Cassazione, rifiuti di cava ed acque di dilavamento
di Gianfranco AMENDOLA
pubblicato su unaltroambiente.it. Si ringraziano Autore ed Editore
È stata di recente depositata una importante sentenza della Cassazione1 che tratta diverse problematiche, spesso ricorrenti nel diritto penale dell’ambiente, connesse con l’esercizio di una cava e con l’impiego del materiale di scavo.
Rinviando alla integrale lettura della sentenza, sembra opportuno soffermarsi, in questa sede, su due delle questioni ivi affrontate, in quanto spesso ricorrenti e, in parte, non del tutto chiarite.
La esclusione dalla disciplina sui rifiuti del materiale da scavo di una cava
La prima attiene alla esclusione dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti sancita dall’art. 185, comma 2, lett. d) del TUA (D. Lgs 152/06) per “i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave, di cui al decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 117”. Già a livello letterale appare chiaro che, comunque, si tratta di rifiuti, anche se poi, per legge, ad essi non si applica la relativa disciplina. Anzi, a questo proposito giova rilevare subito che, in realtà, l’art. 185 ricalca l’art. 2 della direttiva sui rifiuti 2008/98/CE, il quale prevede due tipi di esclusioni: quelle che operano comunque (comma 1) e quelle che, invece, come le acque di scarico e i rifiuti derivanti dall’esercizio di cave, operano solo “nella misura in cui sono contemplati da altra normativa comunitaria” (comma 2), che, per i rifiuti da cava viene individuata nella direttiva 2006/21/CE del 15 marzo 2006, relativa alla gestione dei rifiuti delle industrie estrattive, aggiungendo che “disposizioni specifiche particolari o complementari a quelle della presente direttiva per disciplinare la gestione di determinate categorie di rifiuti possono essere fissate da direttive particolari” (comma 4).
Per meglio comprendere, va ricordato che, nella logica comunitaria, le esclusioni dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti rispondono al semplice criterio di evitare confusione, per cui se un rifiuto è già stato oggetto di una specifica disciplina, è inutile e fuorviante sottoporlo anche alla normativa generale sui rifiuti. Ciò vale non solo per le esclusioni del secondo comma, che lo dichiarano apertamente, ma anche per quelle del primo: le emissioni in atmosfera, le terre da scavo, i rifiuti radioattivi, gli esplosivi in disuso, i rifiuti agricoli sono già oggetto di specifiche disposizioni. E, nello stesso intento, il secondo comma esclude alcuni rifiuti proprio e solo se esistono per essi altre specifiche disposizioni comunitarie o nazionali; altrimenti ad essi si applica la “normale” disciplina prevista per i rifiuti. Anzi, proprio a proposito della seconda categoria, già molti anni fa la Corte europea di giustizia ha sancito che, anche in presenza di normativa nazionale speciale, l’esclusione dalla disciplina generale sui rifiuti è operante solo se vi siano “disposizioni precise che organizzano la loro gestione come rifiuti ad un livello di protezione dell’ambiente almeno equivalente a quello previsto” dalla normativa comunitaria generale sui rifiuti e dai provvedimenti di applicazione2.
Recependo queste indicazioni, l’art. 185 del TUA precisa che le esclusioni del secondo comma operano “in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento”, citando per i rifiuti da cava, come abbiamo visto, il D. Lgs 117/2008 e cioè il testo con cui il nostro paese ha dato attuazione alla citata direttiva del 2006.
Appare, pertanto, evidente che i rifiuti da cava sono esclusi dall’ambito di applicazione della normativa generale sui rifiuti se e in quanto ad essi si applica la speciale disciplina di cui al D. Lgs 117/2008.
