che il legislatore abbia fissato prescrizioni e
limiti il
cui rispetto non sarebbe sufficiente a tutelare la salute. Tuttavia il
problema
del superamento dei limiti di tollerabilità si pone per le attività
autorizzate, allorché l’emissione di fumi e vapori sia una conseguenza
diretta
dell’attività. Se l’attività non è autorizzata e o se l’emissione,
ancorché
autorizzata, non è una conseguenza naturale dell’attività, ma dipende
da
deficienze dell’impianto o da negligenze del gestore, ai fini della
configurabilità del reato, è sufficiente la semplice idoneità a creare
molestia
alle persone.
Nella fattispecie il tribunale ha ritenuto
configurabili entrambe le
ipotesi di cui all’articolo 674 c.p. Ora la prima ipotesi non sembra
astrattamente configurabile o comunque non sono state indicate le
ragioni per
le quali dovrebbe essere configurabile. Invero, tale ipotesi, come
sopra
precisato, richiede un comportamento positivo del gestore
dell’impianto. Di
conseguenza l’eventuale versamento accidentale del carburante da parte
degli
utenti era casuale e non dipendeva da attività positiva del gestore
dell’impianto, ma da imperizia degli stessi utenti. Inoltre le
esalazioni per
essere idonee a recare molestia alle persone devono avere una durata
apprezzabile nel tempo e non risolversi in pochi istanti ed in ambito
circoscritto come quelle eventualmente causate da modesti versamenti di
carburante da parte dei clienti in occasione dell’autorifornimento. E’
invece
astrattamente configurabile la seconda ipotesi della norma richiamata
in
quanto, come esattamente rilevato dal tribunale, nel caso in esame non
si
poneva un problema di tollerabilità poiché le esalazioni dipendevano
secondo
gli accertamenti compiuti dal giudice del merito, dalla vetustà ed
inefficienza
dell’impianto ed erano state causate dal continuo ristagno di
idrocarburi nei
pozzetti. Orbene, trattandosi di esalazioni imputabili all’indagato per
la
vetustà o inefficienza dell’impianto, come accertato allo stato dal
tribunale,
il reato ipotizzato è astrattamente configurabile.
Con riferimento alla configurabilità del secondo
reato (violazione degli
artt. 242 e segg. del D.P.R. n. 152 del 2006) si osserva che il fatto,
iniziato
sotto la disciplina dei decreti legislativi n. 152 del 1999 e n. 27 del
1997 è
proseguito anche sotto la vigenza del testo unico in materia ambientale
approvato con decreto legislativo n. 152 del 2006.
L’art. 58 del decreto legislativo n. 152 del 1999
disponeva che “chi con
il proprio comportamento omissivo o commissivo in violazione delle
disposizioni
del presente decreto provoca un danno alle acque, al suolo, al
sottosuolo e
alle altre risorse ambientali, ovvero determina un pericolo concreto ed
attuale
di inquinamento ambientale, è tenuto a procedere a proprie spese agli
interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino
ambientale delle
aree inquinate e degli impianti dai quali è derivato il danno ovvero
deriva il
pericolo di inquinamento, ai sensi e secondo il procedimento di cui
all’art. 17
del D.Lgs. n. 22 del
L’articolo 51 bis del decreto legislativo n. 22 del
1997, prescriveva a
sua volta che chiunque avesse cagionato l’inquinamento o un pericolo
concreto
ed attuale di inquinamento, previsto dall’articolo 17, comma 2, era
punito con
la pena dell’arresto da sei mesi a un anno e con l’ammenda da lire
cinque
milioni a lire cinquanta milioni se non provvedeva alla bonifica
secondo il
procedimento di cui all’articolo 17. Si applicava la pena dell’arresto
da un
anno a due anni e la pena dell’ammenda da lire 10 milioni a lire 100
milioni se
l’inquinamento fosse stato provocato da rifiuti pericolosi e, al comma
2, precisava
che chiunque avesse cagionato, anche in maniera accidentale, il
superamento dei
limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero avesse determinato un
pericolo
concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, era tenuto a
procedere
a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali
derivava
il pericolo di inquinamento. Dal raffronto emerge che la fattispecie
del D.Lgs.
n. 22/1997 aveva un ambito diverso e, per alcuni aspetti, più
circoscritto e
limitato rispetto a quella di cui all’articolo 58 del decreto
legislativo n.
