I MATERIALI QUOTATI IN BORSA,
DA RIFIUTI RECUPERABILI, TORNANO PRODOTTI….
di Pasquale GIAMPIETRO
1.
Premesse storiche
Con il decreto-legge 8 luglio
2002, n. 138, entrato in vigore lo stesso giorno della sua pubblicazione e
convertito in legge n. 178 dell'8
agosto 2002 (in S.O. n. 168 della Gazz. Uff. 10 agosto 2002, n. 187), il
legislatore italiano ha introdotto, nel nostro ordinamento giuridico, una norma (art. 14) di "interpretazione
autentica della definizione di rifiuto, di cui all'art. 6, comma 1, lett. a) del
decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22" (più noto come
"decreto Ronchi"), volta a
meglio definire gli esatti termini
di tale nozione giuridica la
quale, fra l'altro, mi sembra sia
destinata ad incidere, in modo significativo e diretto, su quei residui di
produzione e di consumo da tempo
indicati come "materiali quotati in
borsa".
Si tratta di quelle sostanze,
già individuate ed elencate nell'Allegato I del D.M. 5 settembre 1994, con le
relative "specifiche merceologiche", per le quali esistevano
"quotazioni" presso le borse merci o listini e mercuriali
ufficiali, istituiti presso le camere di commercio.
Tali materiali, esclusi dal
campo di applicazione del DPR. n. 915/1982, dovevano essere considerati, nel
previgente sistema, materie prime o prodotti, a tutti gli effetti, in quanto,
pur derivando, come residui, da molteplici settori produttivi (alimentare,
cartario, chimico, del cuoio, detergenti, gomme,
inerti, legno, plastiche, rottami ferrosi e non ferrosi, tessile, vetro ecc.),
erano destinati al riutilizzo diretto, sostanzialmente tal
quali o dopo trattamenti preliminari minimi,
avendo conservato un loro rilevante valore economico ed un proprio
mercato assai attivo (si veda l'art. 2 del D.M. 1994 cit., che li denominava
"residui destinati al riutilizzo", ai sensi e per gli effetti di cui
all'art. 5, comma 1 del d.l. n.3/1995,
cioè per la loro esclusione dal regime dei rifiuti).
Il contrasto della normativa
emergenziale - sui residui produttivi e
sui materiali quotati in borsa - con la normativa comunitaria, tempestivamente
evidenziata da note pronunce della Corte di giustizia (v. oltre), così
come la successiva legislazione di trasposizione delle nuove direttive
comunitarie in materia di gestione dei rifiuti (attuata con il decreto Ronchi)
hanno indotto il legislatore del '97 a "ricacciare",
come è noto, i materiali quotati
in borsa nell'area dei "rifiuti recuperabili".
Tanto si desume, in modo
testuale e inequivocabile, dalle molte "voci" elencate nell'Allegato 1, Suballegati 1, del D.M. 5.2.1998, in cui è
dato constatare che, proprio in ordine a quei "rifiuti" (non più
"residui") derivanti dagli stessi settori della carta, del
legno, del vetro, dei metalli, delle plastiche, ecc. (cioè, per parlar
chiaro, in
relazione agli ex-materiali quotati in borsa), la descrizione delle "Attività di recupero" (sempre indicata in base al
principio di tassatività e tipicità delle attività di recupero, ex art. 1,
comma 2, dello stesso decreto), viene espressa con identica formula, impropria e
generica, di "riutilizzo diretto..
nell'industria cartaria.., vetraria.. in impianti metallurgici, .. di seconda
fusione", ecc…
Come dire che il
"riutilizzo diretto" - di cui il Governo non fornisce alcuna specificazione, con riferimento alle attività del recupero (fra l'altro confuse con la distinta fase del
riutilizzo, presso terzi, del
prodotto dell'attività di recupero…
) - avviene senza
alcuna effettuazione, da parte dell'impresa acquirente, anche oggi come
ieri, di trattamenti di "recupero" (che,
in effetti, mancano, semplicemente perché… non sono necessari)!
2.
Gli exmercuriali e l'art. 14.
Che sorte avranno gli
ex-mercuriali - sino all'estate 2002.... rifiuti recuperabili - dopo l'ingresso,
assai sofferto e contestato, dell'art. 14 del d.l. n. 138/2002 nel corpo vivo
della normativa sulla gestione dei rifiuti?