Ed è proprio questa la problematica di cui si occupa la sentenza in esame, a fronte della tesi del Tribunale (oggetto di ricorso del P.M.) secondo cui il legislatore non avrebbe fatto, invece, un rimando esplicito ad una normativa specifica, optando per la esclusione in via generale dei rifiuti provenienti dalla attività di sfruttamento delle cave, anche se, come nel caso di specie, si trattava di cava non autorizzata. A questo proposito, peraltro, la Cassazione, citando un precedente in tema di carogne di animali, ricorda con molta enfasi anche il disposto dell’art. 177, comma 3 del TUA, il quale, dando attuazione al citato comma 4 della direttiva sui rifiuti, aggiunge che “sono fatte salve disposizioni specifiche, particolari o complementari, conformi ai principi di cui alla parte quarta del presente decreto, adottate in attuazione di direttive comunitarie che disciplinano la gestione di determinate categorie di rifiuti”; giungendo, quindi, alla conclusione che “questo combinato disposto di “salvezza” e di “esclusione” denota che il legislatore ha voluto escludere la disciplina generale in forza dell’art. 15 c.p., solo quando esista una disciplina che regoli “la stessa materia” per una determinata categoria di rifiuti: ma ha voluto far convivere le due normative quando esiste una disciplina “complementare” che, lungi dal regolare la stessa materia, abbia per oggetto profili diversi da quello ambientale”; con la conseguenza che la esclusione dalla disciplina sui rifiuti opera solo quando vi siano “disposizioni speciali” che garantiscano “la effettiva regolazione della materia nel quadro della reale tutela dell’ambiente, quali, nel caso di specie, sono quelle contenute nel D. Lgs 117/2008; legge che viene definita, dopo minuziosa analisi, dalla Suprema Corte, “attenta disciplina in favore dell’ambiente” che giustifica, alla luce del principio di effettività, la scelta derogatoria per le attività autorizzate di cava, mentre, al contrario, “la mancanza di applicabilità del regime di cui al DPR 117/2008 e delle correlate autorizzazioni riconduce l’intera attività estrattiva di cava, quanto ai rifiuti, nell’ambito della disciplina generale di settore”.
In sostanza, quindi,- ed è il dato più importante- un rifiuto è sempre soggetto a precise disposizioni volte a tutelare l’ambiente che sono, di regola, quelle generali, a meno che non sia applicabile una adeguata disciplina specifica, la quale, in tal caso, prevale, anche se, ovviamente, limitatamente ai rifiuti oggetto di deroga3; eccezione, tuttavia, non ricorrente per la Cassazione nel caso di specie trattandosi di cava totalmente abusiva ed esclusa dalla disciplina del D. Lgs 117/2008.
La qualificazione delle acque venute a contatto con le lavorazioni di una cava
La seconda questione (terzo motivo del ricorso) attiene, invece, alla qualificazione (e relativa disciplina) delle acque meteoriche di dilavamento venute a contatto con le lavorazioni effettuate nella cava, anche se, in realtà, dalla sentenza non è dato capire con esattezza i termini del contendere tra Tribunale e P.M. ricorrente.
Nella descrizione del fatto, cioè, la Cassazione riporta solo che il P.M. aveva dedotto la violazione dell’art. 256 comma 1 lett. a) e comma 2 del Dlgs. 152/06 attinente alla gestione non autorizzata di rifiuti (oltre che dell’art. 2 della LTR n. 20/2006 e dell’art. 39 comma 1 lett. a) del regolamento n. 46/R del 8.9.2008 della regione Toscana), contestando “la conclusione del tribunale per cui le attività di estrazione, lavaggio e pulitura degli inerti non sarebbero ricomprese nel concetto di “lavorazioni” di cui all’art. 39 comma 1 lett. a) del regolamento regionale prima citato. Rientrando nel concetto di lavorazione l’attività che si svolge in uno stabilimento come desumibile dall’art. 268 comma 1 lett. h) del Dlgs. 152/06”; aggiungendo che “neppure rilevante sarebbe, a supporto della contestata interpretazione, il dato per cui il citato Regolamento precisa che le lavorazioni devono avvenire “al di fuori delle aree di cava” posto che le attività contestate avvenivano in impianti non ubicati nel sito estrattivo in senso stretto”. Quindi, non si parla di acque di dilavamento ma, genericamente, di rifiuti facendo riferimento a normativa regionale della Toscana.
