Le concessioni costitutive di diritti edilizi
(Commento assai critico a Cons. Stato, Sez. II, n. 2371/2023)

di Massimo GRISANTI

Con la sentenza in commento n. 2371 pubblicata il 7.3.2023 la II^ Sezione del Consiglio di Stato intende consolidare quell’orientamento in tema di SCIA edilizia illegittima ed esercizio di poteri ex art. 21 nonies L. 241/1990, avversato in particolare da talune pronunce del TAR Veneto, che afferma la natura di titolo abilitativo a SCIA e Permessi di costruire che violano le sostanziali norme edilizie e urbanistiche.
Nel caso portato all’esame del Consiglio di Stato il ricorrente si doleva del fatto che il Comune di Castelfranco Veneto, nella fase di ottemperanza al giudicato, si era rifiutato di ingiungere la demolizione di un edificio demolito e ricostruito, a mezzo SCIA, in violazione delle norme urbanistiche.
I Giudici di Palazzo Spada hanno affermato di condividere l’orientamento di altri collegi del Consiglio di Stato che vogliono come l’art. 19, comma 6-ter, della L. 241/1990 sia stato letto dalla Corte costituzionale, nella propria sentenza n° 45/2019, nel senso che la pubblica amministrazione abbia il potere di decidere se sia opportuno o meno conservare l’atto edilizio o la sua efficacia, a prescindere dalla tipologia di violazione che lo affligge.
A ben vedere il Collegio giudicante opera un’interpretazione atomistica della sentenza n° 45/2019 della Consulta resa nell’ambito della quarantennale giurisprudenza della Corte, perché la sgancia da altre pronunce fondamentali con le quali il Giudice delle Leggi ha statuito:
    a) “… che la concessione a edificare non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell’antica licenza, avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto, nei limiti in cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza”, così nella sentenza n° 5/1980;
    b) “… Appare con altrettanta chiarezza che “il proprietario dell’area o chi abbia titolo” in suo luogo, come testualmente si esprime la legge, ha “diritto” di edificare, se la costruzione risulta rispettosa della disciplina urbanistica, e che il provvedimento dell’autorità che facoltizza l’esercizio del “diritto” in parola – prescindendo per ora dal nomen juris datogli dal legislatore – è un atto dovuto ed irrevocabile”, così nella sentenza n° 127/1983;
    c) “… è sufficiente, al riguardo, rilevare che gli edifici di cui si tratta, suscettibili di interventi, sono quelli legittimamente esistenti, e, ovviamente, devono essere regolarmente assentiti (fin dall’origine o con valido condono in sanatoria), dal punto di vista urbanistico, non potendo trattarsi di costruzioni abusive …”, così nella sentenza n° 529/1995, dalla quale è ricavabile de plano la definizione di abuso edilizio, il quale è l’opera venuta ad esistenza in violazione della disciplina urbanistico-edilizia ancorché per lo stesso sia stato rilasciato un titolo abilitativo edilizio che, all’evidenza, è invalido, non produttivo di effetti giuridici, perché attribuisce diritti edificatori inesistenti;
    d) che ogni atto giuridico che “… consente di regolarizzare ex post, rendendole legittime, opere che, al momento della loro realizzazione, sono in contrasto con gli strumenti urbanistici di riferimento, da(ndo) corpo, in definitiva, ad una surrettizia ipotesi di sanatoria, in linea con iniziative legislative analoghe puntualmente sanzionate da questa Corte (sentenze n. 233 del 2015, n. 209 del 2010, n. 290 e n. 54 del 2009)”, così nella sentenza n° 73/2017.
A tacere del fatto che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, quindi in funzione nomofilattica, nella sentenza n° 8/2017 ha affermato, a contrariis, che le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi non trovano applicazione nel caso di ritiro di titoli edilizi qualora siano presenti indici normativi in tal senso. E tali indici esistono, se li si vogliono leggere, nell’art. 27 d.P.R. 380/2001 laddove è scritto, emendamento apportato in sede di emanazione del terzo condono edilizio con l’intento di rafforzare la lotta all’abusivismo edilizio, che il dirigente dell’Ufficio tecnico comunale “… in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi”. Quindi anche per il caso in cui le opere siano il frutto di illegittime SCIA o permessi di costruire perché non rispettose della sostanziale disciplina urbanistico-edilizia.
Solo l’ipocrisia già condannata duemila anni or sono nel Vangelo – “… Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno …”, Matteo 5, 17-37 – impedisce alla luce di penetrare la nebbia che avvolge il fenomeno dell’abusivismo edilizio, a cui portano linfa anche coloro i quali non riescono proprio a sottostare alla legge.
La Corte costituzionale ha statuito da oltre quaranta anni che il proprietario ha diritto a costruire solo se quanto progettato è conforme alla disciplina. Ed è per questo che statuì che la concessione edilizia altro non è che la variante onerosa della licenza, ovverosia un accertamento di facoltà preesistenti.
L’orientamento che qui criticò assai, invece, crea provvedimenti amministrativi sconosciuti all’ordinamento – condoni edilizi surrettizi, per utilizzare le espressioni della Corte costituzionale – perché in niente aderendovi – ovverosia esercitando a sproposito l’art. 21 nonies L. 241/1990, così disapplicando l’art. 27 d.P.R. 380/2001 – le SCIA e i permessi illegittimi si differenziano da quelle concessioni costitutive di diritti che l’art. 19 L. 241/1990 – genus della SCIA edilizia – espunge dall’ambito di applicazione delle disposizioni di semplificazione dell’attività amministrativa.
In parole semplici, la sanatoria giurisprudenziale uscita dalla porta rientra dalla finestra. Sempre per mano di operosi giudici amministrativi, i quali, all’apparenza, sembra non stia a cuore il problema della corruzione amministrativa, visto che non vi è chi non veda che il ritardo della pubblica amministrazione nell’esaminare le SCIA potrebbe anche essere non incolpevole.
Concludendo, il Consiglio di Stato è saldamente sulla via della creazione per via pretoria delle concessioni edilizie costitutive di diritti edificatori, quali essi sono i provvedimenti con i quali la pubblica amministrazione, in asserita applicazione dell’art. 21 nonies L. 241/1990, consente il mantenimento in essere di opere mai autorizzabili.


Pubblicato il 07/03/2023

N. 02371/2023REG.PROV.COLL.

N. 09834/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9834 del 2022, proposto dalla signora Veronica Pavan, rappresentata e difesa dagli avvocati Giulia Corona e Aldo Laghi, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio del secondo in Treviso, viale Cesare Battisti, n. 1,

contro

il Comune di Castelfranco Veneto, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea Manzi, Primo Michielan, Andrea Michielan e Francesca Michielan, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Andrea Manzi in Roma, via Alberico II, n.33,

nei confronti

della Società Antares s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Enrico Gaz, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e della Società Cecchin s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio,

per l’ottemperanza

della sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 31 marzo 2021, n. 2712, avente ad oggetto il diniego di autotutela decisoria su d.i.a. edilizia.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Castelfranco Veneto e della Società Antares s.r.l.;

Visto l’art. 114 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 14 febbraio 2023 il Cons. Antonella Manzione e uditi per le parti l’avvocato Alberto Tucci, in sostituzione dell’avvocato Giulia Corona, gli avvocati Primo Michielan, Andrea Michielan e Andrea Manzi e l’avvocato Enrico Gaz;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.Con il ricorso in ottemperanza di cui in epigrafe la signora Veronica Pavan, proprietaria di un edificio residenziale di quattro piani nel Comune di Castelfranco Veneto, ubicato a nord del fabbricato della Società Antares s.r.l. (d’ora in avanti solo la Società o Antares), agiva per la dichiarazione di nullità (per violazione del giudicato) del provvedimento prot. n. 0046333, trasmesso a mezzo p.e.c. il 5-6 ottobre 2021, di rigetto dell’istanza di autotutela ex art. 21 novies della l. n. 241 del 1990, (ri)adottato in asserita esecuzione della sentenza del T.a.r. per il Veneto del 24 ottobre 2017, n. 944, confermata in appello, che aveva annullato i precedenti, di analogo tenore.