Per rispondere al rilevante
interrogativo (non solo teorico ma soprattutto economico, con riferimento
all'evocato mercato di quei residui
produttivi) occorre chiedersi quali siano state le
ragioni sostanziali (oltre a quelle contingenti) che hanno indotto il
Governo ad emanare il richiamato decreto, e, immediatamente dopo, quale sia il
significato "accettabile" (oltre che testualmente ricostruibile) del
nuovo disposto.
Come è noto, le ragioni occasionali
di tale intervento è stato spiegato dall'Esecutivo con il
temuto blocco delle attività della industria siderurgica, a causa del
sequestro di intere partite di rottami ferrosi, disposto dalla Procura di Udine,
nel porto di Marghera (in quanto ritenuti rifiuti), con
effetti considerati paralizzanti e di diffusa confusione tra gli operatori
portuali, gli operatori commerciali e le acciaierie (che li
commercializzavano e utilizzavano secondo il regime giuridico delle
merci o materie prime secondarie), "… non più in grado di
programmare normalmente il lavoro, non potendo avere la certezza del flusso
della materia prima necessaria alla produzione" (tanto si legge nella
Relazione governativa al decreto-legge).
Ma i problemi connessi ad una più
chiara definizione del concetto di rifiuto - come sostanza od oggetto
destinato, dal suo detentore, ad operazioni di recupero o di smaltimento -
sono assai più complessi e remoti.
Essi risalgono alla prima
legge-quadro sullo smaltimento dei rifiuti (cioè al DPR. n. 915/1982, allorché
si evidenziò che, a fronte della "sostanza
abbandonata o destinata all'abbandono", si davano ipotesi, diverse e contrarie, di sostanze non abbandonate ma
riutilizzate); proseguono e si radicalizzano, in epoca successiva, con
l'entrata in vigore del decreto Ronchi cit., ove ritroviamo chiare testimonianze
di una persistente contrapposizione
tra la nozione di rifiuto (sottoposto ad una disciplina assai penetrante e
severa) e quella di residuo produttivo o
di consumo (riutilizzabile e) riutilizzato
"tal quale", dallo stesso produttore o da terzi - senza necessità
di attività di recupero, vero e proprio (v.,
per es., l'art. 57, comma 5).
Per tale ultima evenienza, il
mercato - da tempo - chiedeva (e
continua a richiedere) la non
applicazione della disciplina dei rifiuti, le volte in cui il residuo
risultasse già in possesso delle
caratteristiche e delle proprietà tipiche
della merce tanto da essere denominato, a secondo delle normative che si
sono succedute nel tempo: "materia
prima secondaria, materia seconda, sottoprodotto, materiale quotato in borse,
listini, mercuriali", ecc.
Dei
gravi contraccolpi - di
contrazione e distorsione dei mercati - che alcune posizioni rigoristiche hanno generato (e persistono a
generare) sul commercio delle materie
seconde e/o degli ex materiali quotati in borsa, il Governo si è mostrato,
da tempo, preoccupato. Tanto che, dopo qualche tentativo abortito, nel corso
della precedente legislatura, a luglio del 2002, si è determinato a ricorrere,
come ricordato, all'adozione del decreto-legge
n. 138/2002, poi convertito in legge dal Parlamento, invocando la
necessità e l'urgenza di provvedere, in materia,
con termini assai espliciti e di merito.[1]
Il Parlamento, da ultimo, in
sede di conversione - partendo
dalla definizione legislativa di cui all'art. 6 comma 1, lett. a), del decreto
Ronchi, per cui costituisce rifiuto "… (al fine del presente decreto) qualsiasi
sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di
cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi"[2]
e, facendo proprio l'insegnamento del giudice
comunitario, secondo il quale "… l'ambito di applicazione della nozione
di rifiuto dipende dal significato del termine "disfarsi" [3]
- ha ritenuto di dover intervenire sull'esatta portata semantica di tale
termine, definendone autenticamente
- cioè per legge [4]-
l'estensione, nelle sue tre forme possibili: "si disfi", "abbia deciso" o "abbia l'obbligo di
disfarsi", in quanto, per le ragioni appena esposte, l'attività di
"disfarsi" ne rappresenta l'elemento
costitutivo e caratterizzante.