Nella corrispondente parte in diritto, invece, la Cassazione premette che la problematica riguarda il dato “per cui le acque in contestazione interverrebbero su materiale di cava – come espressamente citato in ordinanza – esulante dalla deroga di cui all’art. 185 citato e come tale suscettibile di essere ritenuto rifiuto nel quadro della disciplina generale di settore”, aggiungendo che “dalla lettura del capo di incolpazione e da quanto illustrato nella stessa ordinanza impugnata” si desume trattarsi di acque che “ricadono sul materiale di cava per poi defluire”
E, quindi, sembra di capire che la questione consiste nel valutare, appunto, la qualificazione giuridica delle acque di dilavamento venute a contatto con il materiale della cava abusiva che, come abbiamo visto, è rifiuto sottoposto alla normativa generale dei rifiuti.
La sentenza affronta, così, la problematica relativa ad ambito e disciplina relativi alle acque meteoriche di dilavamento, più volte dibattuta in dottrina e giurisprudenza4, dove, nel tempo, si sono registrate alcune rilevanti variazioni normative5 e dove la stessa Cassazione ha assunto posizioni contrastanti6, anche se, fortunatamente, di recente7 sembra aver consolidato una sua conclusione8. Anzi, diciamo subito che la sentenza in commento contribuisce ad un ulteriore rafforzamento di questa conclusione, visto che la richiama espressamente per esteso.
Riassumendo i termini della questione, le acque meteoriche di dilavamento sono disciplinate (insieme a quelle di prima pioggia) dall’art. 113 del TUA9 il quale vieta “comunque” lo scarico e la immissione diretta di acque meteoriche nelle acque sotterranee (comma 4), ma precisa, di converso, che, per il resto, esse, di regola, sono “libere” dai vincoli e dalle prescrizioni previsti dalla parte terza (sulle acque) del TUA (comma 2) salvo che, ai sensi del comma 1, si tratti di <<acque meteoriche di dilavamento>>, immesse tramite condotte e reti fognarie separate, oggetto di specifica disciplina (incluso eventuale obbligo di autorizzazione) e di forme di controllo regionali .
Quanto alle “acque di prima pioggia e di lavaggio delle acque esterne”, si prevede che le Regioni possano richiedere che esse siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione qualora vi siano particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici (comma 3).
A questo proposito, la sentenza in esame, richiamandosi alla citata sentenza del 2021, precisa che “si tratta, in questo caso, di situazioni – diverse e ritenute meritevoli di maggiore attenzione – di origine non soltanto naturale (acque di prima pioggia), ma anche volontaria (lavaggio di aree esterne) in cui la presenza di un pericolo di contaminazione richiede particolari accorgimenti (convogliamento e trattamento di depurazione)”, concludendo che “l’art. 113, disciplina dunque situazioni specifiche ed espressamente individuate, concernenti le acque meteoriche di dilavamento (commi 1 e 2), le acque di prima pioggia e di lavaggio (comma 3) e l’immissione diretta delle acque meteoriche nelle acque sotterranee (comma 4)”. E, sempre rifacendosi alla sentenza del 2021, conferma che per “acque meteoriche di dilavamento” devono intendersi quelle originate da una precipitazione atmosferica che, non evaporate o assorbite dal suolo, esercitano un’azione di dilavamento della superficie sulla quale scorrono, mentre le “acque di prima pioggia” sono quelle che cadono su una determinata superficie nella fase iniziale della precipitazione atmosferica con effetti di dilavamento maggiormente incisivi in relazione proprio a tale dato temporale ed alle condizioni in cui originariamente versa la superficie raggiunta dalle acque (da ciò anche la distinzione dalle “acque di seconda pioggia”).
Appare, quindi, evidente che, in tal modo, il legislatore si è basato su diverse gradazioni di pericolosità, mettendo al primo posto le acque di prima pioggia con possibili sostanze pericolose (per le quali, in caso di violazione, si prevedono sanzioni penali), seguite dalle acque meteoriche di dilavamento oggetto, comunque di disciplina e controlli regionali (sanzioni amministrative), ed infine dalle acque meteoriche non disciplinate dalle Regioni, che restano “libere”.
