Trib. Bari Sez. Riesame Ord. 300 del 2 aprile 2007
Pres. Nettis Est. Putignano Ric. PM in proc. Simone
Beni Ambientali. Interventi su immobile vincolato

Realizzazione, in difformità totale dalla concessione edilizia o con concessione edilizia illegittima perché in contrasto con gli strumenti urbanistici, su un bene ritenuto dal Putt meritevole di tutela in quanto “Bene Architettonico Segnalato”, in un’area vincolata ai sensi del Dm 1.8.1985 e degli artt. 1 L. n. 431/1985, 142 e 146 D.lvo n. 42/2004 nonché ai sensi del Putt poiché ricadente nella fascia di 150 mt. (territorio annesso) da “Lama Balice” e dal corso d’acqua che in essa scorre, di una serie di interventi di trasformazione urbanistico-edilizia consistenti in: 1) cambio di destinazione d’uso per indirizzo turistico-ricettivo; 2) attività di sbancamento; 3) parziale demolizione del muro di recinto dell’orto adiacente al complesso masserizio; 4) aumenti volumetrici; 5) difformità nelle piantumazioni delle nuove specie arboree; 6) parziale difformità della recinzione su preesistente immobile

n.300/2006 r.t.l.s.

n.4710/2006 rgnr pm Ba
n. 6757/2006 rg gip

TRIBUNALE di BARI
sezione del riesame

riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati:

- dr. Angela R. Nettis presidente

- dr. Oronzo Putignano giudice rel.

- dr. Francesca Della Valle giudice

decidendo sull’appello ex art. 322-bis cpp presentato il 14.9.2006 dal Pm presso il Tribunale di Bari, avverso l’ordinanza emessa il 22.7.2006 dal Gip in sede nei confronti di SIMONE Giovanni, nato ad Altamura (BA) l’11.3.1958;

esaminati gli atti del procedimento, uditi il Pm ed i difensori dell’indagato, letta la documentazione prodotta dalle parti e sciogliendo la riserva di cui al separato verbale d’udienza, il Collegio

Espone ed Osserva

Con decreto del 28.4.2006 il Gip del Tribunale di Bari, previa convalida della misura d’urgenza disposta dall’ufficio del Pm, ordinava il sequestro preventivo della “Masseria Maselli-Gironda” e dell’area annessa interessata da lavori edilizi e di scavo, in relazione ai reati di cui agli artt. 31, 44, lett. c) Dpr n. 380/2001 (capo A della rubrica), 142, 146 e 181 D.lvo n. 42/2004 (capo B) e 734 cp (capo C; accertati in Bari il 16.3.2006 con permanenza).

I Pubblici Ministeri procedenti contestavano a Simone Giovanni, nella qualità di legale rappresentante della società committente dei lavori, la realizzazione, in difformità totale dalla concessione edilizia o con concessione edilizia illegittima perché in contrasto con gli strumenti urbanistici, su un bene ritenuto dal Putt/P meritevole di tutela (bene n. 9-Atlante serie n. 5) in quanto “Bene Architettonico Segnalato”, in un’area vincolata ai sensi del Dm 1.8.1985 e degli artt. 1 L. n. 431/1985, 142 e 146 D.lvo n. 42/2004 nonché ai sensi del Putt/P poiché ricadente nella fascia di 150 mt. (territorio annesso) da “Lama Balice” e dal corso d’acqua che in essa scorre, di una serie di interventi di trasformazione urbanistico-edilizia consistenti in: 1) cambio di destinazione d’uso per indirizzo turistico-ricettivo; 2) attività di sbancamento; 3) parziale demolizione del muro di recinto dell’orto adiacente al complesso masserizio; 4) aumenti volumetrici; 5) difformità nelle piantumazioni delle nuove specie arboree; 6) parziale difformità della recinzione.

L’esecuzione di opere in assenza di una legittima autorizzazione paesaggistica e l’effettuazione di interventi urbanistico-edilizi non assentibili su bene protetto ed in area vincolata, comportanti la distruzione di “Masseria Maselli” e dei territori contermini e l’alterazione della bellezza naturale di luogo soggetto a protezione ai sensi degli artt. 142 e 146 D.lvo n. 42/2004, del Dm “Galassino”, dell’art. 1 L. n. 30/1990 della Regione Puglia e del Putt/P, configuravano altresì i reati di cui all’art. 181 D.lvo n. 42/2004 e all’art. 734 cp (il Comune di Bari l’11.4.2002 aveva rilasciato alla società “Vele al Vento srl” l’autorizzazione paesaggistica).

Con ordinanza del 22.7.2006 il giudice della misura cautelare reale, accogliendo la richiesta dei difensori e aderendo alle osservazioni del loro consulente tecnico, disponeva il dissequestro e la conseguente restituzione della “Masseria Maselli-Gironda” e dell’area annessa, sostanzialmente giustificando la sua decisione sul rilievo dell’assenza di un vincolo architettonico, dell’insussistenza della totale difformità dal titolo permissivo degli interventi eseguiti e della conformità del mutamento di destinazione d’uso allo strumento urbanistico comunale.

Avverso tale provvedimento i Pubblici Ministeri titolari delle indagini proponevano articolato appello censurando l’impostazione di fondo seguita dal decidente e indicando analiticamente le ragioni fattuali e giuridiche che invalidano le conclusioni del Gip e che attestano, viceversa, la persistenza dei presupposti di illiceità della condotta del Simone.

In data 9.3.2007 i difensori dell’indagato depositavano una memoria, supportata da una relazione di consulenza tecnica, con cui riaffermavano il carattere lecito dell’intervento da lui eseguito, chiedendo il rigetto del gravame.

Il 15.3.2007 l’Ufficio del Pm depositava le controdeduzioni alla memoria difensiva insistendo nella richiesta di accoglimento dell’appello esperito.

In data odierna i difensori dell’indagato depositavano note d’udienza corredate da ulteriore documentazione a sostegno.

Ciò premesso, occorre rammentare che in tema di sequestro il sindacato del giudice del riesame non deve investire la concreta fondatezza dell’accusa, il cui riscontro è riservato al giudice della cognizione nel merito, ma deve essere limitato alla verifica dell’astratta possibilità di sussumere il fatto accertato nell’ipotesi di reato contestata.

Si è autorevolmente sottolineato in proposito che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del tribunale del riesame o della Corte di Cassazione non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza ed alla gravità degli stessi (Cass., Sezioni Unite, 23.2-4.5.2000, n. 7, Mariano, rv. 215840), mediante la valutazione prioritaria dell’antigiuridicità penale del fatto così come contestato, tenendosi conto, nell’accertamento della sussistenza del “fumus commissi delicti”, degli elementi dedotti dall’accusa e risultanti dagli atti processuali e delle relative contestazioni difensive (così Cass., sez. III, 10.2-18.5.2004, n. 23214, Pm Napoli in proc. Persico, rv. 228807).

Diversamente, si finirebbe con l’utilizzare surrettiziamente la procedura incidentale per una preventiva verifica del fondamento dell’accusa, con evidente usurpazione di poteri che sono per legge riservati al giudice del procedimento principale. Sicchè l’accertamento della sussistenza del fumus va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto, per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati cosi come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica. Il Tribunale, dunque, non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere l’indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto l’integralità dei presupposti che legittimano il sequestro (ex plurimis, Cass., Sezioni Unite, 28.11.2001-8.2.2002, n. 5115, Salvini, rv. 220708).

Con l’ulteriore doverosa precisazione che l’atto d’impugnativa del Pm devolve al Tribunale investito dell’appello una cognizione estesa all’integrale verifica degli originari presupposti richiesti dalla legge per l’applicazione della misura cautelare, il che postula il riscontro della conformità legale del provvedimento di revoca del sequestro preventivo sotto il profilo della sua eventuale esorbitanza dai limiti di apprezzamento tipici della fase preliminare del procedimento, cui devono essere estranee valutazioni che trascendano il fumus degli illeciti provvisoriamente contestati.

Orbene, precisato che la ricostruzione dei fatti sul piano amministrativo, riguardante l’area su cui sorge “Masseria Maselli-Gironda”, non risulta contestata e che la stessa è contenuta nell’ampia richiesta di sequestro preventivo (cui può farsi rinvio), occorre conseguentemente limitare l’ambito cognitivo del Tribunale alle questioni controverse sulle quali dibattono vivacemente le parti, concernenti sostanzialmente tre diversi aspetti della vicenda: 1) la capacità o meno del Putt della Puglia di imporre vincoli di qualsiasi genere sui beni architettonici; 2) più specificamente, la sottoposizione o meno a vincoli della “masseria Maselli-Gironda”; 3) la conformità alla legge e agli strumenti pianificatori dell’intervento di ristrutturazione urbanistico-edilizia eseguito nella zona dalla società di cui il Simone è legale rappresentante.

Invero, l’obbligo di tutela dei beni culturali trova nel nostro ordinamento un esplicito riconoscimento costituzionale nell’art. 9, co. 2, secondo cui la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico ed artistico della Nazione.

In merito al significato giuridico da attribuire alla nozione di paesaggio, già con la sentenza 24.6.1986, n. 151, la Corte Costituzionale evidenziava che l’art. 1 della L. 8 agosto 1985, n. 431, discostandosi nettamente dalla disciplina precedente in materia, introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, implicante, cioè, una riconsiderazione dell’intero territorio nazionale alla luce del valore estetico-culturale, in aderenza all’art. 9 Cost., che assume tale valore come primario. Questo non esclude né assorbe la configurazione dell’urbanistica quale funzione ordinatrice degli usi e delle trasformazioni del suolo nello spazio e nel tempo, bensì raccorda le competenze statali e quelle regionali in base al principio di leale cooperazione, sia istituendo un rapporto di concorrenza strutturato in modo che le competenze statali siano esercitate (solo) in caso di mancato esercizio di quelle regionali e (solo) in quanto ciò sia necessario per il raggiungimento dei fini essenziali della tutela; sia proiettando quest’ultima (in modo dinamico) sul piano dell’urbanistica, orientando l’esercizio delle competenze regionali in materia urbanistica in senso estetico-culturale.

La giurisprudenza costituzionale che si è occupata dei piani territoriali urbanistici con valenza paesistica e ambientale (come si vedrà, la sentenza n. 378/2000; nonché n. 153/1986 e n. 529/1995) ha evidenziato l’intreccio tra “le tecniche e gli effetti propri degli strumenti di pianificazione urbanistica” e i fini e gli obiettivi “di protezione di valori estetico-culturali”, insito in tali ibridi strumenti. Analogamente la sentenza 3.3.1986, n. 39, fornisce una nozione di paesaggio più ampia, comprensiva di “ogni elemento naturale ed umano attinente alla forma esteriore del territorio”.

In epoca più recente la Consulta (26.11.2002, n. 478), richiamando la precedente sentenza n. 378/2000, ha ulteriormente precisato che “la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo (sentenza n. 85 del 1998) e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria. Detta tutela costituisce compito dell’intero apparato della Repubblica, nelle sue diverse articolazioni ed in primo luogo dello Stato (art. 9 della Costituzione), oltre che delle regioni e degli enti locali”.