152 del 1999: essa, infatti, faceva riferimento non genericamente a un
danno
all’ambiente o ad un pericolo di inquinamento ambientale, bensì al
superamento
o al pericolo di superamento di limiti precisi specificati dal D.M. 25
ottobre
1999, n. 471. Inoltre, mentre, il decreto sulle acque del 1999
richiedeva che
il danno o il pericolo di inquinamento ambientale fosse stato provocato
da un
comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni
del
decreto stesso, l’articolo 17 comma secondo del decreto Ronchi faceva
discendere l’obbligo della bonifica anche se il fatto fosse stato
cagionato in
maniera accidentale.
Il decreto legislativo n. 152 del
Nella fattispecie non si è fatto alcun riferimento
agli elementi
richiesti dalla disciplina vigente prima del decreto legislativo n. 152
del
2006 per la configurabilità del reato, ma si è richiamato solo il
predetto
decreto legislativo. In particolare si è ritenuto che in presenza di
una
situazione potenzialmente inquinante del sito, constatata secondo il
tribunale
dai vari sopralluoghi, il responsabile dell’inquinamento aveva omesso
le
prescritte comunicazioni. Il fatto quindi è astrattamente configurabile
sotto
la vigenza del decreto legislativo n. 152 del
L’indagato lascia però intendere di avere
effettuato la prescritta
segnalazione, ma di tanto non ha fornito la prova. In ogni caso un
eventuale
vizio di travisamento della prova da parte del tribunale non è
deducibile in
questa sede. Invero, in questa materia, a norma dell’articolo 325
c.p.p., il
ricorso per cassazione può essere proposto solo per violazione di
legge.
Secondo l’orientamento prevalente di questa corte, ribadito dalle
Sezioni unite
con la sentenza del 2004, Ferazzi, nel concetto di violazione di legge
può
comprendersi la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di
motivazione
meramente apparente in quanto correlate all’inosservanza di precise
norme
processuali, quali ad esempio l’articolo 125 c.p.p., che impone la
motivazione
anche per le ordinanze, ma non la manifesta illogicità della
motivazione, che è
prevista come autonomo mezzo d’annullamento nell’articolo 606 lett. e)
né tanto
meno il travisamento del fatto o della prova .Sarà il giudice del
merito ad
accertare se sia stato o no effettuata la prescritta segnalazione.
Per quanto concerne l’ipotizzata violazione
dell’articolo 59 del decreto
legislativo n. 152 del 1999, per la mancata autorizzazione allo scarico
dei
reflui industriali e per la mancata adozione di un sistema di
convogliamento
delle acque di dilavamento e di quelle di prima pioggia, si deve invece
rilevare che il reato ipotizzato (violazione dell’articolo 59 del
decreto
legislativo n. 152 del 1999) non è astrattamente configurabile.
Invero, nella normativa in materia di inquinamento
idrico e segnatamente
nel decreto legislativo citato, accanto alla definizione di acque
reflue
industriali ed a quella di acque reflue urbane si faceva riferimento ad
una
diversa e distinta tipologia di acque e cioè “alle acque meteoriche di
dilavamento” (articolo 2 lettera h) decreto legislativo n. 152 del
1999, come
modificato dal decreto legislativo correttivo n. 258 del 2000) per
distinguerle
da quelle industriali e da quelle domestiche. Le acque meteoriche di
dilavamento, pur essendo riconducibili ad un fenomeno naturale, possono
comunque essere interessate dall’attività antropica in modo importante
ed
interagire con l’ambiente in modo pesantemente negativo; le stesse,
infatti, in
relazione al luogo dove si riversano e alle modalità con cui vengono
raccolte,
trasportano spesso sostanze inquinanti nei corpi recettori.