1.1. Quanto detto in riassunzione ex art. 15, comma 4, c.p.a., dell’originario giudizio promosso innanzi al medesimo T.a.r. per il Veneto, che con ordinanza della sez. II del 5 dicembre 2022, n. 1860, in accoglimento dell’eccezione sollevata dalla Società, ha declinato la propria competenza sull’assunto che «nel caso di specie, la nominata pronuncia del Consiglio di Stato 2712/2021, pur confermando il dispositivo di annullamento degli atti già disposto in primo grado per i medesimi vizi ravvisati dal T.A.R., reca un contenuto conformativo diverso, perché ordina al Comune di Castelfranco Veneto di riesaminare l’istanza della ricorrente non già con l’esercizio del potere repressivo vincolato individuato dall’articolo 19, comma 6 bis della legge 241/1990, ma con la verifica dei presupposti dell’annullamento d’ufficio disciplinato dall’articolo 21 nonies della medesima legge, costituente potere di carattere discrezionale».

2. In punto di fatto va ulteriormente precisato che la vicenda ha preso l’avvio a seguito della presentazione da parte di Antares di un progetto di “demo-ricostruzione” con ampliamento, sulla base delle possibilità riconducibili al c.d. “Piano casa” -l.r. 8 luglio 2009, n. 14, successivamente modificata- di un fabbricato risalente agli anni ’50, esso pure sviluppato su quattro piani fuori terra più un seminterrato, a destinazione residenziale, in una zona connotata dalla presenza di edifici per lo più su tre piani, ad eccezione di quello della ricorrente. L’esecuzione dell’intervento, affidata alla ditta Cecchin s.r.l., veniva legittimata mediante l’inoltro di una serie di d.i.a., per lo più in variante delle precedenti (22 luglio 2014; 24 settembre 2015; 9 novembre 2015; 15 dicembre 2015; 19 febbraio 2016 e 15 marzo 2016), cui la signora Pavan aveva reagito presentando, a far data dal 1 luglio 2015, cinque denunce/istanze finalizzate a mettere in luce in particolare la violazione del regime delle altezze, e conseguentemente invocando l’adozione dei provvedimenti ripristinatori di cui all’art. 19, comma 6-ter, della l. n. 241 del 1990.

2.1. Il T.a.r. per il Veneto, con sentenza n. 944 del 2017 ha dichiarato illegittimo il provvedimento del responsabile del servizio in data 22 ottobre 2015 con cui è stato deciso di non intervenire sull’attività edilizia avviata da Antares in quanto basato su un’errata interpretazione dell’art. 9, comma 8-bis, della richiamata l.r. n. 14 del 2009: come successivamente confermato dalla Regione stessa con delibera di Giunta del 29 novembre 2016, il parametro cui fare riferimento per il calcolo della percentuale massima consentita dalla norma in deroga al d.m. n. 1444 del 1968, va riferito all’altezza dell’edificio oggetto dell’intervento e non di quello più elevato ubicato nella stessa zona, erroneamente applicato dalla Società, con l’avallo del Comune. Da qui l’ordine a quest’ultimo di «adottare i necessari provvedimenti di ripristino riguardo il rispetto dell’altezza». Ciò in quanto: «Le costruzioni difformi dalle norme urbanistiche costituiscono abuso edilizio, per il quale il comune ha invece l’obbligo di esercitare i propri poteri di vigilanza e di repressione, come riconosciuto dal comma 6-bis dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, secondo cui nei casi di scia in materia edilizia restano ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e dalle leggi regionali».

2.2. Il Consiglio di Stato, chiamato a decidere sugli appelli, previamente riuniti, avverso ridetta sentenza autonomamente presentati dal Comune di Castelfranco Veneto e dalla Antares, preso atto della ritenuta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata incidentalmente con riferimento alla legge regionale in contestazione (Corte cost., 21 febbraio 2020, n. 30), ne ha condiviso le considerazioni circa la corretta lettura da dare all’art. 9, comma 8-bis, della l.r. n. 14 del 2009, sia dal punto di vista della formulazione letterale che da quello della sua affermata natura eccezionale, che ne esclude l’applicazione analogica per principio generale, alla luce peraltro dell’interpretazione autentica fornita in proposito dalla Regione. Ha tuttavia ricordato come la sollecitazione dei poteri di controllo della p.a. da parte del terzo declinata al comma 6-ter dell’art. 19 è idonea a fondare l’obbligo di provvedere con un dispiegamento senza limiti dei poteri repressivi quando interviene prima del termine di trenta giorni previsti dal combinato disposto dei commi 3 e 6-bis della medesima norma, legittimando successivamente solo l’esercizio del potere di autotutela nel termine massimo stabilito dall’art. 21-novies, come ormai chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 45 del 2019.

3. Va ancora ricordato che il Comune di Castelfranco Veneto ha proposto avverso tale sentenza ricorso avanti la Corte di Cassazione ex art. 110 c.p.a., ritenendo sussistente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sotto il profilo dello “sconfinamento” nella sfera riservata al potere legislativo regionale in materia di altezza dei fabbricati e a quello regolamentare comunale, avuto riguardo a specifiche zone territoriali omogenee di completamento (cd. “ZTO B”) edificate.

3.1. Le Sezioni unite della Cassazione, con ordinanza n. 20798 del 28 giugno 2022, hanno dichiarato il ricorso inammissibile, stante che «dalla lettura della sentenza impugnata, è agevole rilevare che il Consiglio di Stato non ha creato una norma ad hoc, ma attraverso l’attività interpretativa, costituente proprium della funzione giurisdizionale attribuita, ha ricostruito il quadro normativo e la regola conseguente applicabile al caso sottoposto al suo esame». Tale regola è stata poi ravvisata, in verità attingendo alla ricostruzione sistematica del primo giudice, nella sostanziale inefficacia ope legis delle d.i.a. o s.c.i.a. riferite ad opere realizzate in difformità dalle norme urbanistiche. In tali ipotesi, infatti, sussiste un «abuso edilizio per il quale il Comune ha, invece, l’obbligo di esercitare i propri poteri di vigilanza e di repressione, come riconosciuto dal comma 6-bis dell’art.19 della legge n.241 del 1990, secondo cui nei casi di SCIA, in materia edilizia, restano ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistica-edilizia, alle responsabilità e sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.380 e dalle leggi regionali».

4. Senza attendere l’esito del ricorso in Cassazione, e precisamente in data 7 aprile 2021, la signora Pavan diffidava il Comune a dare seguito alla pronuncia del Consiglio di Stato, ingiungendo la demolizione della parte di edificio di Antares in contrasto con la disciplina regionale sulle altezze. A ciò faceva seguito l’atto prot. n. 46333, trasmesso a mezzo p.e.c. il 5-6 ottobre 2021, preceduto da comunicazione di avvio del procedimento, di cui oggi si invoca la nullità per elusione del giudicato, ovvero, in denegata ipotesi, la illegittimità per violazione delle norme sul potere di autotutela in materia di procedimenti dichiarativi abilitanti un’attività edilizia.