Questo rilevante principio – che tende a stabilire un’inscindibile connessione teleologica fra la tutela del paesaggio, dell’ambiente e del patrimonio culturale – costituisce un fecondo sviluppo interpretativo che trova la sua base giustificativa anche nella Convenzione Europea del Paesaggio del 20.10.2000, secondo la quale il paesaggio “ “svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica” e, se salvaguardato, “concorre all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale d’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea”.

In tal modo – si è sostenuto in dottrina – la Convenzione fissa una nozione di paesaggio (“una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”) comprensiva del substrato naturale (il territorio come matrice ambientale, come res extensa) non in sé considerato, ma nella sua interpretazione culturale attraverso la percezione identitaria delle popolazioni, in relazione al suo “carattere”, nella dinamica dell’azione di fattori naturali ed antropici.

Per quanto attiene più specificamente ai piani paesaggistici regionali, va rammentato che con la sentenza n. 327 del 26.6-13.7.1990 la Corte Costituzionale ha rilevato che l’art. 1-bis della legge n. 431 del 1985 (c.d. legge Galasso) impone alle Regioni l’obbligo di sottoporre a specifica normativa di uso e di valorizzazione ambientale beni ed aree di particolare interesse paesistico elencati nel quinto comma dell’art. 82 del Dpr n. 616 del 1977: per la formulazione di tale normativa le stesse Regioni hanno la possibilità di scegliere tra due strumenti, di diversa natura, che vengono dalla legge indicati nei “nei piani paesistici” e nei “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali”.

Al riguardo è stato chiarito (Cons. Stato, sez. IV, 29.7.2003, n. 4351, Soc. Casa Via Buonarroti c/ Regione Lazio) che il piano paesistico è finalizzato alla protezione delle bellezze naturali e più precisamente alla fase di pianificazione della tutela delle zone dichiarate di particolare interesse sotto il profilo paesaggistico, al fine di programmare la salvaguardia dei valori paesistico-ambientali con strumenti idonei ad assicurare il superamento dell’episodicità, inevitabilmente connessa a semplici ed isolati interventi autorizzatori. Esso costituisce, pertanto, uno strumento di attuazione e specificazione del contenuto precettivo del vincolo paesaggistico, mediante l’individuazione delle incompatibilità assolute e dei criteri e dei parametri di valutazione delle incompatibilità relative, condizionando, prevalentemente in negativo, la successiva attività di pianificazione del territorio vincolato anche sotto il profilo urbanistico. Al contrario, il piano urbanistico territoriale, pur avendo anche valenza paesistico-ambientale, non presuppone necessariamente un preesistente vincolo e può anche riguardare ambiti non vincolati.

Ha significativamente aggiunto il Giudice delle leggi nella citata sentenza n. 327/1990 che le direttive e prescrizioni contenute nei piani urbanistico-territoriali, tuttavia, non potendo, per essi, il riferimento dell’art. 1-bis della legge n. 431 al quinto comma dell’art. 82 Dpr n. 616 del 1977 essere correttamente inteso come limitativo delle ordinarie competenze regionali in materia urbanistica, possono estendere la loro efficacia – al di là della pur doverosa e necessaria tutela dei beni ed aree suddetti – all’intero territorio regionale.

I principi affermati in tale ultima pronunzia sono stati ripresi e sviluppati dalla Corte Costituzionale nella sentenza 26.10-7.11.1994, n. 379.

In essa si è testualmente osservato che, allo scopo di apprestare una più efficace protezione dei beni ambientali, la legge n. 431/1985 ha seguito un criterio che si discosta nettamente da quello che aveva ispirato disciplina e tutela delle bellezze naturali nella legge 23 giugno 1939, n. 1497. Invece di limitarsi ad interventi diretti alla preservazione di cose e di località di particolare pregio singolarmente considerate, essa ha previsto vincoli paesaggistici generalizzati, in ordine a vaste porzioni e numerosi elementi del territorio individuati secondo tipologie paesistiche, ubicazionali o morfologiche, indicate all’art. 1, che integra l’art. 82 Dpr n. 616 del 1977; con una scelta la cui ratio sta nella introduzione di una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità. Il concetto tradizionale di paesaggio ha subìto, quindi, una trasformazione, evolvendo verso un allargamento dell’area della tutela riferibile al complesso dei valori inerenti al territorio, con il conseguente intrinseco collegamento di paesaggio e di strutture urbane (edilizie, sociali, produttive) e allargamento della disciplina urbanistica, cui già l’art. 80 Dpr n. 616 del 1977 attribuiva una funzione di protezione ambientale accanto a quella originaria di assetto e di sviluppo edilizio dei centri abitati. Le due funzioni, quella di pianificazione paesistica e quella di pianificazione urbanistica, restano pur sempre ontologicamente distinte, avendo obiettivi, in linea di principio, diversi, da ricollegare, sostanzialmente, per la prima, alla tutela dei valori estetico-culturali, per la seconda alla gestione del territorio a fini economico-sociali. La riferita concezione “dinamica” del paesaggio, e la più ampia apertura del concetto di urbanistica, hanno avuto per risultato una sorta di mutualità integrativa, per effetto della quale la tutela dei valori paesaggistico-ambientali si realizza anche attraverso la pianificazione urbanistica. É propriamente in questo ambito e in questa funzione che si colloca ed opera la legge n. 431/1985, quando, con l’aggiunta dell’art. 1-bis al Dl n. 312/1985, dispone che “le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso e di valorizzazione ambientale il relativo territorio mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali…”. Si è, in tal modo, riconosciuta la possibilità che il perseguimento della tutela paesaggistica avvenga attraverso l’impiego di piani paesistici ovvero di piani urbanistici a valenza paesaggistica. Sulla diversa natura, e tuttavia sulla integrabilità del fine protettivo dei valori ambientali, ricorrente in entrambi i menzionati piani, questa Corte si è già in altra occasione soffermata (sent n. 327 del 1990), osservando che il piano urbanistico territoriale è comunque uno strumento di pianificazione urbanistica, che trova il proprio nucleo iniziale di disciplina nei “piani territoriali di coordinamento” previsti dall’art. 5 della legge n. 1150 del 1942, mentre il fondamento normativo dei piani paesistici si rinviene nell’art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, relativa alla protezione delle bellezze naturali, e nell’art.23 del regio-decreto 3 giugno 1940, n. 1357. Tale premessa rende ragione della non fondatezza della questione sollevata, con riferimento alla pretesa esorbitanza dai limiti posti dall’art. 1-bis del Dl n. 312 del 1985 dell’imposizione con legge regionale di un generalizzato vincolo di inedificabilità. Se è vero, infatti, che tale disposizione riferisce il piano urbanistico territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali – al pari del piano paesistico – ai “beni ed alle aree elencati nel quinto comma dell’art. 82 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616”, è pur vero, come già rilevato nella citata sentenza n. 327 del 1990, che la limitazione della disciplina alle sole predette zone risulta estranea agli strumenti di pianificazione urbanistica, la cui efficacia è “normalmente orientata verso l’assetto dell’intero territorio di spettanza dell’ente investito del potere di pianificazione”. Pertanto, il riferimento del citato art. 1-bis alle categorie di beni sottoposti a specifica tutela paesaggistica non può essere correttamente inteso come “limitativo delle ordinarie competenze regionali in materia urbanistica”. Al contrario, se la regione non può prescindere, nei propri strumenti programmatici, dalla tutela dei valori paesistico-ambientali, essa ben può, nell’esercizio delle sue competenze urbanistiche, prendere in considerazione tali valori, con automatico ampliamento dell’efficacia dello strumento ad aree non comprese nella disciplina della legge n. 431. Al riguardo, la Corte ha già avuto modo di sottolineare [e ciò assume un particolare significato ai fini che rilevano nell’odierna udienza d’appello, nde] come la protezione preordinata da tale legge sia pur sempre “minimale” e non escluda nè precluda “normative regionali di maggiore o pari efficienza” (sentt. nn. 327 del 1990, 151 del 1986), in una visione organica del territorio e dei valori sottostanti alla disciplina dell’uso dello stesso.

Quanto al piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, trattasi del piano territoriale di coordinamento al quale la legge assegna una specifica finalità di protezione paesistica, la cui previsione è stata recepita dall’art. 135 D.lvo n. 42/2004 a mente del quale “Le regioni assicurano che il paesaggio sia adeguatamente tutelato e valorizzato. A tal fine sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio, approvando piani paesaggistici ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio regionale, entrambi di seguito denominati “piani paesaggistici”. Il piano paesaggistico definisce, con particolare riferimento all’art. 134, le trasformazioni compatibili con i valori paesaggistici, le azioni di recupero e riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela, nonché gli interventi di valorizzazione del paesaggio, anche in relazione alle prospettive di sviluppo sostenibile”.

L’art. 145.3 D.lvo n. 42/2004 sancisce che le previsioni dei piani paesaggistici sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province e sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi, eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione. I piani paesaggistici hanno un contenuto descrittivo, prescrittivo e propositivo (cfr. art. 143, co. 3, dello stesso decreto).

Il piano paesaggistico, in particolare, è uno strumento pianificatorio che interviene in un complesso sistema di tutela dei beni paesaggistici mediante l’imposizione di vincoli ex lege su determinati parti del territorio nazionale (art. 142 D.lvo n. 42/2004), su immobili ed aree dichiarati di notevole interesse pubblico (artt. 138-141) e su immobili ed aree individuati dallo stesso piano paesaggistico.

Importanti indicazioni circa la natura e finalità di tutela ambientale e culturale del piano territoriale regionale si traggono dalla sentenza 12-27.7.2000, n. 378, con la quale la Corte Costituzionale, in riferimento al piano territoriale paesistico regionale previsto dalla legge della Regione Emilia-Romagna 7.12.1978, n. 47, ha testualmente statuito che esso – riconducibile alla categoria dei “piani urbanistici-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali” e inquadrato nei “piani territoriali stralcio relativi all’intero territorio regionale”, qualificati “tematici” e che, come tale, può produrre non solo gli effetti propri di un piano territoriale di coordinamento urbanistico, volto ad orientare e condizionare (con direttive) l’azione dei soggetti pubblici, ma, per la parte contenente prescrizioni comportanti obblighi di carattere generale o particolare, risulta immediatamente operativo per i soggetti privati – non viene con ciò in contrasto con i principi stabiliti nella legge n. 1150/1942 in quanto il modello di regolazione del territorio ivi configurato è stato ormai sostituito da un sistema di pianificazione, che privilegia l’efficacia dei vincoli e il riconoscimento di effetti anticipati con l’adozione dei piani rispetto alla stessa pianificazione definitiva e al perfezionamento dei vincoli stessi. Nè, nella previsione di detto piano, si ravvisa lesione dell’autonomia comunale in materia di programmazione urbanistica poiché la giustificazione dell’intervento regionale si rinviene nella tipologia stessa del piano “tematico” e nella natura delle prescrizioni, volte alla protezione di valori estetico-culturali ed ambientali, i quali esigono previsioni programmatiche (ma anche precettive) estese ad un ambito territoriale più vasto e con maggior rigore ed efficienza, rispetto alle valutazioni operate nell’ambito del comune, fermo restando che questo può, nella sua autonomia, imporre limiti più rigorosi o aggiuntivi anche sui beni già tutelati. Nè, del pari, risulta leso il diritto di partecipazione dei comuni interessati nel procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici regionali, essendo previste dalla legge in esame possibilità plurime di intervento comunale, che rendono congrua ed effettiva la loro partecipazione, tenuto anche conto della natura e delle finalità delle prescrizioni per una tutela ambientale e culturale. Non ha, infine, rilievo, la mancata fissazione di un limite massimo di durata del vincolo, in relazione all’art. 2 della legge n. 1187/1968, in quanto si è in presenza di previsioni non preordinate all'espropriazione e non comportanti una inedificabilità assoluta.