Se, sul piano testuale, l'art.
14, nel suo comma 1, esplicita ("interpreta autenticamente" e cioè
in modo vincolante) le tre ipotesi citate, nel comma 2, fissa le
"condizioni di fatto" in presenza della quali non ricorrono le ipotesi del "disfarsi" (cioè i
presupposti fattuali considerati costitutivi della nozione di rifiuto).
Si comprende, pertanto, che la
parte più innovativa della norma consiste proprio nella determinazione
delle condizioni in presenza delle quali non
si dà alcuna attività di "disfarsi".
3.
Il "disfarsi" come "trattamento recuperatorio", non riguarda
i materiali quotati.
Il secondo comma dell'art. 14
risulta, dunque, del seguente tenore:
"Non ricorrono le
fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e
materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti
condizioni:
a)
se gli stessi possono essere e sono effettivamente
e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso
ciclo produttivo o di consumo, senza
subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio
all'ambiente;
b)
se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente
riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo
aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna
operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto
legislativo n. 22[5].
Pur con imperdonabili approssimazioni
espressivi, nella lett. a), del comma 2 (che
sembra essere stato pensato espressamente anche per gli ex-materiali quotati in
borsa) si prevede che i "… materiali residuali di produzione o
consumo" siano riutilizzati:
·
"senza subire alcun intervento
preventivo di trattamento" (espressione che va letta, con riferimento
alla nozione comunitaria di
"disfarsi", come se
dicesse: "senza subire alcun intervento
di recupero completo"[6]);
·
e
"senza recare pregiudizio all'ambiente". Tale ultima condizione, concorrente e non alternativa,
va interpretata nel senso che il residuo produttivo o di consumo, dovendo
possedere "le caratteristiche e le proprietà della materia prima"[7], o non inferiori ad esse -
tanto da essere riutilizzato presso il produttore o presso terzi, "tal
quale" - non dovrà altresì connotarsi per caratteristiche
di pericolo
per l'ambiente, gli addetti e i
terzi (durante le operazioni di raccolta, trasporto ecc. sino al riutilizzo)
superiori a quelle delle materie prime corrispondenti (tale
requisito si impone logicamente e sistematicamente in entrambe le ipotesi del
comma 2, anche se, per svista materiale, non è stata ripetuta sub lett. b).
Quanto alla fattispecie della
lett.
b), del comma 2, l’esclusione è introdotta nel caso in cui detti residui
siano riutilizzati:
·
dopo aver subito "un
trattamento preventivo", (ma) "senza che si renda necessaria
alcuna operazione di recupero tra quelle individuate dall'allegato C del decreto
legislativo n. 22" (anche tale ipotesi risulta riferibile agli
exmercuriali sottoposti dai loro acquirenti a
trattamenti minimali che, non alterando le caratteristiche merceologiche el
residuo, si rendano, però, necessari alla loro riutilizzazione in un nuovo e
distinto processo produttivo).
Merita innanzi tutto rilevare
che le lett. a) e b) del comma 2, appena trascritte,
presuppongono l’assenza tanto
di operazioni di "smaltimento" (atteso il presupposto fattuale che i residui stessi "…possano
essere e sono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo..
analogo .. o diverso ciclo produttivo o di consumo") che di operazioni
di recupero, come espressamente indicato nella ultima frase della lett.
b), già richiamata: "senza che
si renda necessaria alcuna operazione di recupero….".
Tale ultima condizione è ovviamente comune alla lett. a),
anche se espressa, in quest'ultima lettera, assai approssimativamente,
con l’infelice formula "senza subire alcun intervento preventivo di trattamento" (da
intendere: senza "operazioni di
recupero completo", per esprimerci con le parole della decisione Arco
cit.).
4.
Il riutilizzo diretto degli exmercuriali senza "interventi
preventivi".
Si tratta ora di meglio
specificare in che cosa consistano
detti "interventi
preventivi di trattamento"
- cui fa riferimento il legislatore, alla lett.
a) del comma 2, dell'art. 14 - applicabile ovviamente anche ai residui
produttivi già quotati in borsa.