4.1. In particolare la nullità sarebbe da ascrivere al contenuto del provvedimento, che anziché ripristinatorio dello stato dei luoghi, finisce per tollerare indebitamente un intervento non conforme alle norme urbanistiche (motivo sub I), attingendo alla legislazione regionale sopravvenuta, come tale inapplicabile, di fatto “sanando” l’abuso in dispregio finanche della regola della doppia conformità, nonché confondendo l’interesse pubblico con le difficoltà tecniche di demolizione, al più eccepibili dal privato in fase esecutiva, infine tutelando un inesistente affidamento della Società, ben conscia dei dubbi di legittimità delle proprie opere (motivo sub II). Le censure finalizzate all’annullamento del provvedimento, previa conversione del rito ex art. 32, comma 2, c.p.a., sono così sintetizzabili:

a) violazione degli artt. 3, 10, 19, commi 3, 4 e 21-novies della l. n. 241 del 1990, dovendo la tempistica delle denunce (la prima delle quali data 1 luglio 2015) essere valutata in relazione allo sviluppo in concreto della vicenda, che nasce sì da una d.i.a. del 22 luglio 2014, ma sarebbe stata percepita nella sua lesività solo a partire dal giugno 2015, in considerazione delle numerose battute d’arresto subite dal procedimento, già avviato anche in passato (d.i.a. del 2012 e poi del marzo 2014) senza alcun esito. Il provvedimento inoltre si baserebbe su una rappresentazione fattuale non corrispondente al vero, laddove riconduce la possibilità di superamento dell’altezza massima non solo all’art. 9, comma 8-bis, della l.r. n. 14 del 2009, ma anche alla disciplina comunale che nelle “ZTOB”, quale quella di cui è causa, consente di raggiungere i m. 12,50 (motivo sub 3);

b) violazione delle medesime norme di cui al punto precedente sotto altro profilo, ovvero per essere stata la riedizione del potere effettuata non sulla base delle regole del tempus regit actum, ma attingendo alle sopravvenienze normative, in particolare l’art. 11, comma 3, della l.r. n. 11 del 2019, che consentirebbe l’utilizzazione della capacità edificatoria ordinaria, prevista per le “ZTOB” dallo strumento urbanistico comunale vigente (motivo sub 4);

c) violazione degli artt. 34 e 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, oltre che dell’art. 93 della l.r. n. 61 del 1985, avendo il Comune incluso tra gli interessi pubblici valutati quello (della Società) a non demolire l’opera, così da ricondurvi la possibilità c.d. di fiscalizzazione dell’abuso edilizio, che attiene invece alla fase esecutiva della sanzione. Il tutto peraltro facendo leva sul contenuto di una perizia commissionata allo scopo, significativamente rubricata «Parere in ambito strutturale e sismico sulla sussistenza dei presupposti previsti dall’art. 34 e 38 DPR 380/2001 per l’edificio residenziale in via Romanina – Castelfranco Veneto » (motivo sub 5);

d) violazione della l. n. 241 del 1990 e eccesso di potere sotto il profilo della perplessità e dello sviamento, stante che il provvedimento esclude l’esistenza di un pregiudizio in termini di visuale e ombreggiamento sulla base di un’ulteriore perizia, pure richiamata per relationem, a firma di altro professionista, avente ad oggetto l’«Analisi di visuale ed ombreggiamento relativo a 3 fabbricati situati nel centro storico di Castelfranco Veneto», con ciò rimettendo indebitamente in discussione quanto ormai acclarato con efficacia di giudicato dal T.a.r. per il Veneto nella sentenza n. 944 del 2017, che sull’esistenza di tale pregiudizio ha fondato il riconoscimento dell’interesse ad agire, senza che sul punto vi sia stata in appello alcuna contestazione ex adverso (motivo sub 6).

4.2. Ha chiesto altresì la condanna del Comune di Castelfranco Veneto al risarcimento dei danni subiti e subendi in conseguenza della violazione/elusione del giudicato ovvero dell’eventuale ritenuta impossibilità di esecuzione ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., nella misura accertata in causa, o, in subordine, intimando al Comune di formulare apposita proposta ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a.

5. Si sono costituite in giudizio la Società Antares e il Comune di Castelfranco Veneto per resistere al ricorso, versando in atti copiosa documentazione.

6. Con memoria del 27 gennaio 2023 la difesa civica, premessa la inammissibilità del ricorso per come già presentato innanzi al T.a.r., in quanto cumula il petitum tipico del giudizio di ottemperanza con quello di un giudizio di cognizione sugli interessi coinvolti non trattati, ha ribadito la correttezza dell’operato del Comune. L’Amministrazione, infatti, nel riesercitare il potere di autotutela, avrebbe utilizzato il coefficiente di discrezionalità amministrativa che comunque le derivava dagli artt. 19, comma 6-ter e 21- novies della l. n. 241 del 1990. Essa, cioè, diversamente da quanto effettuato con l’atto annullato, si sarebbe stavolta fatta carico di valutare i requisiti c.d. sensibili, comparando tutti gli interessi in gioco, e non solo quello al mero ripristino della legalità (già discendente dalla prima pronuncia “demolitoria” del 2017), tra i quali in particolare l’affidamento maturato nel segnalante sul consolidamento degli effetti delle proprie d.i.a. Ha quindi insistito sulla coerenza dell’intervento con la finalità generale delle scelte urbanistiche della zona, ripercorse in prospettiva diacronica sin dagli albori del riordino pianificatorio, come peraltro valorizzate dalla legislazione regionale sul “piano casa”, il cui recente mutamento conferma la volontà di agevolare ridette tipologie di riqualificazioni. A tale proposito ha rivendicato la possibilità attuale di “recupero” del progetto convalidandolo o comunque regolarizzandolo, sia in via ordinaria per la sopravvenienza del nuovo Regolamento edilizio comunale (art.1, punti 27-28), adottato in adeguamento al Regolamento edilizio tipo del 2019 (cui si riferisce il punto B 6.3 della parte b) delle premesse dell’atto censurato), nonché dell’art.6 della l.r. n.19 del 30 giungo 2021, secondo cui nel contesto di interventi di ristrutturazione edilizia sostitutiva e di nuovi interventi costruttivi «non è necessario eliminare le opere abusive»; sia in via straordinaria, applicando l’art.11 della l.r. n.14 del 2019, che in ipotesi sovrapponibili a quella di cui è causa consente il cumulo delle premialità ordinarie e straordinarie. In sintesi, da un lato, avendo il Consiglio di Stato modificato l’effetto conformativo della sentenza il nuovo atto emanato non può essere considerato in violazione o elusione del giudicato, giusta la mancanza di un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, il cui contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza da eseguire; dall’altro, i presunti vizi sarebbero esclusi dalle tre perizie tecniche (una redatta a cura della Società) che sorreggono la disamina dell’interesse pubblico al mantenimento dell’opera, peraltro nella mutata cornice giuridica. Quanto alla richiesta risarcitoria, essa, prima ancora che infondata, sarebbe inammissibile per mancanza assoluta di principio di prova del danno subito.