Peraltro, il principio per cui i piani territoriali di coordinamento con concorrente funzione di tutela paesistica sono idonei a produrre, oltre gli effetti di direttiva nei confronti della pianificazione comunale, anche effetti diretti nei confronti dei privati, con vincoli generali e particolari, purché pertinenti alla specificità tematica del piano, trova conferma nella giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. VI, 14.1.2004, n. 74, Comune Rimini c/ Regione Emilia Romagna, nonché Tar Emilia-Romagna, sez. II, 26.4.2001-8.2.2002, n. 366, Papiano ed altri c/ Soprintendenza per i Beni Culturali ed Architettonici di Bologna, la quale ha ribadito che, in ordine alla valenza giuridica del piano territoriale paesistico regionale, la scelta operata dal legislatore regionale di seguire la via alternativa (al piano paesistico) dello strumento di pianificazione urbanistica con valenza paesistica ed ambientale, ha come conseguenza che la tutela svolta attraverso quest’ultimo strumento comporta la protezione di un territorio ben più vasto delle aree strettamente vincolate, per le necessarie connessioni con le zone contermini e per le esigenze di coinvolgimento di una sfera più ampia soprattutto quando vi siano esigenze di una valutazione più complessiva e più ampia di valori sottesi alla disciplina dell’assetto urbanistico).

La figura del piano paesistico risponde, quindi, a quel fenomeno dovuto all’allargamento delle competenze regionali a profili diversi, pur se collegati, a quello che riguarda l’urbanistica in senso stretto. Nuove competenze la cui disciplina, tuttavia, non si sottrae al metodo della pianificazione e che, dunque, danno vita alla figura del “piano tematico”, che non si propone solo quella regolamentazione urbanistica di ordine generale che compete al piano territoriale regionale, ma che si spinge talora fino alla puntuale indicazione di vincoli e prescrizioni volte alla tutela dello specifico interesse di settore. Il piano regionale acquista così contenuto variabile, funzionale ad esigenze nuove e diverse, pur se intimamente compenetrate con quelle urbanistiche, ma soprattutto produce effetti anche più intensi di quelli che si sostanziano nel vincolo di direttiva nei confronti del Comune. Del resto, proprio con riguardo ad un piano a valenza paesistica si è affermato che il piano regionale può produrre non solo gli effetti propri di un piano territoriale di coordinamento, destinati a condizionare il piano comunale, ma anche effetti che comportano vincoli generali e particolari a carico dei privati proprietari, purché sempre pertinenti alla specifica tematica del piano. E si è ammesso altresì che la disciplina di dettaglio guardi ad un territorio più vasto delle aree strettamente vincolate, per le necessarie connessioni con le zone confinanti e per l’esigenza di mantenere una visione d’insieme (Cons. Stato, sez. IV, 10.4-26.9.2001, n. 5038, Regione Liguria c/ U.R., A.P., V.P).

Il Putt/Paesaggio della Puglia sottopone l’intero territorio regionale a specifica normativa d’uso e di valorizzazione ambientale, mediante normazione dei processi che devono sovrintendere alla sua trasformazione fisica, al fine di salvaguardarne l’identità storica e culturale e di rendere compatibile la qualità del paesaggio, nelle sue componenti strutturali, col suo uso sociale.

Esso, approvato dalla Giunta Regionale con Deliberazione n. 1748 del 15.12.2000, pubblicato sul Bollettino n. 6 della Regione Puglia l’11.1.2001 e divenuto esecutivo dal giorno successivo alla sua pubblicazione, è riconducibile al Piano Territoriale di Coordinamento di cui all’art. 5 L. n. 1150/1942 tenuto conto del richiamo, operato dall’art. 1.01.2 dello stesso Putt, ai requisiti fissati dagli artt. 4, lett. c) e d) (sotto il profilo contenutistico) e 8 (sotto quello procedurale), della legge urbanistica regionale n. 56/1980.

Tale piano regionale disciplina i processi di trasformazione fisica del territorio perseguendo lo scopo di tutelarne l’identità storica e culturale e promuovendo la salvaguardia e la valorizzazione delle risorse territoriali. Detto strumento urbanistico, che interessa le categorie di beni paesistici così come indicati al Titolo II del D.lvo n. 490 del 29/10/1999, trova attuazione mediante una serie di obiettivi, indirizzi, direttive, prescrizioni e criteri la cui forza ed efficacia è direttamente connessa alle caratteristiche delle aree del territorio in esame. Lo stesso definisce, con le norme tecniche di attuazione e con le cartografie tematiche (Atlanti della documentazione cartografica: Ambiti Territoriali Estesi-Ate e Ambiti Territoriali Distinti-Atd), i vari ambiti territoriali quali parti del territorio che per i peculiari requisiti – assetto geologico, geomorfologico ed idrogeologico; copertura botanico vegetazionale, colturale e presenza faunistica; stratificazione storica dell’organizzazione insediativa – emergono rispetto alla restante parte del territorio regionale. L’individuazione delle aree che, a diversi livelli di consistenza fisica e di priorità, risultano “meritevoli di tutela” rappresenta, pertanto, l’elemento propedeutico ad una efficace attività di valorizzazione delle stesse. Il Putt, pertanto, estende la sua portata, oltre che ai beni vincolati, anche a zone non soggette al regime di tutela paesistica, ma egualmente ritenute meritevoli di considerazione in quanto espressione della più generale potestà urbanistica regionale in materia paesaggistico-ambientale.

Orbene l’art. 2 D.lvo n. 42/2004 sancisce che il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici. Questi ultimi sono gli immobili e le aree, indicati all’art. 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge. Il citato art. 134, per l’appunto, indica fra i beni paesaggistici gli immobili e le aree di notevole interesse pubblico, nonché le aree tutelate per legge ed anche gli immobili e le aree comunque sottoposti a tutela dai piani paesaggistici. L’uso dell’avverbio “comunque” è emblematico dell’intento del legislatore di voler includere nel novero dei beni paesaggistici gli immobili e le aree per il solo fatto che lo strumento pianificatorio regionale abbia per essi previsto un qualche regime di tutela. Quanto a questi ultimi beni, l’art. 134 lett. c) non introduce un tertium genus di beni paesaggistici, bensì rinvia ai contenuti della pianificazione, la quale funge da meccanismo di individuazione di altri beni paesaggistici da assoggettare ad un mirato regime di conservazione ed uso (cfr. art. 143, co. 3, lett. h) D.lvo n. 42/2004 che fa proprio riferimento alla fase di individuazione, ai sensi dell’art. 134 lett. c), di eventuali categorie di immobili ed aree, diversi da quelli indicati agli artt. 136 e 142, “da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione”).

L’art. 1.01.3 del Putt della Puglia precisa che suo campo di applicazione sono le categorie di beni paesaggistici di cui al titolo II del D.lvo n. 490/1999, al comma 5° dell’art. 82 Dpr n. 616/1977 (così come integrato dalla L. n. 431/1985), “con le ulteriori articolazioni e specificazioni (relazionate alle caratteristiche del territorio regionale) individuate nel PUTT/P stesso”.

L’art. 3.01.1.03 del Putt prevede che, in riferimento ai sistemi territoriali di cui al punto 2.1. dell’art. 1.02 (contenuti del piano), gli elementi strutturanti il territorio si articolano, fra gli altri, nel sottosistema denominato “stratificazione storica dell’organizzazione insediativa”.

A sua volta l’art. 3.04.1.08 sancisce che questo sottosistema si articola in una serie di componenti ed insiemi, fra cui sono ricompresi, alla lett. d), “masserie ed edifici rurali”.

Nell’art. 3.16.1 si legge che “Il Piano definisce “beni architettonici extraurbani” le opere di architettura vincolate come “beni culturali” ai sensi del titolo I del D.vo n. 490/1999 e le opere di architettura segnalate, di riconosciuto rilevante interesse storico-architettonico, paesaggistico, esterne ai “territori costruiti”…”.

L’art. 3.16.4, contenente le prescrizioni di base dei beni architettonici extraurbani (le quali, per effetto del disposto di cui all’art. 1.03.3, “sono direttamente e immediatamente vincolanti, prevalgono rispetto a tutti gli strumenti di pianificazione vigenti e in corso di formazione, e vanno osservate dagli operatori privati e pubblici come livello minimo di tutela”), prevede che le stesse prescrizioni debbano essere osservate sia nell’“area di pertinenza” che in quella “annessa”.

Nella “Variante generale al piano regolatore adottata con deliberazione consiliare n° 991 del 13.12.1973 ed approvata con decreto del Presidente della Giunta Regionale n.° 1475 dell’8.7.76” è scritto: “…4) Per quanto attiene la presenza sul territorio di resti di complessi monumentali, chiese rupestri, aree archeologiche, ambienti naturali di un certo interesse paesaggistico, si prescrive in generale la tutela dei complessi ed aree che seguono…7. masseria Maselli. Costruita forse nel XVII secolo, modificata ed ampliata nel 1872. Vi è una cappella settecentesca…”.

Dai superiori rilievi discende, dunque, che il Putt della Puglia assume come oggetto di diretta tutela paesaggistico-culturale anche le opere di architettura “segnalate” (del resto negli allegati è riportato un unitario elenco che accomuna indistintamente “vincoli e segnalazioni archeologiche e architettoniche”) e che lo strumento urbanistico comunale ha previsto un regime di salvaguardia per la “masseria Maselli”.

Avendo il Putt contenuto anche prescrittivo, deve ritenersi che le prescrizioni da esso dettate possiedano carattere normativo e, come tali, siano assistite dalla presunzione legale di conoscenza una volta che il piano stesso venga approvato e pubblicato nelle forme legali tipiche previste per gli strumenti urbanistici. Senza quindi la necessità di far luogo alla procedura di dichiarazione di notevole interesse pubblico (che è implicitamente assorbita e sostituita dalla sottoposizione del bene individuato nel piano ad un specifico regime di tutela posto nell’interesse pubblico) e alla conseguente notifica del provvedimento al proprietario, possessore o detentore del bene, la quale – in base all’inequivoco disposto di cui all’art. 134 D.lvo n. 42/2004 – costituisce un modulo d’attribuzione della qualifica di bene paesaggistico diverso rispetto a quello previsto per gli immobili e le aree oggetto delle previsioni di tutela dei piani paesaggistici. Infatti, come si è già detto, gli immobili e le aree ricevono tutela allorchè siano sottoposti ad un vincolo paesaggistico che può essere previsto in via generale dalla legge oppure imposto con un provvedimento amministrativo ovvero previsto da disposizioni dei piani con valenza paesaggistica.

L’art. 146, co. 1, D.lvo n. 42/2004, nel prevedere che i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree oggetto dei provvedimenti elencati all’art. 157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli artt. 138 e 141, tutelati ai sensi dell’art. 142 ovvero sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano paesaggistico non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione, altro non fa che confermare l’attitudine delle previsioni pianificatorie regionali ad assoggettare a tutela paesaggistica beni determinati.