Le acque meteoriche di dilavamento sono quindi
costituite dalle acque
piovane che, depositandosi su un suolo impermeabilizzato dilavano le
superfici
ed attingono indirettamente i corpi recettori. Quando queste vengono in
qualsiasi modo convogliate nella rete fognaria, si mischiano con le
acque
reflue domestiche e/o industriali. Tali acque non erano definite né
disciplinate dalla legge Merli, tuttavia, stante il possibile impatto
sull’ambiente quando esse interagivano con altri reflui o con
contaminanti
derivanti dall’attività antropica, la giurisprudenza aveva avuto modo
di
occuparsene in più riprese, inquadrandole come “scarico” e stabilendone
talora
la sottoposizione al regime, anche penale, degli scarichi industriali
(cfr.
Cass. n 12186 del 1999). Tale concetto, che esclude quindi che possano
essere
considerate “acque meteoriche” quelle in cui sia rilevante la
confluenza con
altri reflui o commistione con altre sostanze inquinanti provenienti da
un
insediamento produttivo, è stato affermato anche nel vigore del D.Lgs.
152/1999,
ma prima della modifica introdotta dal D.Lgs. 258/2000. Si è infatti
ritenuta
la sussistenza del reato di cui all’articolo 59 del decreto legislativo
n. 152
del 1999, qualora i reflui piovani rappresentassero solo una componente
dello
scarico. Al contrario il reato non è stato considerato integrato
qualora lo
scarico fosse costituito esclusivamente da acque meteoriche, poiché in
questo
caso veniva a mancare qualsiasi collegamento, sotto forma di diretta
derivazione, dal ciclo produttivo di un insediamento commerciale o
industriale.
In definitiva le acque meteoriche e di dilavamento (si considerano
acque di
dilavamento solo quelle meteoriche che cadono su superfici impermeabili
essendo
queste le uniche che possono essere dilavate), non erano in se stesse
considerate
“scarico” nel concetto previsto e delineato formalmente dall’articolo 2
lettera
bb) del D.Lgs. n. 152/1999, prima dell’intervento correttivo attuato
con il
decreto legislativo n. 258 del 2000. Tuttavia, se un’acqua meteorica
andava a
“lavare”, anche se in modo non preordinato e sistematico (quindi
discontinuo), un’area
soggetta ad attività produttiva anche passiva, e trasportava con sé
elementi
residuali di tale attività, cessava la natura pura e semplice di acqua
meteorica e l’acqua diventava in qualche modo uno scarico vero e
proprio e
quindi era assoggettato naturalmente alla disciplina degli “scarichi”
con la
conseguente necessità dell’autorizzazione. In tal caso, infatti,
l’acqua
perdeva la caratteristica unica ed esclusiva di acqua meteorica ed
andava a
fondersi con gli elementi reflui (sistematici o episodici)
dell’azienda,
fungendo da vettore improprio per la convogliabilità diretta verso il
corpo
ricettore.