7. Anche la Società Antares ha eccepito la inammissibilità del ricorso per violazione degli artt. 113 e 114 c.p.a., evidenziando come in maniera del tutto impropria la ricorrente continui ad attingere i contenuti dell’effetto conformativo dalla sentenza del T.a.r. per il Veneto, obliando così che quella del Consiglio di Stato l’ha radicalmente riformata sul punto. Da qui la necessità che il provvedimento adottato dal Comune fosse gravato con l’ordinario ricorso di annullamento, non potendo veicolarsi in sede esecutiva la sostanziale censura di vizi, profili di annullamento e doglianze che non trovano nel decisum alcun vincolo. Diversamente opinando, si avrebbe una impropria “strumentalizzazione” del rito (erroneamente camerale) per ottenere un accesso semplificato ed accelerato del relativo ricorso. Nel merito, essendo le denunce della controinteressata tardive rispetto al termine per il controllo in via ordinaria (30 giorni), l’unico effetto che potevano sortire era l’attivazione del potere di autotutela, vincolato nell’an, ma non nel quomodo. Il che sarebbe esattamente quanto effettuato dal Comune di Castelfranco Veneto. La sentenza di annullamento del primo atto espressivo di tale potere ha pertanto comportato l’obbligo per l’Amministrazione di riesercitarlo motivando adeguatamente, ma non ne ha inibito (né poteva farlo) i tratti liberi dell’azione, a maggior ragione essendo mutata la realtà fattuale e giuridica per il decorso di un tempo prolungato tra l’adozione del provvedimento annullato, la sentenza di annullamento e la riedizione del potere.

8. Sono seguite memorie di replica di tutte e tre le parti, per ribadire le rispettive argomentazioni.

9. La ricorrente in particolare ha invocato a supporto delle proprie i contenuti dell’ordinanza n. 20798 del 2022 della Cassazione, laddove ritiene sostanzialmente identico, in quanto riveniente dal quadro normativo, l’effetto conformativo esplicitato nei due gradi di giudizio, sicché il Consiglio di Stato si sarebbe «limitato, con la sentenza impugnata, a rigettare gli appelli (proposti dal Comune di Castelfranco Veneto e dalla Società nei cui confronti era stata rilasciata la DIA/SCIA) proposti avverso la prima decisione (che ha confermato integralmente condividendola), senza svolgere, neppure in motivazione, alcuna argomentazione relativamente all’ordine rivolto dal Tribunale amministrativo regionale al Comune di adottare i necessari provvedimenti di ripristino riguardo il rispetto dell’altezza». L’ordine di ripristino, quindi, non fatto oggetto di censura in appello né da parte del Comune né da parte di Antares, sarebbe intrinsecamente presupposto anche nella sentenza di appello, in ossequio al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

10. Dal canto suo la Società ha inteso attribuire a tali affermazioni, peraltro rese e vincolanti al limitato fine del regolamento di giurisdizione, la mera valenza di ricostruzione storica degli antecedenti processuali della vicenda.

11. Alla camera di consiglio del 14 febbraio 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

12. Le censure con cui la ricorrente lamenta i vizi di violazione o elusione del giudicato sono infondate.

13. Il Collegio ritiene necessarie alcune precisazioni preliminari al fine di correttamente perimetrare la complessa cornice giuridica sottesa alla vicenda, che lambisce l’annosa tematica dell’estensione della tutela del terzo controinteressato rispetto ad un intervento edilizio oggetto di procedimento dichiarativo, per come interpretata rispettivamente dal T.a.r. per il Veneto e dal Consiglio di Stato, evidenziandone i punti di contatto e quelli di divergenza. Ciò al fine di compararla con la lettura datane dalla ricorrente per sostenere la natura elusiva del provvedimento in contestazione.

14. Va innanzi tutto ricordato nuovamente che il ricorso consegue a riassunzione giusta l’ordinanza con la quale il T.a.r. per il Veneto, preventivamente adito, ha declinato la propria competenza.

14.1. Le regole dettate sul riparto di competenza sull’ottemperanza in caso di sentenza di primo grado confermata in appello sono contenute nell’art. 113, comma 1, c.p.a., che ha codificato affermazioni già consolidate nella giurisprudenza precedente (v. Cons. Stato, A.p. 11 giugno 2001, n. 4). La dizione «stesso contenuto dispositivo e conformativo» utilizzata dalla norma per radicare la competenza nel giudice di primo grado, è stata da subito letta in senso molto ampio, al fine di relegare quella del Consiglio di Stato ad un ambito del tutto residuale, così scongiurando il pericolo di duplicazione di ricorsi, con conseguente dispendio di risorse giudiziarie.

Mentre tuttavia l’identità del «contenuto dispositivo» si può agevolmente escludere ogni qualvolta sussista un «indice testuale esplicito contenuto nel dispositivo della sentenza» (Cons. Stato, sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 612), quale l’utilizzo di espressioni come l’accoglimento in parte o il rigetto con diversa motivazione, assai più complesso appare l’esame dell’effetto conformativo, quale precipitato pratico del percorso ermeneutico seguito. E’ evidente, infatti, che non può essere attribuito rilievo a qualsivoglia modifica o ampliamento argomentativo, stante che il giudice di appello, chiamato a motivare ex novo sulla base di censure proposte avverso la sentenza di primo grado che non devono essere meramente ripetitive di quelle iniziali, per definizione aggiunge un quid pluris alla decisione impugnata. Nessun problema, dunque, si pone laddove pertanto la parte dispositiva, che nel giudizio amministrativo si connota, come noto, per la sua particolare stringatezza, contenga chiari indici testuali della propria volontà di distaccarsi, in maniera più o meno profonda, dall’iter argomentativo seguito in prime cure; al contrario, se essa si risolve in una statuizione di rigetto sic et simpliciter, può per regola ipotizzarsi identità di contenuto tra i provvedimenti di primo e secondo grado, tale da radicare la competenza per l’ottemperanza presso il T.a.r., salvo vagliare in maggior dettaglio le parti motivazionali, al fine di valutare se invece sussista una modificazione sostanziale del dictum giudiziario quale ricavabile dalla sentenza di primo grado, non riconducibile al mero arricchimento del medesimo percorso esegetico (cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 febbraio 2020, n. 871; sez. V. 1 febbraio 2022, n. 698).

14.2. Tale approccio risponde d’altro canto alla ratio delle regole sulla competenza funzionale per l’azione di ottemperanza così come poste dal codice del processo amministrativo, ovvero quella di ottimizzare le risorse mediante il pieno collegamento tra cognizione ed esecuzione, stante che il giudice che ha posto un obbligo conformativo ne sarà anche il miglior interprete “naturale” (v. Cons. Stato, sez. V, 21 settembre 2020, n. 5485).

15. Il Collegio ritiene tale premessa già di per sé utile ad escludere che la scelta della parte di “accettare” ridetto spostamento di competenza, prestando acquiescenza all’ordinanza n. 1860 del 2022 del Tribunale di prime cure, pregiudichi lo scrutinio nel merito della propria prospettazione.

Vero è, infatti, che la motivazione di tale provvedimento, che costituisce, in coerenza con il quadro come sopra ricostruito, l’interpretazione autentica delle affermazioni del giudice che le ha espresse, ha sinteticamente stigmatizzato il differente percorso ricostruttivo, cui consegue inevitabilmente un differente approdo precettivo laddove afferma che il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2712/2021, « pur confermando il dispositivo di annullamento degli atti già disposto in primo grado per i medesimi vizi ravvisati dal T.A.R., reca un contenuto conformativo diverso, perché ordina al Comune di Castelfranco Veneto di riesaminare l’istanza della ricorrente non già con l’esercizio del potere repressivo vincolato individuato dall’articolo 19, comma 6-bis della legge 241/1990, ma con la verifica dei presupposti dell’annullamento d’ufficio disciplinato dall’articolo 21- nonies della medesima legge, costituente potere di carattere discrezionale». Ma il punto essenziale della controversia risiede proprio nelle conseguenze dell’enfatizzazione del potere di vigilanza richiamato nell’art. 19, comma 6-bis, e non nel successivo comma 6-ter, che al di là del dato testuale non potrebbe mai essere pretermesso, secondo la tesi della ricorrente, laddove si versi in quella specifica ipotesi di autotutela che consegue all’avvenuto violazione di una norma urbanistica.