Se si aderisse all’interpretazione (sostenuta nell’ordinanza appellata) secondo la quale il piano urbanistico-territoriale con valenza paesaggistica è sprovvisto di capacità impositiva di un regime “tutorio” su beni specificamente identificati, occorrendo in ogni caso la dichiarazione di notevole interesse pubblico (la quale, a ben vedere, è limitata alle sole categorie di beni individuati dall’art. 136 D.lvo n. 42/2004), allora la norma contenuta nel precedente art. 134, co. 1, lett. c), resterebbe del tutto priva di un suo spazio di concreta applicabilità. Così come, parallelamente, nella specie, il Putt della Puglia – il cui contenuto normativo si articola nella determinazione di un sistema di prescrizioni di base direttamente ed immediatamente vincolanti, prevalenti su tutti gli strumenti di pianificazione vigenti ed in corso di formazione e la cui osservanza è obbligatoria per gli operatori privati e pubblici come livello minimo di tutela – finirebbe per essere completamente svuotato di ogni sua ratio. Del resto l’art. 143, co. 3, lett. d), D.lvo n. 42/2004, indica tra le fasi in cui si articola l’elaborazione del piano proprio quella della “definizione di prescrizioni generali ed operative per la tutela e l’uso del territorio compreso negli ambiti individuati”.

Inoltre, il richiamo contenuto nella memoria difensiva ai commi 5 e seguenti dell’art. 143 D.lvo n. 42/2004 evoca un tema diverso (il regime previsto in materia di rilascio dell’autorizzazione) ed ininfluente su quello in esame, che attiene unicamente all’inclusione nel novero dei beni paesaggistici degli immobili e delle aree comunque sottoposti a tutela dal piano regionale urbanistico-territoriale. La norma anzidetta, infatti, con riferimento agli interventi apprestabili sui beni tutelati, prevede una modulazione del regime autorizzatorio, a tre livelli: regime autorizzatorio rafforzato (comma 5, lettera a), riguardante le aree di pregio, per le quali qualsiasi trasformazione deve essere autorizzata; regime autorizzatorio attenuato (lettera b), riguardante le aree di minor pregio, in cui la compatibilità paesistica può esser valutata nell’ambito del procedimento autorizzatorio edilizio; regime autorizzatorio escluso (lettera c), in cui la pregressa compromissione del valore paesaggistico fa soprassedere alla necessità di autorizzazione, per le operazioni di recupero e riqualificazione. La diversa modulazione del regime autorizzatorio, in rapporto agli ambiti territoriali e agli obiettivi di qualità paesaggistica, è operativa nella misura in cui il piano paesaggistico, o il piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, sia stato oggetto di elaborazione congiunta tra il Ministero e la Regione. La ratio della disciplina statale è nel senso che, affermata la competenza regionale nella pianificazione paesaggistica, in quello che è effetto saliente di essa, ovvero la modifica di regime dei beni che essa recepisce e il cui uso deve regolare, lo Stato deve poter interloquire attraverso forme di concertazione, senza le quali la Regione può ben elaborare autonomamente il piano, senza però che quell’effetto si produca (così Corte Cost. 20.4-5.5.2006, n. 182).

Né – ad avviso del Collegio – può ritenersi dirimente, nel senso di escludere la sopra descritta capacità normativa diretta del Putt della Puglia, il rilievo per cui tale piano regionale sia stato adottato alla stregua non degli artt. 143 e 156 D.lvo n. 42/2004, bensì del previgente art. 149 D.lvo n. 490/1999, il quale prevede un doppio regime di pianificazione paesistica regionale, obbligatoria per i beni ambientali tutelati per legge e facoltativa solo per quelli dichiarati di notevole interesse pubblico da un’apposita commissione provinciale, non menzionando invece gli altri beni.

Ciò sia in quanto le disposizioni di cui al D.lvo n. 42/2004 si pongono – dal punto di vista contenutistico e temporale – in rapporto di continuità normativa con quelle di cui al D.lvo n. 490/1999, che ha natura meramente compilativa (cfr., ex pluribus, Cass., sez. III, 27.4-12.10.2006, n. 34119, Palermo, nonché la nota n. 2 riportata a pag. 2 delle controdeduzioni del Pm del 15.3.2007); sia perché, come già detto, la giurisprudenza costituzionale ed amministrativa ha espressamente affermato che il piano territoriale regionale con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali può essere esteso anche alle aree non disciplinate dalla L. n. 431/1985, le quali ne costituiscono il contenuto necessario ma non esclusivo; sia in quanto il Putt della Puglia (art. 1.01.3) proietta il suo campo di applicazione fino ad investire le “ulteriori articolazioni e specificazioni (relazionate alle caratteristiche del territorio regionale) individuate nel PUTT/P stesso”; sia, infine, perché lo stesso Putt definisce “beni architettonici extraurbani” anche le opere di architettura segnalate, di riconosciuto rilevante interesse storico-architettonico-paesaggistico, individuando in tal modo quei beni ai quali – in una visione “aperta” della nozione di bene culturale inteso quale “testimonianza materiale avente valore di civiltà” (definizione della “Commissione Franceschini” istituita con la legge n. 310/1964) – è riconosciuta particolare rilevanza da parte della comunità regionale, in quanto parte integrante del patrimonio culturale ex art. 2, co. 3, D.lvo n. 42/2004, giacchè beni costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, senza però che ciò importi la loro qualificazione come beni culturali in senso stretto e la conseguente speciale conformazione del loro regime giuridico.

Anche se, con riferimento al D.lvo n. 490/1999, interpretato alla luce del novum rappresentato dal D.lvo n. 42/2004, si è precisato in senso diverso (Cass., sez. III, 15.11-5.12.2005, n. 29306, Arbace, nella cui motivazione riecheggiano le osservazioni già formulate da Cass., sez. III, 29.11.2000-1.2.2001, n. 4001, Feleppa) che il vincolo paesaggistico (escluso quello imposto per legge) e quello culturale possono nascere soltanto attraverso l’inclusione della zona in appositi elenchi compilati con procedura garantista da una commissione provinciale, ed approvati dalla Regione, ovvero con dichiarazione del Ministero dei Beni Culturali, notificata all’interessato.

Ma al di là del predetto aspetto concernente il regime di tutela cui è assoggettata “Masseria Maselli” dal punto di vista architettonico (di cui si dà atto in sede di rilascio del parere di legittimità da parte dell’Autorità competente: cfr. pag. 10 dell’atto di appello), deve comunque rilevarsi che nella gravata ordinanza si omette totalmente di considerare che l’area in cui ricade il complesso masserizio è interessata da altri vincoli, la cui esistenza è ammessa dal consulente tecnico dell’indagato (cfr. pag. 3 della relazione consulenziale a firma del prof. ing. De Salvia Domenico): la sottoposizione della contigua “Lama Balice” al regime di acqua pubblica (le cui prescrizioni limitative sono dettate dall’art. 3.08.1 del Putt); l’inclusione di “Lama Balice” fra le lame situate ad ovest e a sud-est di Bari per le quali è intervenuta dichiarazione di notevole interesse pubblico per effetto del Dm 1.8.1985 (cd. “Galassino”).

Sicchè, pure accedendo alla tesi difensiva secondo cui la qualifica di “bene architettonico extraurbano” attribuita dal Putt alla “masseria Maselli” non vale a far sorgere per la stessa un vincolo rilevante agli effetti penali previsti dall’art. 44 lett. c) Dpr n. 380/2001, nondimeno la dichiarazione di notevole interesse pubblico di “Lama Balice” ed il suo regime di torrente-acqua pubblica comporta egualmente la sottoposizione della zona, in cui è stato eseguito l’intervento edilizio, a vincolo paesistico-ambientale. Senza al contempo trascurare che l’eventuale inconfigurabilità del reato di cui all’art. 44 lett. c) Dpr n. 380/2001, limitatamente alla qualifica di “opera di architettura segnalata” attribuita alla “masseria Maselli”, non escluderebbe comunque la violazione dell’art. 44 lett. a) del predetto Testo Unico dell’Edilizia, atteso l’avvenuto compimento di lavori di scavo e sbancamento del terreno non autorizzabili in base a quanto prescritto dal Putt.

In particolare, in esito al sopralluogo eseguito dai consulenti dei Pubblici Ministeri e sulla scorta del rilevamento cartografico disponibile, si è accertato che la masseria dista dal ciglio della lama circa 100 metri e che il complesso edilizio con il recinto, nonché una buona parte del terreno circostante, sono compresi all’interno dei 150 metri che definiscono la fascia di rispetto dal “corso d’acqua Tiflis-Lama Balice” (cfr. pagg. 8 ss. dell’atto di appello, che recepisce i rilievi dei consulenti tecnici).

Avuto riguardo al livello dei valori paesaggistici, la masseria ricade in ambiti territoriali estesi (art. 2.01 del Putt) di valore rilevante (“B”) per la compresenza di più beni costitutivi con o senza prescrizioni vincolistiche preesistenti (Dm 1.8.1985 ed acque pubbliche) e di valore distinguibile (“C”) per la parte restante, secondo il regime vincolistico valido per i “territori annessi”.

Quanto alle prescizioni di base da osservare in tali ambiti territoriali in relazione ai corsi d’acqua, il Putt prevede (art. 3.08.4.1 e 4.2) che nell’area annessa (in cui ricade l’intervento edilizio) non sono autorizzabili arature profonde e movimenti di terra che alterino in modo sostanziale e/o stabilmente il profilo del terreno e, in relazione ai beni architettonici extraurbani (area annessa entro 100 metri dagli stessi beni), che non sono parimenti autorizzabili arature profonde, scavi ed altri lavori edilizi che incidano sulla natura e la morfologia del territorio.

Senonchè la difesa ha dedotto al riguardo la piena conformità dell’intervento alla disciplina dettata dal Putt (art. 3.08.4.2), in base al quale sono autorizzabili piani e/o progetti comportanti una serie di trasformazioni ivi indicate (manutenzione ordinaria e straordinaria, ristrutturazione di manufatti edilizi esistenti anche con cambio di destinazione d’uso; integrazione di manufatti esistenti per una volumetria aggiuntiva non superiore al 20%, etc.) fra le quali rientrano quelle eseguite dall’indagato (cfr. pagg. 8 ss. della memoria del 9.3.2007), aggiungendo che non è riscontrabile alcuna difformità delle opere rispetto al titolo permissivo, né sotto il profilo dell’aumento volumetrico, né della modifica della destinazione d’uso, la quale è coerente sia con la sua funzione originaria che con le prescrizioni dello strumento urbanistico locale. Con ciò, in sostanza, riaffermando la legittimità della pronuncia del Gip nella quale si è ritenuto che l’aumento di volume contestato è riferito alla realizzazione di un torrino scala (come tale costituente volume “tecnico” e comunque non eccedente il 20% di quello esistente) e in una cubatura “liberata”.