Ed è proprio su questo punto che interviene la sentenza in esame, la quale si pone, quindi, il problema di come valutare fattispecie differenti che, come nel caso di specie, non rientrano nelle particolari previsioni dell’art. 113, “dovendosi senz’altro escludere che, in mancanza dei presupposti per l’applicazione di tale disposizione o in assenza di specifiche disposizioni regionali, situazioni che possono anche determinare un serio pericolo di inquinamento debbano intendersi sottratte alle disposizioni del d.lgs. 152\06; e ciò non soltanto perché una simile soluzione interpretativa sarebbe irragionevole, ma anche perché l’art. 113, comma 2, esclude l’assoggettabilità alla disciplina generale di cui alla Parte Terza del decreto soltanto per le acque meteoriche diverse da quelle di cui al primo comma, che, in quanto tali, si presuppone mantengano la loro composizione originaria”.
In sostanza, quindi, la Cassazione ritiene che le acque di dilavamento soggette all’art. 113 (con disciplina regionale) siano quelle in cui si verifichi “un dilavamento conseguente ad un fenomeno meteorologico che, attraverso la normale azione di erosione di una superficie impermeabile, determini la commistione delle acque piovane con polveri, detriti normalmente presenti sul suolo”, mentre, allorquando vengano a contatto con sostanze inquinanti o pericolose, esse “perdono la loro originaria consistenza divenendo sostanzialmente il mezzo attraverso il quale altre sostanze vengono veicolate verso un determinato corpo ricettore, quali un mero componente di un refluo di diversa natura oppure un elemento di diluizione di altre sostanze ma, certamente, non possono essere più considerate come semplici acque meteoriche di dilavamento”.
E pertanto ad esse non si applica l’art. 113 ma la disciplina generale su scarichi e rifiuti, con gli obblighi e le sanzioni previsti per scarichi di acque reflue industriali, se c’è scarico, ovvero quelli relativi ai rifiuti se si tratta di immissione diversa.
Trattasi, cioè della stessa conclusione cui la Suprema Corte era giunta nel 2021, quando aveva precisato che “esulano dalla nozione di acque meteoriche o di prima pioggia le acque piovane che, una volta cadute per terra ed oggetto di convogliamento anche per effetto della naturale pendenza del terreno, siano entrate in contatto con sostanze o materiali inquinanti giacenti sulla superficie del terreno in quanto frutto del processo produttivo in corso presso lo stabilimento ove le acque meteoriche sono raccolte; in tale caso, infatti, ma solo in tal caso, dette acque debbono essere qualificate come reflui industriali ai sensi dell’art. 74, comma 1, lettera h), del dlgs n. 152 del 2006, e, pertanto, il loro indiscriminato convogliamento verso il corpo recettore, in assenza di un loro preventivo trattamento volto alla purificazione dagli agenti inquinanti, integra gli estremi del reato di cui all’art. 137 del dlgs n. 152 del 2006”.
Più precisamente, quindi, se vengono immesse nell’ambiente tramite <<scarico>>, e cioè, secondo costante giurisprudenza, tramite immissione (anche se soltanto periodica, discontinua o occasionale) effettuata a mezzo di condotta, tubazioni, o altro sistema stabile di collegamento, ci si trova di fronte ad uno scarico di acque reflue industriali con tutti gli obblighi e le sanzioni in tema di autorizzazione e limiti da rispettare, previsti dalla parte terza del TUA, mentre, qualora manchino i requisiti per lo scarico, e cioè manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore, si applica la distinta disciplina sui rifiuti di cui all’art. 256 del TUA10.
Conclusione, a nostro avviso, totalmente condivisibile.
- Cass. pen., sez. 3, 1 giugno 2022 (dep. 20 settembre 2022) n. 34630, Ornani, pubblicata in questo numero della rivista
- CGCE, sesta sezione, 11 settembre 2003, Avestapolarit Chrome Oy, n. C-114/01. In dottrina ci permettiamo rinviare, da ultimo, anche per richiami, al nostro Diritto penale ambientale, Pacini, Pisa 2022, pag. 119 e segg.