La risposta all'interrogativo
non può prescindere da una soluzione che sia rispettosa del diritto
comunitario, per il quale solo "le operazioni di recupero"
dell'allegato C" (ripetitivo dell'allegato II B della direttiva 156 cit.)
costituiscono "la condizione" per l'esistenza
giuridica stessa del rifiuto ("sostanza od oggetto di cui il detentore
si disfa").
Su tale premessa deve quindi
concludersi che gli "interventi
preventivi di trattamento", indicati dal legislatore italiano,
costituiscono nozione (ed espressione) coincidente con quella comunitaria di "operazioni di recupero completo".
In altri termini, il comma 2,
lett. a) esclude che si possa considerare sottoprodotto (exmercuriale o
materiale quotato in borsa) un residuo produttivo o di consumo che, per essere
riutilizzato, necessiti di un preventivo trattamento di "recupero
completo".
Tale conclusione risulta
logicamente e sistematicamente confermata dalla lettura contestuale della lett. b) -
la quale ribadisce che
il riutilizzo "possa e sia effettivamente compiuto… senza che
si renda necessaria alcuna operazione di recupero.. ex allegato C"
(dando applicazione alla
stessa regola).[8]
Ma, allora, come spiegare
quanto risulta aggiunto dal
legislatore italiano, sub lett. b ("dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda
necessaria alcuna operazione di recupero…")?
Tale proposizione si presenta,
a ben intendere, come semplice
esplicitazione di una distinzione ormai consolidata nella giurisprudenza
della Corte di giustizia, secondo cui, "..
il trattamento preliminare" - contrapposto alle operazioni
di recupero completo - non "è sufficiente a far perdere [alla sostanza] le caratteristiche di rifiuto"
(cfr. sentenza Arco, cit. punti 93-94).
Il "trattamento
preventivo" della lett.
b) - distinto dalle "operazioni di
recupero .. di cui all'allegato C del decreto legislativo n. 22" - altro
non é che il "trattamento preliminare" (del lessico
comunitario)[9].
Ci si deve, in definitiva
riferire a quegli interventi preliminari e
minimali (quali la selezione, separazione, compattamento, cernita,
vagliatura, frantumazione, macinazione ecc. del residuo) che, lungi dal
modificare l'identità merceologica della sostanza o dell'oggetto, risultano però
funzionali al suo inserimento/adeguamento
al nuovo ciclo produttivo o alla linea specifica di produzione cui si
intende destinarlo, per essere riutilizzato "nella sua
identità" primaria sostanziale.
5.
Conclusioni.
I materiali quotati in borsa,
in definitiva, ove "direttamente
utilizzati" dai loro acquirenti (come previsto in molte voci del D.M.
5.2.1998 cit.), sono da escludere dall'area di applicazione della nozione di
rifiuto in quanto, ai sensi del nuovo art. 14, possono
e sono di fatto ed oggettivamente riutilizzati, in diversi cicli produttivi,
da imprese terze, "senza subire alcun intervento preventivo di trattamento
recuperatorio (ex comma 2, lett. a).
Resta ferma la possibilità e
la legittimità che essi vengano sottoposti
- da detti acquirenti - a "trattamenti
preliminari" che non siano "operazioni di recupero di cui
all'allegato C del decreto legislativo n. 22" (ai sensi della comma 2,
lett. b).
Verso tali conclusioni si sta,
da ultimo, orientando anche il giudice di legittimità, nelle sue più recenti e
prevalenti pronunce, non tanto con riferimento espresso agli exmercuriali ma, più
in generale, in relazione ad ogni specie di
residuo produttivo, per il solo fatto di essere una sostanza o materiale
effettivamente destinate all'immediato riutilizzo[10].
Sotto altro profilo, la
denunciata incompatibilità, fra la
nuova definizione legislativa di rifiuto - costituente interpretazione autentica
e vincolante dell'art. 6, comma 1, lett. a) del decreto Ronchi - e le precedenti
previsioni del decreto ministeriale 5.02.1998,
comporta l'abrogazione,
in parte qua, delle voci di
quest'ultimo relative ai residui di produzione e consumo riutilizzati
"tal quali" (cioè senza preventive "operazioni di recupero"
completo).
E' noto, infatti, che nel
rispetto della "gerarchia delle
fonti" del diritto, come prevista dall'art.