Di contro i consulenti tecnici dell’Ag procedente hanno invece conclusivamente individuato le seguenti violazioni: a) dal punto di vista urbanistico l’intervento non è conforme alla tipizzazione della zona contenuta nel Prg del comune di Bari (“Verde pubblico A-Verde urbano”), la quale non consentiva tale intervento volto al recupero della masseria per farne una struttura ricettiva turistico-commerciale con la previsione di stanze da letto, ristorante, piccola sala convegno; l’anzidetta tipizzazione non è mutata neppure a seguito della variante al Prg conseguente all’approvazione del Piano di Riqualificazione Urbana; il cambio di destinazione d’uso non è congruente neanche con le caratteristiche insediative rurali originarie (residenza rurale e connessa produzione agricola), come confermato dal parere sfavorevole all’istanza espresso l’11.7.2001 dall’Ufficio Tecnico comunale; b) dal punto di vista edilizio ed architettonico il progetto di recupero presenta diversi caratteri di alterazione delle forme e degli stili non assentibili in ragione della valenza architettonica di immobile qualificato dal Putt come organismo architettonico segnalato; c) dal punto di vista edilizio, trattandosi di zona destinata a verde pubblico, non poteva essere autorizzato alcun aumento di cubatura (ancorchè tecnica), tanto più che lo stesso incremento volumetrico copre abbondantemente la torre a due piani che rappresenta la parte più antica della masseria, talchè sorprende come il progetto abbia potuto ottenere il nulla osta della competente Soprintendenza, peraltro reso in soli sette giorni, in assenza di richieste documentali integrative e di sopralluoghi finalizzati a chiarire aspetti controversi; d) dal punto di vista paesaggistico è in contrasto con il Putt (“Componenti Geo-Morfo-Idrogeologiche-Corsi d’Acqua”), ricadendo entro 150 mt dal ciglio della lama in cui non sono assolutamente autorizzabili piani e/o progetti e interventi comporanti trasformazioni che compromettano la morfologia ed i caratteri d’uso del suolo (salvo quelli di recupero e ripristino ambientale) con riferimento al rapporto paesistico-ambientale esistente tra le presenze archeologiche ed il loro intorno diretto e più in particolare non sono assolutamente autorizzabili le arature profonde ed i movimenti di terra che alterino in modo sostanziale e/o stabilmente la morfologia del sito, fatta eccezione per le opere strettamente connesse con la difesa idrogeologica e relativi interventi di mitigazione degli impatti ambientali da questi indotti; cosicchè gli scavi in corso attorno al bene architettonico risultano minare l’assetto geomorfologico dell’area, dovendosi intendere come aratura profonda quell’incisione nel terreno per oltre 50 cm; e) dal punto di vista paesaggistico è in contrasto con il Putt (“Sistema Botanico-Vegetazionale e Colturale”) che prevede (art. 3.05.3.2), ai fini dell’allocazione di insediamenti abitativi e produttivi, la verifica tramite apposito studio di impatto paesaggistico sul sistema botanico-vegetazionale (per i dettagli si rinvia alle pagg. 6 ss. del decreto di sequestro preventivo d’urgenza ex art. 321.3-bis cpp depositato nella cancelleria del Gip il 27.4.2006).

Orbene, occorre avvertire a tal punto che l’esame delle divergenze emerse fra le parti, con la conseguente individuazione della soluzione da dare alle questioni prospettate, costituisce invero un’operazione necessariamente condizionata dai limitati poteri conoscitivi che l’ordinamento assegna al Tribunale dell’incidente cautelare nella fase di controllo di legalità dei provvedimenti in materia di sequestro.

E’ ben vero che il giudice del riesame non può esimersi dal tener conto delle contestazioni difensive incidenti sulla configurabilità della fattispecie penale ipotizzata. Tuttavia, il penetrante e minuzioso esame esplorativo di dati tecnici che la difesa chiede sia effettuato in questa sede, attraverso la produzione della consulenza di parte del 9.3.2007 a firma del prof. ing. De Salvia, non solo mal si concilia con il carattere di sommarietà del vaglio delibativo tipico di quest’organo decidente, ma finisce col comportare l’indebito travalicamento da parte del Collegio dei suoi confini “istituzionali” di cognizione, la quale invece non può mai tradursi in un anticipato giudizio che involga questioni suscettibili di verifica ed accertamento da parte del giudice competente nel merito. A fronte dei ristretti limiti cognitivi del presente procedimento, che sconta lo stato di fluidità delle acquisizioni investigative ed un elevato tasso di tecnicismo della materia, e dell’assenza di poteri di natura istruttoria tesi a comprovare l’affidabilità o meno di una metodica interpretativa e del relativo risultato conseguito (si allude ad esempio all’interpretazione fornita dalle parti circa le caratteristiche e la consistenza reale degli interventi edilizi eseguiti), il Collegio non può certo farsi carico di esprimere un definitivo giudizio di valore fra ricostruzioni tra loro contrastanti (la cui discordanza, a ben vedere, non può escludere comunque il fumus del reato ipotizzato), onde in presenza di tesi antagoniste non può trovare legittimo spazio una pronuncia che neghi validità all’originario titolo cautelare, specie ove quest’ultimo sia sorretto (come nel caso in esame) da rilievi tecnici adeguatamente dimostrativi della compatibilità fra l’ipotesi concreta e la fattispecie legale.

Nella relazione generale redatta dai consulenti tecnici del Pm l’attività di trasformazione urbanistico-edilizia in corso presso il cantiere della masseria è stata illustrata nei termini già descritti nei capi d’imputazione riprodotti nel decreto di sequestro preventivo d’urgenza (in breve: cambio di destinazione d’uso; significativa attività di sbancamento con una profondità di circa 3 metri per una sezione di circa 9x10 metri nella zona nord-est; l’area dello sbancamento a nord-ovest [attività funzionale a far emergere i locali interrati] investe una superficie di circa 35x10 mt ed ha raggiunto una profondità pari a circa 3,90 mt dal piano di campagna su un lato e 3,40 sul fronte opposto; il muro di recinto dell’orto è stato in parte demolito in due punti; aumenti volumetrici [assentiti in progetto anche se non ancora realizzati] sono riferibili alla costruzione di un corpo coprente la scala che consentirà di raggiungere il secondo livello del corpo centrale della masseria dove sono previste due delle sette camere da letto; infine difformità nelle piantumazioni delle nuove specie arboree e parziale difformità da quanto assentito della recinzione).

Ora, la circostanza che nell’area annessa alla masseria siano stati realizzati profondi sbancamenti non autorizzabili in base alle vincolanti prescrizioni dettate dal Putt (relativamente sia ai “corsi d’acqua” che ai “beni architettonici extraurbani”) rende già di per sé illecita l’attività edilizia compiuta, a nulla rilevando che nella stessa area siano autorizzabili interventi manutentivi, di consolidamento statico e di restauro conservativo di manufatti esistenti anche con cambio di destinazione d’uso ovvero l’integrazione di manufatti preesistenti per una volumetria aggiuntiva non superiore al 20%.

D’altra parte il Putt regionale subordina espressamente l’autorizzabilità di queste ultime tipologie di interventi di trasformazione del territorio a previe – nella specie insussistenti – “specificazioni di dettaglio che evidenzino particolare considerazione dell’assetto paesistico-ambientale dei luoghi…nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche” (art. 3.08.6), consentendo l’integrazione di manufatti legittimamente esistenti per un volumetria aggiuntiva non superiore al 20% (ma sempre nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche) “purchè finalizzata all’adeguamento di standards funzionali abitativi o di servizio alle attività produttive o connesse con il tempo libero e del turismo, che non alteri significativamente lo stato dei luoghi”. Laddove, nel caso in esame, viene in rilievo un’immutazione delle caratteristiche tipiche della zona paesaggisticamente tutelata non solo dal piano regionale, ma anche ai sensi della L. n. 431/1985, quanto alla classificazione come torrente del “Tiflis-Balice” (per i riferimenti normativi si rinvia alle pagg. 10 ss. del decreto di sequestro preventivo d’urgenza), e del Dm 1.8.1985, che dichiara di notevole interesse pubblico il territorio delle lame ad ovest e a sud-est di Bari.

Con una certa attinenza al caso in esame si è ritenuto (Cass., sez. VI, 3.4-8.6.2006, n. 19733, Petrucelli, rv. 234730) che sussiste il “fumus” del reato di cui all’art. 181 D.Lgs. n. 42 del 2004, idoneo a legittimare il sequestro preventivo, qualora, in zona sottoposta a vincolo storico e paesaggistico, siano realizzati scavi non corrispondenti alle previsioni del progetto e, quindi, senza il permesso di costruire e in difformità, ancorché essi non abbiano arrecato danno, considerato che il reato previsto dall’art. 181 D.Lgs. n. 42 del 2004 è un reato di pericolo che si consuma con la mera realizzazione di lavori, attività o interventi in zone vincolate senza la prescritta autorizzazione, con la conseguenza che è sufficiente che l’agente faccia del bene protetto un uso diverso da quello per cui esso è destinato, prescindendo da ogni accertamento in ordine alla avvenuta alterazione. Peraltro, un eventuale accertamento sulla idoneità astratta del comportamento a porre in pericolo il bene protetto non può essere imposto al giudice della fase cautelare, essendo demandato al giudice chiamato ad accertare la responsabilità penale dell’imputato.

Con specifico riguardo al tema delle difformità dell’intervento dal titolo abilitativo e ai profili di contrasto dello stesso con gli strumenti urbanistici, ritiene il Collegio che le censure dell’appellante, che si fondano sui rilievi formulati dai consulenti tecnici, si sostanzino in argomenti giuridicamente corretti.

Al di là della già indicata attitudine dell’intervento a compromettere il valore paesaggistico del bene nonché le caratteristiche morfologiche del territorio in cui esso è stato eseguito, va rilevato che il previsto aumento di cubatura conseguente al prolungamento del vano scale fino al raggiungimento delle camere da letto poste al secondo piano (il torrino non è ancora realizzato), sebbene sia quantificabile in 22 mc, non può essere ritenuto “volume tecnico” e non rientra fra gli incrementi di cubatura assentibili dal Putt.

In base alla circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 2474/1973, che richiama il parere espresso il 14.3.1972 dal Consiglio Superiore dei LL.PP., costituiscono “volumi tecnici” quei volumi che hanno stretta connessione con la funzionalità degli impianti tecnici indispensabili per assicurare il comfort abitativo degli edifici e che sono determinati dall’impossibilità tecnica di poterne prevedere l’inglobamento entro il corpo della costruzione realizzabile nei limiti della normativa. Il Consiglio Superiore ha quindi proposto la seguente definizione: “Devono intendersi per volumi tecnici, ai fini dell’esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, i volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l’eccesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (in giurisprudenza, cfr., da ultimo, Cass., sez. III, 12.1-15.2.2007, n. 51, Pacella Coluccia). A titolo esemplificativo il Consiglio Superiore fa presente che sono da considerare “volumi tecnici” quelli strettamente necessari a contenere i serbatoi idrici, l’extracorsa degli ascensori, i vasi d’espansione dell’impianto di termosifone, le canne fumarie e di ventilazione, il vano scala al di sopra delle linee di gronda. Non sono invece da intendere come “volumi tecnici” i bucatoi, gli stenditoi coperti, i locali di sgombero e simili. In ogni caso la sistemazione dei volumi tecnici non deve costituire pregiudizio per la validità estetica dell’insieme architettonico.

L’assunto al riguardo del consulente tecnico dell’indagato – secondo cui, essendo la ratio sottesa alla definizione dei “volumi tecnici” quella di escludere i volumi che possono essere trasformati successivamente in ambienti abitabili, il vano scala non è trasformabile in un vano abitabile – non può essere condiviso.