16. Il Collegio ritiene che lo sfasamento ricostruttivo da parte della ricorrente sia da ravvisare nella sostanziale neutralizzazione del punto essenziale della divergenza ricostruttiva, che risiede non nell’analisi dei poteri di controllo, d’ufficio o su istanza/denuncia di parte, dell’Amministrazione sulla d.i.a./s.c.i.a., a monte, ma nelle loro conseguenze, a valle, una volta che sia stato accertato, a maggior ragione all’esito di un procedimento giurisdizionale, un sostanziale abuso edilizio.

16.1. Nel caso di specie, infatti, nucleo comune ad entrambe le sentenze è la stigmatizzazione come erronea della lettura data dal Comune all’art. 9, comma 8-bis della l.r. n.14 del 2009, che ha “assecondato” l’intervento realizzato da Antares in contrasto con le possibilità ampliative e derogatorie ricavabili dalla norma, ovvero calcolando la percentuale del 40 % fruibile sull’altezza dell’edificio di controparte, in quanto più alto nella zona, anziché sul fabbricato in ristrutturazione. In maggior dettaglio, il Consiglio di Stato ha chiarito come «Nel tradurre l’opzione ermeneutica in relazione al progetto in esame, dall’analisi degli atti di causa emerge come l’edificio esistente fosse alto 7,14 metri, con la conseguenza che l’entità della deroga al limite delle altezze previste dal piano casa debba reputarsi pari a metri 2,86 ossia al 40 per cento di 7,14, da sommarsi allo stesso edificio esistente; e non, come disposto dagli atti impugnati in prime cure, all’altezza dell’edificio circostante più alta, che è risultata pari a metri 11,57».

17. Per comprendere il comportamento del Comune e l’esatta portata delle due sentenze, occorre a questo punto richiamare brevemente la disciplina dei controlli conseguenti a procedimenti dichiarativi in ambito edilizio.

18. Il termine entro cui i controinteressati possono produrre osservazioni sollecitando interventi dell’amministrazione - senza il quale si avrebbe un potere temporalmente illimitato e in bianco, in manifesto contrasto con il principio di legalità-tipicità - è correlato alle verifiche cui la stessa è chiamata ex art. 19, da esercitarsi, in materia edilizia, entro i trenta giorni decorrenti dalla data di presentazione della s.c.i.a., ovvero nei successivi 12 mesi (combinato disposto dei commi 3, 4, 6-bis e 6-ter). Segnatamente, l’art. 19, comma 3, attribuisce alla p.a. nel primo, ristretto lasso temporale un triplice ordine di poteri (inibitori, repressivi e conformativi, questi ultimi ormai da preferire, giusta l’inciso «Qualora sia possibile», se del caso sospendendo cautelarmente l’attività). La portata cogente della disposizione, peraltro, è stata di recente rinforzata sanzionando di “inefficacia” i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti adottati dopo la scadenza del termine (art. 2, comma 8-bis della l. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 12, comma 1, lett. a), del d.l. n. 76 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 120/2020). Il successivo comma 4 consente di esercitare tali poteri anche una volta decorso tale termine, ma solo in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies della stessa legge n. 241 del 1990, ovvero secondo le regole generali che governano l’annullamento d’ufficio di atti illegittimi, che impongono la verifica della sussistenza di un interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità, l’effettuazione di un bilanciamento fra gli interessi coinvolti e, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, che non si superino i dodici mesi dall’emanazione dell’atto, nel caso di specie da computare dallo spirare del termine ordinario di controllo di trenta giorni (gli originari diciotto mesi sono stati ridotti agli attuali dodici dal d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2021, n. 108).

18.1. Il comma 6-bis, riferito alla materia edilizia, in linea di principio non contiene alcuna diversa declinazione dei poteri di controllo, salvo ridurre i termini per l’effettuazione di quelli “ordinari” a trenta giorni, secondo il modello poc’anzi ricostruito.

18.1.2. Il comma 6-ter, a sua volta, riconosce al terzo la possibilità di compulsare tali controlli, che tuttavia non si diversificano per tempistica, contenuti e finalità da quelli attivati ex officio, come da ultimo ben chiarito dalla Corte costituzionale (sentenza n. 45 del 2019, già richiamata).

19. E’ ormai consolidato che l’autotutela di cui al comma 4 dell’articolo 19 della legge n. 241/1990 si diversifica per così dire sul piano ontologico dal modello generale declinato dall’art. 21- novies, cui pure rinvia, innanzi tutto per il fatto che non incide su un precedente provvedimento amministrativo, connotandosi pertanto per conseguire ad un procedimento di primo e non di secondo grado, tanto da indurre la dottrina a rivederne finanche la qualificazione definitoria. Inoltre, mentre di regola il potere di autotutela è ampiamente discrezionale nell’apprezzamento dell’interesse pubblico che può imporne l’esercizio e pertanto non coercibile, al punto che la p.a. non ha neanche l’obbligo di rispondere a eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l’esercizio, nel caso di cui all’art. 19, comma 4, della l. n. 241 del 1990, si ritiene che l’Amministrazione abbia l’obbligo di rispondere, sicché la discrezionalità risulta piuttosto relegata alla verifica in concreto della sussistenza o meno dei presupposti di cui all’articolo 21-novies. «Depongono nel senso della doverosità (in deroga al consolidato orientamento secondo cui l’istanza di autotutela non è coercibile), sia l’argomento letterale ‒ segnatamente, la differente formulazione dell’art. 21-nonies rispetto all’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990, il quale ultimo, a differenza del primo, dispone che l’amministrazione “adotta comunque” (e non già semplicemente “può adottare”) i provvedimenti repressivi e conformativi (sempre che ricorrano le ‘condizioni’ per l’autotutela) ‒, sia la lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo» (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2021, n. 5208).

20. Altra e diversa questione è l’individuazione del limite estremo fino al quale possono spingersi le deviazioni dalle ordinarie regole che governano il potere di autotutela rispetto a quelle sopra evidenziate. Pur essendo la questione non rilevante nel caso di specie, essendosi il Comune espresso sulle ragioni del mancato esercizio dell’autotutela, il Collegio ritiene opportuno ribadire la correttezza nell’an di tale scelta, stante che accanto all’obbligo di attivazione, chiaramente desumibile dal dato testuale della norma, si colloca anche un assai più pregnante obbligo di pronuncia, di talché l’Amministrazione è chiamata a motivare non soltanto la scelta di procedere all’annullamento, nell’accezione chiarita con riferimento ai procedimenti dichiarativi, ma anche quella opposta, di non annullare, seppure in presenza di presupposti di illegittimità dell’atto, utilizzando in senso speculare i parametri individuati dal legislatore (la mancanza di interesse pubblico all’annullamento, ovvero la tutela dell’affidamento del soggetto la cui posizione sia stata ampliata dall’atto che si andrebbe ad eliminare).

20.1. Il regime delle tutele accordate al terzo controinteressato in via giurisdizionale (purché, peraltro, si ritiene, egli pure titolare di interesse ad agire in termini di vicinitas per come declinata dall’Adunanza plenaria - 9 dicembre 2022, n. 21- seppure con riferimento all’impugnativa del permesso di costruire) è contenuto nel comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990. La norma, dopo avere affermato che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili, ed avere codificato la ricordata facoltà dello stesso di «sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione», completa il quadro riconoscendogli «esclusivamente» la possibilità, in caso di inerzia, di esperire l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del c.p.a.: il che sottintende appunto un obbligo di pronuncia, ancorché negativa, pur senza indirizzarne i contenuti.