Con le correzioni apportate al decreto legislativo
n. 152 del 1999 per
mezzo del decreto legislativo n. 258 del 2000 è cambiata la nozione di
scarico
che, come accennato, è stata limitata a qualsiasi immissione diretta
tramite
condotta o canalizzazione di acque reflue (art. 2 lettera bb del
decreto
legislativo n. 152 del 1999) ed è stata altresì puntualizzata con
l’articolo 39
la disciplina delle acque meteoriche. Di conseguenza è stato
abbandonato
l’ampio concetto di scarico presupposto dalla legge 10 maggio del 1976
n. 319
che comprendeva scarichi di ogni tipo, diretto o indiretto e quindi
anche
occasionali. A seguito di tale modificazione non costituisce più
scarico
diretto che richiede la previa autorizzazione quello che non convoglia
acque
reflue tramite condotta o comunque tramite un sistema stabile di
deflusso anche
se non necessariamente costituito da tubazioni. A seguito delle
modificazioni
apportate all’articolo 39 il legislatore ha devoluto alle Regioni il
compito di
disciplinare le forme di controllo degli scarichi delle acque
meteoriche (comma
1 lettera a) dell’articolo 39) e quello di indicare i casi in cui
possono
essere imposte particolari prescrizioni per le immissioni delle acque
meteoriche di dilavamento effettuate tramite altre condotte separate
(comma 1
lettera b) ovvero per le acque di prima pioggia o di lavaggio qualora
vi sia
rischio per l’ambiente (comma 3). Nello stesso tempo il legislatore ha
vietato
comunque lo scarico e l’immissione diretta di acque meteoriche nelle
acque
sotterranee (comma 4) specificando tuttavia che il divieto generale di
scarico
sul suolo o negli strati superficiali del sottosuolo non si applica
agli
“scarichi di acque meteoriche convogliate in reti fognarie separate”
(art. 29
comma 1 lettera e). In ogni caso le acque meteoriche che non
rientravano nella
regolamentazione regionale non erano soggette ai vincoli ed alle
prescrizioni
del decreto legislativo n. 152 del
Attualmente la disciplina delle acque meteoriche di
dilavamento è
interamente contenuta nell’art. 113 del D.Lgs. 152/2006, il quale
riproduce
sostanzialmente il contenuto dell’art. 39 del D.Lgs. 152/1999, come
modificato
dal D.Lgs. n. 258/2000.
Detto articolo prevede al comma 1 che le Regioni,
ai fini della
prevenzione di rischi idraulici ed ambientali, stabiliscano e
disciplinino:
1) forme di controllo degli scarichi di acque
meteoriche di dilavamento
provenienti da reti fognarie separate (cioè adibite a raccogliere
esclusivamente acque meteoriche);
2) i casi in cui può essere richiesto che le
immissioni delle acque
meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte separate
(diverse
dalle reti fognarie separate), siano sottoposte a particolari
prescrizioni, ivi
compresa l’eventuale autorizzazione.
Questi sono gli unici casi in cui le acque
meteoriche sono soggette al
D.Lgs. 152/2006.
Il comma 2 dell’art. 113 prevede infatti che fuori
di dette ipotesi “le
acque meteoriche non sono soggette a vincoli o prescrizioni derivanti
dalla
parte terza del presente decreto” (e quindi, ove non siano commiste ad
altri
reflui prodotti dall’attività antropica, non costituiscono uno
“scarico”
soggetto alla disciplina del D.Lgs. 152/2006). Tuttavia si deve
segnalare una
modificazione introdotta con la nuova definizione di acqua reflua
industriale
dall’art. 74 lettera h) del D.Lgs. 152/2006. Mentre infatti nel regime
del
D.Lgs. 152/1999 le acque di dilavamento sembravano apparentemente
escluse dalla
nozione di scarico anche ove si fosse trattato di acque che avessero
raccolto
sostanze inquinanti provenenti da insediamenti industriali, la nuova
disciplina
ridefinisce le acque reflue industriali come “qualsiasi tipo di acque
reflue
provenienti da edifici od installazioni in cui si svolgono attività
commerciali
o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue
domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali
anche
quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti,
non
connesse con le attività esercitate nello stabilimento”. La nuova
definizione,
come la precedente, esclude dalle acque reflue industriali quelle
meteoriche di
dilavamento, precisando però che devono intendersi per tali anche
quelle
contaminate da sostanze o materiali non connessi con quelli impiegati
nello
stabilimento. Sembrerebbe perciò che quando le acque meteoriche siano,
invece,
contaminate da sostanze impiegate nello stabilimento, non debbano più
essere
considerate come “acque meteoriche di dilavamento”, con la conseguenza
che
dovrebbero essere considerate reflui industriali. In particolare,
mentre in
precedenza appariva evidente l’intento del legislatore di espungere il
più
possibile dal D.Lgs. 152/1999 le acque meteoriche in mancanza di
apposita
disciplina regionale e, stante il chiaro tenore letterale delle norma,
non
pareva più possibile l’equiparazione delle acque di dilavamento
(seppure
contaminate) delle aree esterne di un’azienda alle acque industriali,
con il
D.Lgs. 152/2006 le acque di dilavamento contaminate dall’attività
produttiva
tipica dell’insediamento da cui provengono sembrano doversi ritenere
assimilate
a quelle industriali, e quindi soggette al relativo regime normativo.