1, delle "Disposizioni sulla Legge in Generale" (dette "preleggi"
al codice civile), il regolamento (nel
caso: il D.M. 5.2.1998) viene posto in posizione subordinata
alla legge (nella fattispecie: la legge n. 178/2002, di
"interpretazione autentica") e pertanto non può contraddire ad essa, pena
la sua illegittimità.
Peraltro, ove la
"interpretazione autentica della definizione di rifiuto" - di cui
all'art. 14 - sia
ritenuta restrittiva rispetto a
quella, più ampia, dell'art. 6, cit. - essa prevarrebbe comunque su quest'ultima, proprio perché il
legislatore, nell'interpretare autenticamente una precedente norma, può
innovare e/o modificare il suo contenuto (per es. ampliandolo o, come
nel caso, secondo l'opinione prevalente, riducendolo,
con conseguente caducazione e/o superamento di ogni interpretazione difforme da quella autenticamente decisa dal
Parlamento)[11], in forza del meccanismo
previsto dall'art. 15, delle "preleggi" cit.[12]
Ovviamente la modificazione
della norma primaria (grazie all'art. 14) comporta l’implicita
e conseguente caducazione (per illegittimità
derivata) di tutte quelle norme
regolamentari (come il decreto ministeriale sul recupero del 1998, appena
cit.) che ne costituivano esecuzione e/o
attuazione [13].
[1]
Si legge infatti, nella "Relazione" di presentazione del decreto,
che "…Le iniziative della magistratura…. traggono la loro origine
da un'interpretazione particolarmente restrittiva e contestabile della
normativa sui rifiuti ed in particolare della definizione di "rifiuto", che costituisce il principale
nodo irrisolto della normativa ambientale.
Questo problema
è particolarmente acuto nel nostro Paese dove l'impiego di materiali
poveri o di secondo impiego è largamente e tradizionalmente diffuso a
causa della povertà di materie prime.
Sono molti i settori industriali italiani, dalla siderurgia al
vetro, dalla carta al legno, per i quali la disponibilità e la possibilità
di impiego di questi materiali sono
condizione essenziale per mantenere la competitività sul mercato.
Se questi
materiali sono soggetti alla normativa dei rifiuti,
il loro impiego diventa aleatorio a causa delle prescrizioni ambientali,
tecniche e burocratiche, che disciplinano il settore.
Il problema non
è per altro solo italiano; tutti i paesi comunitari hanno manifestato alla
Commissione Ue la necessità di chiarire
la definizione di "rifiuto" (che è contenuta in una direttiva
comunitaria) per evitare che cautele legittime e giustificate se applicate
ai rifiuti, divengano vincoli
ingestibili per le materie prime di cui l'industria ha necessità. I
tempi comunitari sono però lunghi, incompatibili con le esigenze delle
attività industriali…. (omissis).
Diventa quindi
necessario risolvere il problema
intervenendo sul piano legislativo, recuperando l'interpretazione
autentica della definizione di "rifiuto" nel testo approvato dal
Senato."
[2]
Definizione che ripete fedelmente quella comunitaria di cui all'art. 1,
lett. a) della direttiva 91/156 CEE.
[3]
V. sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie,
Racc. pag. I-7411, punto 26), per la quale: "Risulta inoltre dalle
disposizioni della direttiva 785/442, come modificata, in particolare dagli
artt. 4 e 8-12, nonché dagli allegati II A e II B, che
detto termine ("disfarsi")
include al contempo lo smaltimento e il recupero di una sostanza o di un
oggetto" (p. 27 sentenza da ultimo cit.)".
Conformemente
alla giurisprudenza della stessa Corte, il termine "disfarsi" va
interpretato tenendo conto delle finalità
della direttiva" (v., in particolare, sentenza 28 marzo 1990, cause
riunite C-206/88 e C-207/88, Vessoso e Zanetti, Racc. pag. I-1461, punto
12" e punti 36 e 37 della
sentenza Corte di Giustizia, sez. V, del 15 giugno 2000, Arco).
[10] V.