20.2. Si è cercato peraltro di colmare il vuoto di tutela che continua in qualche modo a connotare la posizione del controinteressato (intrinseca finanche nell’utilizzo di ridetta categorizzazione) “ritagliando” una sorta di funzione di accertamento, in verità ad essa estranea, al giudizio demolitorio avverso il diniego di autotutela (emblematica al riguardo la sentenza non definitiva n. 12 del 22 gennaio 2019 con la quale il T.a.r. per l’Emilia Romagna, sezione staccata di Parma, ha sollevato ulteriori dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della l. n. 241 del 1990, dichiarati peraltro inammissibili dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 153 del 20 luglio 2020).

21. Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto modo di esprimersi sulla questione, peraltro in relazione ad una fattispecie analoga a quella da cui è scaturito l’odierno giudizio di ottemperanza, che il primo giudice aveva risolto nel senso della inammissibilità del ricorso proprio sull’assunto che il Comune aveva l’obbligo di attivarsi, ma non di motivare la propria scelta negativa sull’autotutela. Dopo aver affermato la non decisività, ai fini della controversia al suo esame, della questione se il Comune fosse obbligato o meno a rispondere all’istanza del terzo, ha poi inteso comunque motivare in senso affermativo, sulla base peraltro sia della ricordata obbligatorietà della peculiare tipologia di autotutela di cui all’art. 19, comma 4, sia dell’immanenza sulla stessa dei poteri di vigilanza in ambito urbanistico-edilizio. Ciò «a maggior ragione alla luce delle considerazioni svolte dalla sentenza della Corte costituzionale la quale – pur riconoscendo di non potere intervenire sui vuoti normativi esistenti nel sistema – ha messo in evidenza la questione di possibili lacune nella tutela del terzo confinante rispetto agli interventi realizzati sulla base della SCIA» (Cons. Stato, sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737, che richiama Cons. Stato, sez. IV, 13 febbraio 2017, n. 611, nonché sez. VI, 3 novembre 2016, n. 4610).

22. La tesi della ricorrente interseca dunque i possibili rischi ravvisati dalla dottrina nella ricostruzione dell’obbligo di attivazione in termini (anche) di obbligo di riscontro, ravvisandovi una limitazione della discrezionalità laddove sia stata accertata una illegittimità tale da trasformare l’intervento in sostanzialmente illecito, seppure non necessariamente abusivo giusta il preesistente titolo di legittimazione. In tale limitata ipotesi, cioè, il contenuto dell’autotutela decisoria dovrebbe coincidere necessariamente con quello della (ben diversa) autotutela c.d. esecutiva operando l’accertata violazione delle regole urbanistiche una sorta di innesto nella prima dei poteri -recte, degli obblighi- sottesi alle competenze di vigilanza di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, sì da imporre di eliminare manufatti o parti di essi distonici rispetto alla pianificazione del contesto. Così facendo tuttavia si finisce per confondere l’oggettiva difficoltà di motivare la scelta di non eliminare gli effetti di un procedimento che si ripercuote sul corretto sviluppo dell’assetto del territorio - e quindi la necessità di una motivazione rinforzata sul punto- con l’obbligo di eliminarlo sempre e comunque, id est di ingiungere in ogni caso la demolizione dell’opera.

23. Che tale sia la ricostruzione propugnata dalla ricorrente è confermato anche dalle sue scelte stragiudiziali, avendo le denunce/diffide l’intento dichiarato di attivare il potere di vigilanza ex art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, seppure attraverso il richiamo all’art. 19, comma 6-ter della l. n. 241 del 1990. Il Comune dal canto suo ha dapprima negato il presupposto oggettivo dell’autotutela, ovvero la illegittimità dell’intervento, indi, essendo stata la stessa cristallizzata nelle pronunce demolitorie prima del T.a.r. per il Veneto e poi del Consiglio di Stato, ha valutato negativamente l’interesse a far cessare l’efficacia della d.i.a.

24. Il Collegio ritiene tuttavia che essa non corrisponda né alla scelta ermeneutica del T.a.r per il Veneto, né, men che meno, a quella del Consiglio di Stato, che proprio in quanto diversa costituisce il giudicato da ottemperare.

25. La profonda differenza di impostazione tra la ricostruzione del T.a.r. per il Veneto e quella del Consiglio di Stato, risiede proprio nella diversa declinazione del rapporto tra potere di vigilanza e potere di annullamento d’ufficio, che nel primo caso è ritenuto di esclusività, sicché il secondo per i casi di violazione urbanistica neppure viene in evidenza; nell’altro, al contrario, è il primo a non essere neanche menzionato, pur rimanendo esso il possibile sbocco della (previa) eliminazione del titolo edilizio secondo i principi che sovrintendono all’autotutela. La terza strada, seguita dalla ricorrente, per cui l’autotutela decisoria finirebbe per ammantarsi di potere di vigilanza, acquisendo connotati di obbligatorietà contenutistica, non trova fondamento in nessuna delle due pronunce. Secondo la corte territoriale, infatti «Le costruzioni difformi dalle norme urbanistiche costituiscono abuso edilizio, per il quale il comune ha invece l’obbligo di esercitare i propri poteri di vigilanza e di repressione, come riconosciuto dal comma 6-bis dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, secondo cui nei casi di scia in materia edilizia restano ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380,e dalle leggi regionali» (§ 6, ultimo capoverso, della sentenza n. 547 del 2017). Di fatto, cioè, l’art. 19, comma 6-bis, fonderebbe due distinti ordini di poteri: quello di annullamento d’ufficio e quello repressivo-sanzionatorio, da esercitare in tutti i casi di violazione urbanistica, in quanto ex se impeditiva dell’acquisizione di efficacia della s.c.i.a. (e analogamente di far maturare i termini del silenzio assenso). Al contrario, il Consiglio di Stato, nel porre l’accento sull’art. 19, comma 6-ter, per come letto dalla Corte costituzionale, ha esplicitamente ricordato la sola possibilità, al sussistere delle relative condizioni, di operare ai sensi dell’art. 21-novies, valutando cioè, al pari di quanto accade per i provvedimenti per silentium, espressamente menzionati dalla norma, l’opportunità o meno di conservare l’atto o la sua efficacia, a prescindere dalla tipologia di violazione che lo affligge.

25.1. Tale ricostruzione, che il Collegio peraltro condivide, non consente dunque alcuna forma di automatismo riveniente dalla riconduzione sotto l’egida dell’inesauribile potere di vigilanza spettante agli enti territoriali degli esiti di qualsivoglia controllo tardivo, facendo così gravare sul privato le conseguenze dell’inerzia della pubblica amministrazione nell’effettuazione di verifiche per le quali il legislatore ha imposto tempistiche precise. Diversamente opinando, il terzo controinteressato si vedrebbe attribuire una tutela addirittura più ampia rispetto a quella accordata al titolare di interesse (in questo caso oppositivo) all’annullamento di un permesso di costruire, la cui impugnativa è comunque assoggettata agli ordinari termini di decadenza.

26. Vero è che il legislatore non ha mai abbandonato il riferimento all’autotutela esecutiva, pur quando ha ipotizzato l’autotutela decisoria, così contribuendo ad accrescere le incertezze interpretative. Ed è su tali richiami testuali, come detto, che fa leva la ricostruzione del T.a.r. per il Veneto, che invoca appunto la portata cogente della formula di chiusura della previsione di cui all’art. 19, comma 6-bis, della l. n. 241 del 1990, laddove tiene «ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.380, e dalle leggi regionali».