Nella specie il previsto torrino scala non risulta strettamente connesso con la funzionalità di un impianto tecnico, bensì di un vano ad uso residenziale (è asservito all’esigenza di consentire l’accesso a due camere da letto). Inoltre non sono state indicate le ragioni che ne impedivano il suo inglobamento entro il corpo della costruzione (di qui il legittimo dubbio, avanzato dal Pm, che detto inglobamento non sia stato previsto proprio al fine di non sottrarre spazio alla zona residenziale dell’edificio). Del resto, come si è già accennato, solo il vano scala al di sopra delle linee di gronda (cioè del perimetro inferiore delle falde dal quale sgronda l’acqua piovana) può costituire “volume tecnico”. Peraltro, l’invocabilità delle Nta del Putt (che prevedono un incremento assentibile non superiore al 20% della volumetria totale) è esclusa dal fatto che detta disciplina pianificatoria postula il previo rispetto delle prescrizioni urbanistiche mentre la zona in cui sorge la masseria è destinata a verde urbano dal Prg del comune di Bari. Tanto più che il volume che permette il collegamento alle stanze situate al secondo piano, poiché realizzato in forma di torrino che fuoriesce dalla costruzione preesistente, incide sulla visuale dell’antica torre risalente al 1500/1600 del complesso. Infine la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. V, 2.3.1994, n. 120, in Riv. Giur. Edilizia, 1994, I, 567) ritiene estraneo alla nozione di “volume tecnico” il volume del vano scale.

Sotto un analogo profilo si è stimato – da parte dei consulenti dell’accusa – in circa 200 mc. l’aumento volumetrico derivante dalle opere di scavo eseguite a ridosso del lato ovest della masseria.

Ebbene, se sulle altre questioni finora affrontate emerge fra le parti una contrapposizione valutativa che involge solo aspetti giuridico-normativi comunque risolvibili attraverso il ricorso agli ordinari strumenti ermeneutici, sul tema della natura ed entità delle opere testè menzionate, invece, si registrano divergenze e frizioni allo stato non definitivamente dissipabili in quanto vertenti sull’apprezzamento fattuale del tipo d’intervento realmente eseguito: da un lato i consulenti del Pm, a seguito dei sopralluoghi effettuati e sulla scorta dei rilievi fotografici, sostengono l’avvenuto compimento di una significativa attività di sbancamento, di cui si dà analiticamente conto nel capo A, n. 2, delle imputazioni; dall’altro lato, il consulente dell’indagato nega che a ridosso della masseria e nella zona ad ovest e in quella ubicata all’interno del cortile si sia realizzato uno scavo profondo affermando, viceversa, che i lavori sono semplicemente consistiti nella rimozione di rifiuti, nello svuotamento di materiali friabili e di riporto, in un’attività quindi di pulitura di detriti e delle macerie accumulate e nel ripristino del piano di campagna.

Cosicchè, a fortiori proprio in tal caso, non può non valere la preliminare puntualizzazione metodologica circa il limitato orizzonte cognitivo del Tribunale, che non può, anticipando la decisione di merito, valutare la concreta fondatezza dell’ipotesi accusatoria, dovendo piuttosto circoscrivere il proprio sindacato – sulla scorta delle prospettazioni investigative – all’astratta antigiuridicità obiettiva della condotta contestata.

Nel richiamare le osservazioni dei propri consulenti, il Pm ha evidenziato che lo scavo maggiore prodotto a ridosso del lato ovest della masseria è stato operato riportando alla piena “utilità” (come volumetria) i “semipogei” (locali quasi interrati) al piano di campagna fittizio in quanto realizzato al di sotto di quello vero e proprio. Si tratta di locali che, nell’antica utilizzazione del complesso masserizio, erano destinati a frantoio, stalle, etc. Per tali locali si è definita una nuova configurazione e si è realizzato un ampio e rinnovato prospetto, con bucature difformi dalle originarie per caratteri stilistici ed ampiezze. In ragione di tale trasformazione edilizia e volumetrica si è prodotta una rilevante difformità dell’opera rispetto agli strumenti edilizi e pianificatori comunali. Le cubature poste al di sotto del piano di campagna sono computate sulla base dei predetti strumenti al 50% come incidenza sul calcolo della volumetria totale. A causa di siffatta trasformazione, che ha consentito di far “emergere” in toto tali volumi, si è di fatto aumentata la volumetria sviluppata dalla “masseria Maselli” dell’ulteriore residuale 50% (determinato appunto dagli ambienti seminterrati realizzati). Tale aumento di volumetria è stimabile all’incirca in 200 mc. Inoltre, che si possa parlare di scavo profondo è dimostrato dalla documentazione fotografica acquisita dalla quale emerge l’escavazione (in sezione larga) del banco di calcarenite (formazione calcarea tipica del territorio pugliese) e da cui si evince il tipo di mezzo tecnico utilizzato (cingolato con benna meccanica). La circostanza che sia stato intaccato il banco di calcarenite con interventi distruttivi dello stesso dimostra che i lavori di escavazione si sono spinti fino al di sotto del piano di campagna al fine di sviluppare nuove cubature utili a creare ampie e confortevoli (anche per l’altezza dei soffitti) sale di ristorazione. Del resto, dalla relazione geotecnica allegata alla denuncia di opere in cemento armato si desume che dopo appena 30 cm. di terreno vegetale si è già in presenza di un banco calcareo di notevole potenza e buone caratteristiche di resistenza meccanica, il che ha indotto ad interrompere la descrizione stratigrafica e ad utilizzre escavatori cingolati con benna meccanica. L’utilizzazione finale dello spazio antistante il nuovo prospetto (impostato sugli antichi semipogei) è univocamente evidenziata dal setto murario che non a caso è stato irrobustito da una colata di calcestruzzo quale muro di contro-terra, utile a trasformare semplici “scavi di servizio” in sala ristorazione della quale le aperture a valle e a monte costituiscono gli accessi (tali deduzioni, tese ad evidenziare la compattezza e resistenza del sedime e l’incongruenza della pesante dotazione strumentale usata per eseguire semplici lavori di pulizia dei detriti, sono state ribadite nelle note relative alle memorie di parte redatte dai consulenti del Pm il 3.7.2006).

Tuttavia la conclusione cui giunge l’Ufficio inquirente, secondo cui con le suddette operazioni di scavo si è prodotto un aumento di cubatura nell’ordine di circa 200 mc., è avversata dal consulente della difesa, il quale sostiene che la “liberazione” dei semipogei (cioè di volumi esistenti “entro terra”) di un edificio preesistente non può dar luogo ad un aumento di volumetria.

Invero, nella specie – in ragione della già evidenziata assenza di poteri istruttori da parte del Tribunale e della sommarietà del suo sindacato sui fatti – deve in contrario rilevarsi come gli eseguiti lavori di scavo abbiano determinato l’alterazione originaria (con una nuova definizione) del piano di campagna dell’edificio (cfr. in argomento Cons. Stato, sez. V, 1.7.2002, n. 3589, Immobiliare Costruzioni 2 FP sas c/ comune di Fabriano) ed una rinnovata configurazione dei prospetti e dei locali sotterranei (con la modificazione del loro stato primigenio al fine di adattarli ad un impiego diverso rispetto alla loro funzione naturale), così realizzandosi opere non rientranti tra quelle consentite ed aventi una loro autonomia e novità sia sul piano dell’utilizzabilità che su quello della valutazione economico-sociale, le quali opere, comportando un aumento di volumetria, la durevole trasformazione dell’area interessata, un’incidenza sull’assetto del territorio ed un aggravio del carico insediativo, risultano effettuate in assenza di un legittimo permesso di costruire e/o in totale difformità dal titolo edilizio assentito.

D’altronde, è vero che le opere di ristrutturazione edilizia non sono vincolate al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio esistente e possono quindi apportare ad esso integrazioni funzionali e strutturali anche con modifiche della superficie e dei volumi (nel caso di interventi di ristrutturazione che non comportino la previa demolizione), ma dette variazioni non possono però sconfinare in incrementi consistenti giacchè, in tal caso, verrebbe meno la distinzione fra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione (così, da ultimo, Cass., sez. III, 14.12.2006-23.1.2007, n. 1893, Cristiano).

Residua conclusivamente la questione relativa alla pretesa conformità del mutamento di destinazione d’uso della masseria allo strumento urbanistico comunale (“verde pubblico di tipo A-verde urbano”).

In base alle deduzioni difensive fatte proprie dal Gip, l’attività alberghiera cui è finalizzata l’attività di ristrutturazione è assimilabile all’originaria attività agricolo-produttiva della masseria e alle attività di tempo libero previste nella zona. Aggiungendosi che la preesistenza dell’immobile all’approvazione dello strumento urbanistico comunale (che destina la zona di che trattasi a verde pubblico), in base al principio delle “preesistenze vincolanti”, rende la modifica della sua destinazione d’uso insensibile alle previsioni del Prg.

In realtà – come è stato rimarcato nell’atto d’appello – se appare comprensibilmente legittima la tutela della destinazione d’uso di immobili preesistenti allorchè essa si ponga in conflitto con le nuove previsioni del piano regolatore generale che non potranno vanificare la prosecuzione dell’attività già intrapresa (in ciò sostanziandosi il cd. principio delle “preesistenze vincolanti”), non eguale tutela potrà spettare nel caso di intervenuta modifica della destinazione d’uso successivamente all’adozione dello strumento urbanistico che preveda una specifica tipizzazione della zona. Se il Prg destina un’area determinata a verde pubblico, deve escludersi che lo stesso possa legittimamente inibire la preesistente destinazione d’uso (ad esempio alberghiera) già impressa all’immobile. Ma se si chiede la modifica della destinazione nella vigenza dello strumento urbanistico, in tal caso essa non potrà che conformarsi alle previsioni di “zonizzazione” introdotte dal Prg.

Il mutamento di destinazione d’uso di un immobile è stato qualificato come attività volta a vincolare in maniera non precaria una costruzione ad una determinata utilizzazione, classificabile fra quelle correnti in materia urbanistica, qualora si realizzi in contrasto con la previsione dell’atto di concessione (Cass., sez. III, 13.6-7.9.1983, n. 7404, Guerrera).

I giudici amministrativi hanno chiarito che, allo scopo di stabilire se vi sia stata modifica della destinazione d’uso di un manufatto edilizio, deve tenersi conto non tanto delle concrete modalità di utilizzazione del bene, quanto piuttosto delle oggettive attitudini funzionali acquisite dal bene stesso dopo i lavori (Cons. Stato, 24.10.1996, n. 1268, in Cons. Stato, 1996, I, 1517) e che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell’ambito della stessa categoria possono aversi trasformazioni di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi (ex plurimis Cons. Stato, 14.10.1992, n. 1005, in Corr. Giuridico, 1993, 539; Cons. Stato, 13.2.1993, n. 245, in Cons. Stato, 1993, I, 396; Cons. Stato, 1995, n. 80, in Foro It., 1995, II, 546).