Inoltre
con il decreto legislativo n. 152 del 2006 sono state modificate sia la
definizione di scarico che quella d’inquinamento. Per quanto concerne
la definizione
scarico è stato eliminato il riferimento alla “ immissione diretta
tramite
condotta”(cfr. art. 74 lettere ff decreto legislativo n. 152 del 2006).
L’articolo 185 primo comma lettera b) del decreto legislativo citato
precisa,
infatti, che non rientrano nel capo d’applicazione della disciplina dei
rifiuti
“gli scarichi idrici esclusi i rifiuti liquidi costituiti da acque
reflue”.
Questo collegio, nonostante il mancato riferimento nella definizione di
scarico
all’immissione tramite condotta e nonostante qualche imprecisione
terminologica, ritiene che si possa escludere un ritorno allo scarico
indiretto
che era previsto dall’articolo I lettera a) della legge Merli e che non
è stato
riproposto nel decreto legislativo n. 152 del 2006. Quindi anche in
base al
citato decreto legislativo per scarico si deve intendere l’immissione
nel corpo
recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema dl
canalizzazione anche
se non necessariamente costituito da tubazioni. Tale interpretazione si
impone,
sia per evitare i contrasti e le incertezze sorte in passato sulla
nozione di
scarico, sia perché attualmente è all’esame del Governo uno schema di
decreto
correttivo, emanato in base all’articolo 1 comma 6 della legge delega
15
dicembre 2004 n
Quindi il reato contestato, per la mancanza di una
condotta o comunque di
una canalizzazione, non è configurabile né in base al decreto
legislativo n.
152 del 1999 né in base a quello del 2006 mentre potrebbe essere
configurabile
un eventuale abbandono di rifiuti liquidi qualora dovesse emergere che
le acque
meteoriche di dilavamento mescolandosi con il carburante producevano
rifiuti
liquidi, dei quali la ditta intendeva disfarsi, riconducibili
all’attività
svolta su quel piazzale dalla società. Ma trattasi di una mera ipotesi
che non
risulta riscontrata.
Alla stregua delle considerazioni svolte
l’ordinanza impugnata va
annullata con riferimento all’astratta configurabilità del reato di cui
all’articolo 59 del decreto legislativo n. 152 del 1999. Il giudice del
rinvio
ai fini dell’ipotizzabilità di tale reato dovrà tenere conto dei
principi sopra
enunciati in ordine alla nozione di scarico che, anche in base al
decreto
legislativo n. 152 del 2006, non può considerarsi diversa da quella
indicata
nell’articolo 2 lettera bb) del decreto legislativo n. 152 del 1999,
come
modificato dal decreto legislativo n. 258 del
Il motivo relativo alle esigenze cautelari si deve
ritenere assorbito
dovendo il tribunale riesaminare, sia pure in parte, l’astratta
configurabilità
dei reati. In ogni caso a prescindere dalla configurabilità dei reati,
il
sequestro potrebbe essere mantenuto solo nell’ipotesi in cui la causa
del
potenziale inquinamento, che il tribunale assume essere stato
constatato, non
sia stata nel frattempo eliminata.