26.1. In maniera analoga, la Corte costituzionale, nella più volte ricordata sentenza n. 45 del 13 marzo 2019, dopo aver ammesso l’esistenza di profili di lacuna legislativa che rendono non piena la tutela del controinteressato, ha tuttavia ricordato come essa vada pur sempre collocata «in una prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto dell’insieme degli strumenti apprestati[…]», tra i quali menziona «i poteri di vigilanza e repressivi di settore, spettanti all’amministrazione, ai sensi all’art. 21, comma 2 bis, della legge n. 241 del 1990, come, ad esempio, quelli in materia di edilizia, regolati dagli articoli 27 e seguenti del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 38, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)”, espressamente richiamati anche dall’art. 19, comma 6-bis» (§10.1.).

27. Ma tale richiamo non può che essere inteso nel senso di imporre l’intervento repressivo ogniqualvolta risulti chiaro lo “sconfinamento” rispetto all’ambito definitorio del titolo utilizzato, sicché l’opera non può che essere considerata sine titulo ( si pensi alle difficoltà di inquadramento delle opere non destinate a soddisfare esigenze temporanee e contingenti installate con una semplice comunicazione inizio lavori –c.i.l.- ex art. 6, comma 1, lett.- e.bis), ovvero all’utilizzo di una comunicazione inizio lavori asseverata –c.i.l.a. – ex art. 6-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 per interventi che dagli accertamenti risultino assimilabili a nuove costruzioni); consentendolo solo all’esito della decisione di annullare gli effetti della s.c.i.a. per tutte le rimanenti violazioni, anche di natura urbanistica.

28. In sintesi, il legislatore, nel continuare a richiamare l’obbligo di vigilanza sull’assetto del territorio, ha imposto al Comune di tenere conto anche delle finalità della stessa nella comparazione degli interessi in gioco, di fatto attribuendo una particolare connotazione al ripristino della legalità laddove essa si identifichi con il ripristino delle regole di ordinato sviluppo del suolo, senza tuttavia imporne sempre e comunque la prevalenza.

28. Il consolidarsi della situazione illegittima -recte, accertata come tale ex post, d’ufficio o su impulso di parte, in via giudiziale o stragiudiziale - non fa infatti venire meno «le responsabilità connesse all’adozione [recte, in caso di s.c.i.a., alla mancata effettuazione dei controlli nel termine ordinario di 30 o 60 giorni] e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo» (art. 21-novies, comma 1, ultimo periodo). Ed è di tutta evidenza che laddove l’illegittimità trasmodi nell’abusivismo la motivazione della scelta del mantenimento dell’opera dovrà necessariamente essere più incisiva, giusta la possibilità, non a caso evocata anche dalla Corte costituzionale nella ricostruzione del quadro sistematico delle tutele del terzo, che quest’ultimo agisca per il risarcimento del danno derivatogli dall’inerzia colpevole dell’amministrazione, nei controlli tempestivi, indi nell’annullamento d’ufficio, ove possibile. L’unico modo, dunque, per cercare di raggiungere quel delicato punto di equilibrio fra esigenze di stabilità delle situazioni giuridiche e salvaguardia delle regole che sovrintendono ad un ordinato sviluppo dell’assetto del territorio va individuato nella scelta motivata e responsabile, piuttosto che nell’automatismo della sanzione, che finirebbe per vanificare la volontà di liberalizzazione di certe tipologie di uso del suolo che il legislatore ha inteso esprimere con insistita coerenza, in una continua ricerca di uno strumentario giuridico aggiuntivo che ponga argine alle preoccupate (e preoccupanti) resistenze delle amministrazioni pubbliche.

29. La valutazione della possibilità/necessità di provvedere in autotutela secondo i canoni indicati dal legislatore e chiariti dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, A.p., 17 ottobre 2017, n. 8), consente peraltro di differenziare le situazioni nelle quali la responsabilità delle violazioni tardivamente accertate sia comunque da ascrivere al segnalante (come tipicamente nelle ipotesi di dichiarazioni false o menzognere nell’accezione prevista dallo stesso art. 21 novies, comma 2 bis, ovvero lacunose o non rispondenti all’effettività dello stato dei luoghi) da quelle in cui il profilo di illiceità consegua a un non semplice percorso ermeneutico, a maggior ragione ove chiarito definitivamente all’esito di un giudizio.

30. Non è casuale, infatti, che la materia urbanistico-edilizia sia da sempre quella nella quale si riscontrano le maggiori difficoltà applicative degli istituti di semplificazione o liberalizzazione voluti dal legislatore. Essa si caratterizza per essere la risultante di un sistema normativo tipicamente multilivello sul piano delle competenze, nonché caratterizzato da un’incessante stratificazione, e per giunta intersecante numerosi interessi cosiddetti sensibili comunque incidenti sul territorio (in primis quelli relativi alla salvaguardia del patrimonio culturale e dell’ambiente, nella rinnovata accezione riveniente dalla recente riforma costituzionale). A ciò si associa un’inevitabile prassi distorta da parte degli uffici comunali caratterizzata da continue interlocuzioni istruttorie con le parti, che lungi dal costituire apprezzabile esempio di partecipazione informale al procedimento e di supporto cognitivo, si risolvono per lo più nello stillicidio delle richieste di integrazioni e chiarimenti che finisce talvolta per fornire l’alibi al privato che, a sua volta, si approccia agli stessi con istanze talmente carenti sotto il profilo contenutistico da poter essere considerate tamquam non esset e quindi inidonee a far decorrere qualsivoglia termine (si pensi, a puro titolo d’esempio, alle centinaia di pratiche di condono ancora inevase malgrado la ormai risalente chiusura delle finestre temporali utili allo scopo, laddove le si sarebbe potute dichiarare semplicemente improcedibili).

30.1. Per tali ragioni, la c.d. “certificazione del silenzio”, intesa quale attestazione dell’avvenuta decorrenza dei termini per la sua maturazione, nasce proprio in ambito edilizio con la recente novella dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001, interpolato in tal senso dal già ricordato d.l. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120), e solo successivamente è stata generalizzata, in maniera peraltro ampliata e come tale non sovrapponibile, mediante inserimento, con d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2021, n. 108, del comma 2-bis nell’art. 20 della l. n. 241 del 1990.

30.2. Proprio la tormentata vicenda giuridica della ristrutturazione, peraltro, cui è da ricondurre l’intervento di cui è causa, ha notoriamente dato adito alle maggiori difficoltà interpretative, giusta la continua fluttuazione dei confini definitori ad esempio rispetto alla manutenzione straordinaria e alla nuova costruzione, nonché avuto riguardo al titolo di legittimazione applicabile, tanto più che laddove essa presenti le caratteristiche di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 è assentibile con s.c.i.a. ad efficacia differita (c.d. super s.c.i.a. di cui all’art. 23, comma 01, del medesimo decreto), alternativa al permesso di costruire, pur non costituendo pedissequa attuazione di strumenti di pianificazione attuativa o di convenzioni accessive agli stessi come gli altri per tale ragione soggetti a tale tipologia di semplificazione procedurale.