Si è anche recentemente precisato (Cons. Stato, sez. V, 23.1.2006, n. 204, Gengari c/ Comune di Foggia) che, ai fini della valutazione dell’incidenza di un intervento edilizio sulla destinazione d’uso dell’area interessata, non può valere il richiamo alle categorie di cui all’art. 5 del Dm n. 1444 del 1968, le quali unificano tipologie insediative diverse al solo ed esclusivo fine di prescrivere i rapporti massimi tra gli spazi coperti e gli spazi pubblici da destinare alle attività collettive, a verde pubblico e a parcheggio. E’ al regime urbanistico stabilito dagli strumenti urbanistici vigenti per l’area considerata, invece, che si deve fare riferimento per verificare la realizzabilità di determinati interventi edilizi in quell’area. Di conseguenza realizza una modificazione della destinazione d’uso e della categoria edilizia dell’immobile, e pertanto non è realizzabile mediante denuncia di inizio attività ex art. 22 2° co del D.P.R. n. 380 del 2001, l’intervento edilizio che muti la destinazione dell’immobile da commerciale a direzionale (tipologie insediative unificate dall’art. 5 co.1 n.2) del Dm n. 1444 del 1968) laddove il piano di zona preveda la realizzabilità di soli edifici con destinazione commerciale.

Da ciò deriva la non assimilabilità ed omogeneità funzionale fra l’originaria destinazione agricolo-produttiva e quella turistico-ricettiva attualmente impressa all’immobile. L’attività alberghiera è un’attività d’impresa che non può dirsi compatibile con la destinazione agricola di una zona (per alcuni riferimenti giurisprudenziali, cfr. nota 10 dell’atto di appello), per giunta ad alta vocazione paesaggistico-ambientale in ragione della presenza di vincoli aventi la predetta natura.

Le Nta del Prg del comune di Bari determinano per le aree a verde pubblico i seguenti profili di destinazione, che risultano non congruenti rispetto all’attuale destinazione d’uso della masseria: siano destinate a tempo libero e siano di proprietà pubblica. In esse sono curate le alberature e realizzati nuovi impianti arborei per la creazione di parchi e giardini e possono essere ubicate attrezzature per lo svago come chioschi, bar, teatri all’aperto, impianti sportivi per l’allenamento e lo spettacolo. E’ significativo in proposito che l’originario progetto di ristrutturazione per il recupero ed il cambio di destinazione d’uso della “masseria Maselli-Gironda”, presentato il 4.8.2000, ha ricevuto il parere sfavorevole della Commissione Urbanistica l’11.7.2001 a causa della non conformità al Prg (“verde pubblico”), della sua incoerenza con le caratteristiche insediative rurali originarie del bene e dell’alterazione di molteplici caratteri architettonici dello stesso immobile, compreso nell’atlante del Putt quale “bene con segnalazione architettonica”. Anche se in seguito il medesimo progetto era assentito il 6.5.2005 con il permesso di costruire ancorchè nulla fosse cambiato in ordine alla tipizzazione del territorio comunale e al regime vincolistico dell’area.

Dimodochè l’originaria attività agricolo-produttiva e quell’attuale turistico-ricettiva non possono ritenersi usi e funzioni riconducibili ad una medesima categoria urbanistica come predeterminata dal Prg. Il mutamento di destinazione d’uso richiesto assume, infatti, giuridica rilevanza in quanto l’intervento persegue uno scopo di utilizzo del territorio difforme da quello tipicamente ammesso dal locale strumento urbanistico, si risolve in una trasformazione permanente dello stesso territorio e in modifiche volumetriche ed incide infine sul carico urbanistico, onde al riguardo il permesso di costruire rilasciato non può ritenersi legittimo.

Quest’ultimo tema, relativo al reato di costruzione abusiva a fronte dell’illegittimità del permesso di costruire, ha costituito oggetto di un ampio approfondimento da parte di Cass., sez. III, 21.3-21.6.2006, n. 21487, Pm Siracusa in proc. Tantillo (i cui rilievi sono stati poi ripresi da Cass., sez. III, 28.9-12.12.2006, n. 40425, Consiglio), la cui illuminante trama motivazionale merita di essere qui di seguito integralmente trascritta nei suoi termini testuali.

Fu la giurisprudenza pretorile, negli anni ‘70, a ricondurre alla carenza di concessione edilizia le ipotesi di lavori eseguiti sulla base di concessione illegittima: cioè viziata, o per inosservanza dei presupposti formali di legittimità, o in violazione del vincolo di inedificabilità stabilito dalla legge in assenza di strumenti urbanistici, ovvero in contrasto con i limiti imposti dalla pianificazione vigente.Venne affermato che, in ipotesi siffatte, il giudice penale – avvalendosi dei poteri attribuiti al giudice ordinario dall’art. 5 della legge 20.3.1865, n. 2248, all. E) – può compiere una valutazione del titolo abilitativo, al fine di verificarne la legalità.
Qualora egli riscontri eventuali vizi di illegittimità, può disapplicare l’atto amministrativo illegittimo, considerando ad ogni effetto i lavori come eseguiti in assenza di titolo abilitante.Questa Corte Suprema non assunse, al riguardo, un orientamento uniforme, in quanto: talune decisioni affermarono che l’illegittimità della concessione fosse assimilabile alla mancanza della stessa;
altre distinsero tra concessione illegittima e concessione illecita, escludendo – nel primo caso – la sussistenza di un presupposto essenziale del reato; altre ancora ravvisarono, nell’ipotesi di concessione illegittima, la violazione dell’art. 17, lett. a), della legge n. 10/1977 e non quella più grave di cui alla lett. b). La tesi della “disapplicazione” venne confutata da autorevole dottrina, sull’assunto che l’art. 5 della legge n. 2248/1985 non può spiegare alcuna efficacia nell’ambito del processo penale, in quanto questo non è rivolto alla tutela di diritti soggettivi, bensì all’accertamento della corrispondenza di un fatto alla fattispecie incriminatrice.
Non vi è, insomma, una parte che possa chiedere al giudice il disconoscimento di una disciplina imposta da un provvedimento amministrativo illegittimo, con sacrificio di relazioni giuridiche alle quali esso partecipa; il provvedimento illegittimo, invece, potrebbe costituire soltanto il presupposto di un reato. Alcuni Autori asserirono, al riguardo, che la disapplicazione si risolverebbe, agli effetti penali, in una forma di retroattività “in malam partem”, dal momento che, con essa, si qualificherebbe postumamente illecita una condotta posta in essere in conformità ad un titolo assistito dalla presunzione di legittimità degli atti amministrativi, che è principio generale del nostro ordinamento. Un notevole contributo alla configurazione della questione venne fornito da questa III Sezione penale con l’ordinanza 13.3.1985 (ric. Meraviglia), ove si affermò perentoriamente che la norma incriminatrice all’epoca posta dall’art. 17, lett. b), della legge n. 10/1977 ricollegava la sanzione penale alla “insussistenza” del provvedimento amministrativo e non anche alla sua “illegalità”. In decisioni successive questa Sezione ribadì che il giudice penale deve controllare soltanto l’esistenza dell’atto sulla base dell’esteriorità formale e della sua provenienza dall’organo legittimato ad emetterlo, ulteriormente precisando che deve parlarsi di assenza dell’atto non solo qualora esso sia stato emesso da un organo assolutamente privo del potere di provvedere, ma anche qualora il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia e del soggetto privato che lo consegue e, quindi, non sia riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri (cfr. Cass., Sez. III, 31.3.1986, ric. Ainora). Il contrasto giurisprudenziale rese opportuno l’intervento delle Sezioni Unite e queste – con decisione del 31.1.1987, ric. Giordano – statuirono che “il potere del giudice penale di conoscere della illegittimità della concessione edilizia non è riconducibile al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo riconosciutogli dagli artt. 4 e 5 della legge n. 2248 del 1865, all. E), ma deve trovare fondamento o giustificazione o in esplicita previsione legislativa ovvero nell’ambito della interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora l’illegittimità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa”. Le Sezioni Unite affermarono, nella sentenza Giordano, che – dalla lettura congiunta degli artt. 4 e 5 della legge del 1865 – “si evince chiaramente che le norme in questione non introducono affatto un principio generalizzato di disapplicazione di atti amministrativi illegittimi da parte del giudice ordinario (sia esso civile o penale) per esigenze di diritto oggettivo, ma che, al contrario, il controllo sulla legittimità dell’atto amministrativo è stato rigorosamente limitato dal legislatore ai soli atti incidenti negativamente sui diritti soggettivi ed alla specifica condizione che si tratti di accertamento incidentale, che lasci persistere gli effetti che l’alto medesimo è capace di produrre all’esterno del giudizio. Ne consegue, pertanto, che la normativa in questione non può trovare applicazione per quegli atti amministrativi che, lungi da comportare lesione di un diritto soggettivo, rimuovono invece un ostacolo al loro libero esercizio (nulla-osta, autorizzazioni) o addirittura li costituiscono (concessioni). Opinare diversamente non solo comporta l’estensione al diritto oggettivo di una regola dettata unicamente a tutela dei diritti soggettivi, ma comporta altresì – con violazione del principio della divisione dei poteri – l’attribuzione al giudice penale di un potere di controllo e d’ingerenza esterna sull’attività amministrativa e, quindi, l’esercizio di un’attività gestionale che dalla legge è, invece, demandata in esclusiva ad altro potere dello Stato. Ciò, peraltro, non esclude che, in determinati casi, il giudice penale non possa egualmente conoscere della illegittimità dell’atto amministrativo. Tale possibilità, tuttavia, non è riconducibile al potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo riconosciutogli dagli artt. 4 e 5 della legge del 1865, ma deve, invece, trovare fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa (come, ad esempio, avviene con il disposto dell’art. 650 cod, pen.) ovvero, nell’ambito dell’interpretazione ermeneutica della norma penale, qualora l’illegittimità dell’atto amministrativo si presenti, essa stessa, come elemento essenziale della fattispecie criminosa”. Sulla base di tali principi affermarono le Sezioni Unite che la disposizione di cui all’art. 17, lett. b), della legge n. 10/1977 non poteva considerarsi “funzionale alla tutela dell’interesse all’osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l’attività edilizia”, poiché “l’interesse tutelato da tale norma è quello pubblico di sottoporre l’attività edilizia al preventivo controllo della P.A., con conseguente imposizione, a chi voglia edificare, dell’obbligo di richiedere l’apposita autorizzazione amministrativa”.Un netto dissenso dall'anzidetto orientamento venne espresso in una successiva sentenza (Cass., Sez. III, 9.1.1989, n. 2766, ric. Bisceglia), ove si affermò che la questione doveva essere riesaminata alla stregua dei principi informatori della legge n. 47/1985, avendo tale legge profondamente mutato l’oggetto stesso della tutela penale, incentrata ormai sul criterio sostanziale della conformità delle opere alla normativa urbanistica. Al giudice penale venne riconosciuta così la potestà di non tenere conto dell’atto amministrativo illegittimo, essendo divenuta la illegittimità dell’atto essa stessa un elemento essenziale della fattispecie criminosa. La Corte Costituzionale – con ordinanza 11/14 giugno 1990, n. 288 – confermò l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza Giordano (ritenendolo espressamente non superato dall’anzidetta decisione) secondo il quale il giudice penale non può disapplicare il provvedimento amministrativo, salvo i casi di lesione di diritti soggettivi o di illiceità penale, soggiungendo però che “l’illiceità penale di una concessione non deriva soltanto dalla collusione (tra richiedente ed autorità amministrativa), ma da qualsiasi violazione della legge penale che abbia a viziare il momento formativo della volontà della Pubblica Amministrazione”. Seguirono ulteriori oscillazioni giurisprudenziali per cui le Sezioni Unite hanno avuto occasione di pronunciarsi nuovamente sulla questione e – con la sentenza 12.11.1993, ric. Borgia – hanno affermato che “al giudice penale non è affidato, in definitiva, alcun sindacato sull’atto amministrativo, ma questi, nell’esercizio della potestà penale, è tenuto ad accertare la conformità fra l’ipotesi di fatto (opera esegue o eseguita) e la fattispecie legale (identificata dalle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia, dalle previsioni degli strumenti urbanistici e dalle prescrizioni del regolamento edilizio). Il complesso di tali disposizioni, previsioni e prescrizioni, tutte insieme considerate, costituisce il parametro organico per l’accertamento della liceità o dell’illiceità dell’opera edilizia e ciò in quanto l’oggetto della tutela penale apprestata dall’art. 20 della legge n. 47/1985 [oggi art. 44 del T.U. n. 380/2001] non è più - come nella legge n. 1150 del 1942 - il bene strumentale del controllo e della disciplina degli usi del territorio, bensì la salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio medesimo”. In questa prospettiva, nell’ipotesi di realizzazione di opere di trasformazione del territorio in violazione dell’anzidetto parametro di legalità urbanistica ed edilizia, il giudice non deve concludere per la mancanza di illiceità penale solo perché sia stato rilasciato il permesso di costruire: questo, infatti, “nel suo contenuto, nonché per le caratteristiche strutturali e formali dell'atto, non è idoneo a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici…Né il limite al potere di accertamento penale del giudice può essere posto evocando l’enunciato dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E), in quanto tale potere non è volto ad incidere sulla sfera dei poteri riservati alla Pubblica Amministrazione, e quindi ad esercitare un’indebita ingerenza, ma trova fondamento e giustificazione in una esplicita previsione normativa, la quale postula la potestà del giudice di procedere ad un’identificazione in concreto della fattispecie sanzionata”. In seguito a quest’ultimo intervento delle Sezioni Unite, alcune decisioni di questa Corte considerarono il reato di cui all’art. 20, lett. a), della legge n. 47/1985 come l’unica fattispecie penale configurabile nell’ipotesi di illegittimità dell’atto concessorio, escludendo comunque l’elemento soggettivo della contravvenzione medesima quando la violazione delle norme urbanistiche (leggi, strumenti di pianificazione, regolamenti) non fosse “grossolana o macroscopica” (vedi Cass., sez. III: 19 ottobre 1992, Palmieri e 21 maggio 1993, P.M. in proc. Tessarolo). Successivamente, però, questa Corte ha rilevato che il giudizio (ric. Borgia) conclusosi con la pronunzia delle Sezioni Unite aveva ad oggetto una fattispecie inquadrabile nella previsione dell’art. 20, lett. a), ma che i principi affermati con quella pronunzia hanno valore e portata generale in relazione a tutte e tre le fattispecie attualmente previste dall’art. 44, poiché esse tutte tutelano il medesimo interesse sostanziale dell’integrità del territorio. A fronte dell’evoluzione interpretativa dianzi compendiata, ritiene questo Collegio di dover affermare e ribadire i principi secondo i quali:
a) il giudice penale, allorquando accerta profili di illegittimità sostanziale del titolo abilitativo edilizio, procede ad un’identificazione in concreto della fattispecie sanzionata e non pone in essere alcuna “disapplicazione” riconducibile all’enunciato dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E), né incide, con indebita ingerenza, sulla sfera riservata alla Pubblica Amministrazione, poiché esercita un potere che trova fondamento e giustificazione nella stessa previsione normativa incriminatrice; b) la “macroscopica illegittimità” del provvedimento amministrativo non è condizione essenziale per la configurabilità di un’ipotesi di reato ex art. 44 del T.U. n. 380/2001; mentre (a prescindere da eventuali collusioni dolose con organi dell’amministrazione) l’accertata esistenza di profili assolutamente eclatanti di illegalità costituisce un significativo indice di riscontro dell’elemento soggettivo della contravvenzione contestata anche riguardo all’apprezzamento della colpa; c) spetta in ogni caso al giudice del merito, e non certo a quello del riesame di provvedimenti di sequestro, la individuazione, in concreto, di eventuali situazioni di buona fede e di affidamento incolpevole.