Cass. pen. III
sez. 11.02.03, ric. Mortellaro, secondo cui “… i materiali di
sbancamento di una pubblica via, riutilizzati
tal quali sul posto, non rientrano nella nozione di rifiuto. La novità
della legge (art. 14, 2° comma) riguarda l’esclusione dal concetto di
rifiuto di “beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di
consumo” ove ricorra la condizione dell’effettivo ed oggettivo
riutilizzo e, nel caso concreto, non sia ravvisabile un pregiudizio per
l’ambiente….. Nel caso in esame, non si è neppure posto il problema
del – contestato – abbandono di rifiuti di provenienza esterna al luogo
in cui veniva operata la manutenzione della conduttura fognaria comunale, ma
al contrario vi è stato un riutilizzo degli stessi materiali scavati”.
Per Cass.
pen. III sez. 31.07.03, ric. Agogliati
ed altri, in un caso di trasporto di miscele
e residui oleosi (slops) è “…
indubbio indice a favore del concetto di “prodotto” e non di
“rifiuto” degli stessi, la circostanza (non opportunamente valutata dal
giudice del riesame) del “notevole valore economico intrinseco del bene e la destinazione finale nel ciclo dell’ulteriore produzione e consumo..
” nonché “..l’integrale riutilizzo in tempi certi attraverso
contratti e altri accordi”, circostanza che spiegava la ragione della
produzione e importazione degli stessi da parte della Società ricorrente.
Nella nota vicenda del
riutilizzo di rottame ferroso e di assali di treno importati
dall'estero da società italiane e destinati alle fonderie per la produzione
dell'acciaio (perché non più utilizzabili per gli scopi originari), la
stessa Cassazione, con recentissima decisione della III° sez. pen. del
13.11.02, ricorrente Pittini
(il quale impugnava la
convalida del sequestro preventivo di circa 2000 kg di rottame ferroso,
contestando la qualificabilità dello stesso come rifiuto), ha avuto modo di
affermare: “… Con riferimento… al caso dei residui riutilizzati senza
trattamento, bisogna fissare il principio che: quando non vi sia necessità di trattamento, ma possibilità di
riutilizzo immediato nel ciclo produttivo non si possa parlare di rifiuto ma
di materia prima secondaria, di per sé riutilizzabile.
Con riguardo, pertanto, alla fattispecie in esame bisogna allora dire
che il rottame ferroso, riutilizzato di per sé, senza
alcuna operazione di trattamento preliminare, è inquadrabile in
quest’ultimo caso: con la conseguente inapplicabilità della normativa
relativa ai rifiuti
Analogamente il TAR
Veneto, sentenza n. 3479/2003, con riferimento al caso di una società
produttrice di “elementi prefabbricati di calcestruzzo”, che impiegava
quelli risultati fallati per
realizzare “il sottofondo del piazzale” (di cui era stata
ordinata dal Comune
“la rimozione e lo smaltimento"). Su tale punto il giudice
amministrativo ha accolto il ricorso sulla base della considerazione che
detto calcestruzzo “..non può, nel caso in esame, essere definito come rifiuto…...
in quanto utilizzato tal quale, come materia prima, senza ulteriori
trattamenti.
[12]
Che detta: " Le leggi non
sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del
legislatore, o per incompatibilità
tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge
regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore".
Il contrasto con la direttiva europea, semmai, può
costituire oggetto di intervento della Commissione che può aprire una
"procedura di infrazione" contro lo Stato italiano, sino ad adire
la Corte di Giustizia, in caso di non adeguamento dello Stato al parere
motivato della stessa Commissione, ai sensi dell'art. 226 (già 169) del
Trattato di Roma. Neppure può dirsi
che il giudice abbia il potere o il dovere, ex art, 234 (già 177) del
Trattato, di adire direttamente la
Corte di Giustizia per acquisire un’interpretazione pregiudiziale
dell'atto europeo, non solo perché la direttiva europea è di chiara
interpretazione, ma soprattutto perché, nella fattispecie, a
dover essere interpretata è, semmai, la norma italiana e non quella
europea. In altri termini, l’interpretazione pregiudiziale, che compete
alla Corte di Giustizia, riguarda il Trattato o gli atti delle istituzioni
della Comunità e della BCE, non già gli atti del legislatore nazionale.
Così, stabilita l'applicabilità diretta ed immediata della norma di legge
sopravvenuta, si tratta quindi di rivalutare la fattispecie concreta in
esame alla luce della nuova norma".