31. Le decisioni del T.a.r. e del Consiglio di Stato hanno un nucleo argomentativo comune, che non può più essere revocato in discussione: la tardività della denuncia del presunto abuso da parte della Pavan rispetto al termine di trenta giorni dalla ricezione della d.i.a. da parte del Comune (sicché in alcun modo può nuovamente essere rivendicata la tempestività della diffida invocando una diversa decorrenza del dies a quo in concreto), la sussistenza del pregiudizio alla visuale cagionato alla stessa dal superamento in altezza del proprio palazzo da parte di quello di controparte e la violazione di legge regionale sottesa alla scelta di far elevare l’immobile calcolando la percentuale di incremento dell’altezza su quelle del palazzo della ricorrente, l’obbligo di attivazione e di riscontro all’istanza di autotutela proveniente da quest’ultima, comunque qualificata ( e dunque a prescindere dal richiamo all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001). Ma da tale punto in poi, le ricostruzioni divergono completamente: la sentenza del T.a.r. vincola contenutisticamente tale riscontro, imponendo il ripristino delle altezze; quella del Consiglio di Stato, invece, lo riconduce in toto al paradigma dell’art. 21-novies e alla discrezionalità nel quomodo a condizioni date descritto dallo stesso. La differenza -insanabile-è dunque di impostazione concettuale generale, di cui il differente richiamo formale (rispettivamente, all’art. 10, comma 6-bis e alla medesima norma, ma comma 6-ter) costituisce mero indice sintomatico. Tanto più che a ben guardare e come chiarito nei paragrafi precedenti le due norme non si diversificano affatto per contenuti, limitandosi la seconda a chiarire che il terzo controinteressato vanta un interesse pretensivo a che l’Amministrazione attivi su suo impulso quegli stessi controlli cui è obbligata in via autonoma.

32. In tale cornice, è indubbio che con il provvedimento prot. 46333 inviato il 5-6 ottobre 2021 il Comune di Castelfranco ha ottemperato al suo obbligo di riscontrare l’istanza di autotutela avanzata dalla parte, seppure ribadendo la scelta negativa precedente, stavolta nella piena consapevolezza della illegittimità delle d.i.a. presentate da Antares. Sicché così come l’atto originariamente impugnato afferiva al (negato) esercizio dell’autotutela, non ritenendosi sussistente alcuna violazione di legge, quello adottato in ottemperanza della decisione di annullare il precedente riedita il medesimo potere epurandolo, almeno nelle intenzioni del Comune, dai vizi individuati col precedente giudicato. Doverosa era, infatti, tale (ri)attivazione del procedimento, non il relativo esito, che, al contrario, recupera appieno la discrezionalità contenutistica che connota l’istituto, secondo la ricostruzione datane dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2712/2021.

32.1. Tale sentenza, infatti, ha delimitato il campo di ammissibilità del gravame e delle relative censure riferite proprio alla tipologia di poteri esercitabili dalla p.a. sui procedimenti dichiarativi in edilizia, affermando che «in sede di riesercizio, il potere comunale resta soggetto ai principi sopra ricordati, così come dettati dalla norma generale di cui all’art. 19 cit., nei termini ulteriormente chiariti dalla sentenza costituzionale n. 45 del 2019». Con riguardo ai c.d. presupposti flessibili (sussistenza di un interesse pubblico concreto al suo esercizio, comparazione tra esso e l’affidamento del segnalante, da un lato, e la posizione del controinteressato), la sentenza ha fatto espressamente salve, pertanto, le valutazioni riservate al Comune in sede di rinnovazione del procedimento, secondo le regole generali indicate nella norma.

33. Per costante giurisprudenza, perché sia ravvisabile il vizio di violazione o elusione del giudicato non è sufficiente che l’azione amministrativa posta in essere dopo la sua formazione intervenga sulla stessa fattispecie oggetto del pregresso giudizio di cognizione o alteri l’assetto di interessi definito; al contrario, è necessario che la Pubblica amministrazione eserciti la medesima potestà pubblica, già esercitata illegittimamente, in contrasto con il contenuto precettivo dello stesso (cioè con un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza), ovvero che l’attività asseritamente esecutiva della stessa sia connotata da un manifesto sviamento di potere diretto ad aggirare l’esecuzione delle puntuali prescrizioni ivi stabilite dal giudicato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17 luglio 2020, n.459). Il che non è accaduto nel caso di specie, avendo il Comune fatto esattamente ciò che la sentenza gli imponeva di fare, ovvero rivalutato i presupposti dell’autotutela alla luce della violazione di legge regionale accertata.

34. La ricorrente, tuttavia, come chiarito nella parte in fatto, ha avanzato anche specifiche censure avverso il provvedimento che attengono per lo più alla corretta lettura dell’art. 21-novies della l. n. 241 del 1990.

A tale riguardo, il Collegio rileva che, contrariamente a quanto opinato dalla difesa civica e dalla Società, per indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, «avverso i provvedimenti emanati dall’amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di proprio precedente provvedimento può ammettersi che, al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, le doglianze relative vengano dedotte con un unico ricorso davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità». (Cons. Stato. A.p., 15 gennaio 2013, n. 2).

35. Va peraltro chiarito che malgrado la avvenuta distinzione sul piano formale nell’articolazione del ricorso tra le doglianze formulate ex artt. 33 e 112 c.p.a. (rubricate sub 1 e 2, ove si richiama anche l’art. 202 c.p.c. e 2909 c.c.), e quelle lato sensu demolitorie (contrassegnate dai n. 3,4,5 e 6), la qualificazione degli effettivi petita e causae petendi di ciascuna, in quanto embricati indissolubilmente, non risulta affatto agevole. Le censure più propriamente incentrate sul provvedimento, infatti, si presentano per molti versi come il naturale sviluppo della ritenuta, doverosa, natura repressivo/sanzionatoria dell’autotutela. A mero titolo di esempio, basti pensare all’insistito richiamo, che figura anche nel secondo motivo di ricorso, pur riferito all’elusione del giudicato, alla mancanza di un affidamento del segnalante da tutelare, giusta la peculiarità di sviluppo del procedimento, connotato da un effettivo avvio dopo plurime battute di arresto solo a contenzioso incardinato; e ancora alla richiamata doverosità che l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio non possa attingere alle sopravvenienze normative, come per certi versi parrebbe erroneamente avvenuto.

Il Collegio non può esimersi dal rilevare, affinché non residuino ulteriori margini di incertezza sull’effettiva portata del potere conformativo, i profili di ambiguità che sembrerebbero emergere da taluni passaggi della corposa motivazione del provvedimento in contestazione, che deve evidentemente riferirsi alla cornice normativa vigente al momento dell’adozione dell’atto annullato. Trattandosi tuttavia, come detto, di elementi non disgiungibili dal complesso quadro argomentativo, appare preferibile rimetterne la valutazione al giudice del merito, anche in un’ottica di doverosa maggior garanzia procedurale volta ad assicurare il doppio grado di giudizio.

36. Per tutto quanto sopra detto, il Collegio ritiene di rigettare l’azione di ottemperanza, nel contempo tuttavia disponendo il mutamento del rito – ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a. ‒ per l’esame, previa rimessione degli atti al primo giudice, del merito delle censure con cui si chiede l’annullamento del nuovo diniego di autotutela adottato dal Comune in sede di riedizione del potere.

37. La complessità della materia trattata e la parziale novità di taluni degli argomenti sviluppati giustificano la compensazione delle spese di lite dell’attuale fase di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), respinge il ricorso per ottemperanza.

Rimette al T.a.r. per il Veneto la decisione del ricorso avverso l’annullamento del provvedimento adottato in ottemperanza del precedente giudicato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 febbraio 2023 con l’intervento dei magistrati:

Dario Simeoli, Presidente FF

Antonella Manzione, Consigliere, Estensore

Francesco Guarracino, Consigliere

Carmelina Addesso, Consigliere

Stefano Filippini, Consigliere