È la stessa descrizione normativa del reato che impone quindi al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, ivi compreso l’atto amministrativo (così Cass., sez. III, 29.1-26.3.2001, n. 11716, Pm Bari in proc. Matarrese, rv. 221197-221206, che richiama, per un’ampia disamina sul tema, Cass., sez. III, 21.1-3.3.1997, n. 146, Volpe, rv. 207596-207598).

Si è poi acutamente osservato che, a norma dell’art.101 Cost., il giudice è soggetto “soltanto” alla legge e non sarebbe soggetto soltanto alla legge un giudice penale che arrestasse il proprio esame all’aspetto esistenziale e formale di un atto sostanzialmente contrastante con i presupposti legali (cfr. la citata sentenza Matarrese che rinvia per detta affermazione a Cass., sez. III, 24.1-3.5.1996, n. 4421, Oberto, rv. 204885).

A proposito invece del “carico urbanistico” si è testualmente osservato (Cass., Sezioni Unite, 29.1-20.3.2003, n. 12878, Pm Ancona in proc. Innocenti) che questa nozione deriva dall’osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento cd. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all’insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche delle attività da costoro svolte. Quindi, il carico urbanistico è l’effetto che viene prodotto dall’insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio. Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti di diritto urbanistico: a) negli standards urbanistici di cui al Dm 2.4.1968 n. 1444 che richiedono l’inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone; b) nella sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento; c) nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione; d) nell’esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni contributo per le opere interne (art. 26 legge n. 47/1985 e art. 4 comma 7 legge 493/1993) che non comportano la creazione di nuove superficie utili, ferma restando la destinazione dell’immobile; e) nell’esonero da sanzioni penali delle opere che non costituiscono nuovo o diverso carico urbanistico (art. 10 L. n. 47/1985 e art. 4 L. 493/1993).

In sostanza, se l’ordinato e razionale assetto distributivo del territorio (la cui tutela costituisce l’oggetto precipuo della normativa penale in materia urbanistica) può essere turbato non solo dalla realizzazione, ma anche dall’uso e dal godimento della costruzione abusiva, allora l’intervenuta modifica – nel caso di che trattasi – della destinazione della masseria compromette l’equilibrio urbanistico esistente e pianificato della zona in quanto implica una nuova domanda di infrastrutture destinate ad aggravare il carico urbanistico con l’aumento del traffico, la necessità di nuovi parcheggi e dei connessi servizi strumentali.

D’altra parte se si volge per un istante lo sguardo alle Regioni che hanno finora inteso dettare una disciplina normativa in materia di destinazione d’uso degli immobili (cfr. ad esempio le leggi n. 19/1999 del Piemonte, n. 1/2005 della Toscana, n. 52/1991 [modificata dalla L. n. 7/2001] del Friuli-Venezia Giulia, n.11/1998 [modificata dalla L. n. 21/2003] della Valle d’Aosta, n. 19/2002 della Calabria), appare evidente come l’attività agricola (con tutte le funzioni produttive connesse, compresa anche quella abitativa degli operatori agricoli) sia sempre inserita in una categoria diversa rispetto alle destinazioni ad uso alberghiero e turistico-ricettivo e sia assolutamente non assimilabile ad esse (peraltro alcune legislazioni regionali mostrano un certo rigore nella regolamentazione del mutamento della destinazione d’uso: lo ravvisano anche in assenza di opere edilizie e lo assoggettano comunque a permesso di costruire allorchè il mutamento in parola avvenga nelle zone agricole).

In definitiva, fatti salvi i futuri approfondimenti istruttori, allo stato, sulla scorta della documentazione fotografica in atti e attesa la natura e l’entità dei lavori eseguiti (scavo e sbancamento di terreno di significative dimensioni e profondità), è astrattamente ipotizzabile – a parte i reati previsti dagli artt. 44 lett. c) Dpr n. 380/2001 e 181 D.lvo n. 42/2004 – anche l’illecito di cui all’art. 734 cp giacchè si è verificata una concreta alterazione delle caratteristiche naturalistiche del luogo protetto, con un pregiudizio arrecato anche al suo godimento visivo ed estetico.

Di qui l’esigenza di ripristinare con effetti immediati il sequestro preventivo su res collegate ai reati ipotizzati al fine di ricreare sulle stesse un’indisponibilità fisica e giuridica funzionale ad impedire l’aggravamento o la protrazione delle conseguenze di essi ovvero la commissione di altri reati. L’applicanda misura cautelare reale manifesta, dunque, la sua funzione preventiva che si proietta su cose che, postulando un vincolo di pertinenzialità con il reato, vengono riguardate dall’ordinamento come strumenti la cui libera disponibilità può costituire situazione di pericolo (cfr., sul punto, Corte Cost. n. 48/1994).

Pertanto, le opere di cui si ridispone il sequestro costituiscono instrumenta sceleris, cioè cose che hanno reso possibile la commissione dei reati contestati, ponendosi come mezzi diretti ed indispensabili per la perpetrazione degli illeciti. Sicchè la loro libera disponibilità comporterebbe il concreto rischio di ripresa dell’attività edificatoria con il completamento dei lavori, perpetuando ed aggravando gli effetti dannosi delle violazioni delle norme dettate in materia urbanistico-edilizia e paesaggistica ed agevolando la commissione di altre analoghe condotte antigiuridiche.

L’immediata esecutività del sequestro preventivo disposto in questa sede dal Tribunale è giustificata non solo dalla necessità ed urgenza di impedire che medio tempore siano proseguiti e completati i lavori edilizi con ulteriore compromissione dei valori territoriali e paesaggistici, ma anche dall’inoperatività della regola stabilita dal 3° comma dell’art. 310 cpp nel caso di accoglimento dell’appello proposto dal Pm avverso il provvedimento di revoca del sequestro preventivo. Sul punto il Collegio condivide quell’indirizzo interpretativo (espresso da Cass., sez. III, 14.12.1995, Angotti, in Riv. Giur. Edil., 1996, 600), che, facendo leva sull’incontestabile diversità funzionale fra le misure cautelari personali e reali e sul differente grado di rilevanza costituzionale tra il bene della libertà personale e quello della proprietà privata, ritiene immediatamente esecutiva l’ordinanza con cui il Tribunale del riesame accoglie l’appello ex art. 322-bis cpp proposto dal Pm.

P.Q.M.

Accoglie l’appello e, per l’effetto, annulla l’ordinanza emessa il 22.7.2006 dal Gip del Tribunale di Bari nei confronti di SIMONE Giovanni, disponendo il sequestro preventivo, immediatamente esecutivo, della “masseria Maselli-Gironda” e dell’area annessa interessata dai lavori edilizi e di scavo.

Si dà mandato alla cancelleria per gli adempimenti di rito, tra cui la trasmissione di copia della presente ordinanza al Pm in sede per l’esecuzione del disposto sequestro preventivo.

Così deciso in Bari, il 2 aprile 2007

IL GIUDICE EST. IL PRESIDENTE

Ordinanza depositata in cancelleria il___________

Il cancelliere