- In proposito, oltre al precedente citato in sentenza, cfr. Cass. pen., sez. 3, c.c. 29 ott. 2008, n. 45463 , Marinangeli, ID., 31 marzo 2011, n. 25193, Locatelli, ID., 2 maggio 2013, n. 26405, Pomponio, tutte in www.lexambiente.it, secondo cui <<la esclusione … deve essere letta secondo una interpretazione di stretto diritto, trattandosi di una eccezione alla regola generale sulla gestione dei rifiuti; detta deroga è limitata ai prodotti derivanti dalla attività estrattiva, che rimangono disciplinati dalle leggi speciali in materia di miniere, cave e torbiere. Sono pertanto, esclusi dalla normativa in materia di rifiuti solo i materiali derivati dallo sfruttamento di cave, che restino, però, entro il ciclo produttivo della estrazione e della connessa pulitura, non potendosi confondere l’attività della cava con la lavorazione successiva dei materiali; qualora si esuli dal ciclo estrattivo, gli inerti provenienti dalla cava, devono considerarsi rifiuti.>>.
- DE FALCO, La disciplina giuridica delle acque meteoriche, in www.industrieambiente.it, 2007, premette che “se si volesse portare un esempio della complessità e della inadeguata chiarezza della normativa ambientale, potrebbe certamente farsi riferimento alla disciplina delle acque meteoriche e, all’interno di essa, alla disciplina delle acque meteoriche di dilavamento”
- Si rinvia per una prima analisi storica di normativa, dottrina e giurisprudenza al nostro Acque meteoriche e scarichi industriali; a che punto siamo? in www.industrieambiente.it 2013, con relativi richiami↩︎
- In dottrina, cfr., anche per citazioni e richiami, il nostro Acque meteoriche e scarichi industriali 2015: per la Cassazione tutto da rifare, in Ambiente e sicurezza sul lavoro, 2015, n. 4, pag. 58 e ss., nonché Acque meteoriche di dilavamento: la Cassazione tentenna, in www.lexambiente.it, 5 giugno 2015 ove ci auguravamo che la Suprema Corte dicesse presto, se necessario anche a sezioni unite, una parola definitiva.↩︎
- Cass. pen., sez. 3, 24 febbraio 2021 (dep. 23 marzo 2021), n. 11128, Azzalini, in www.lexambiente.it, 24 marzo 2021, la quale significativamente evidenzia preliminarmente la opportunità di “prendere nuovamente in considerazione la questione relativa alla disciplina applicabile alle acque meteoriche di dilavamento anche in ragione delle diverse posizioni assunte, nel tempo, dalla giurisprudenza di questa Corte”.
- Ci permettiamo, in proposito, di rinviare al nostro Acque meteoriche e acque reflue industriali:la Cassazione si «consolida», in www.osservatorioagromafie.it, giugno 2021
- Art. 113 d.lgs. 152/06 Acque meteoriche di dilavamento e acque di prima pioggia <<1. Ai fini della prevenzione di rischi idraulici ed ambientali, le regioni, previo parere del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, disciplinano e attuano: a) le forme di controllo degli scarichi di acque meteoriche di dilavamento provenienti da reti fognarie separate; b) i casi in cui può essere richiesto che le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa l’eventuale autorizzazione. 2. Le acque meteoriche non disciplinate ai sensi del comma 1 non sono soggette a vincoli o prescrizioni derivanti dalla parte terza del presente decreto. 3. Le regioni disciplinano altresì i casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici. 4. È comunque vietato lo scarico o l’immissione diretta di acque meteoriche nelle acque sotterranee>>
- Cass. pen., sez. 3, 6 febbraio 2019 n. 5813 in www.lexambiente.it, 25 febbraio 2019 (giurisprudenza costante). Sulla distinzione tra scarichi e rifiuti liquidi, si rinvia, per approfondimenti e richiami, al nostro Diritto penale ambientale, cit., pag. 132 e segg.