Cass. Sez. III n. 13607 del 28 marzo 2019 (UP 8 feb 2019)
Pres. Sarno Est. Ramacci Ric. Martina
Urbanistica.Desistenza dalla prosecuzione dell’intervento edilizio abusivo

La desistenza dalla prosecuzione dell’intervento edilizio abusivo, che deve essere definitiva e non soltanto temporanea, richiede, necessariamente, di essere efficacemente dimostrata attraverso dati obiettivi ed inequivocabili, non potendosi basare su mere attestazioni, poiché, diversamente, ogni interruzione dei lavori, anche se dovuta a circostanze contingenti, potrebbe essere utilizzata per rappresentare una più vantaggiosa collocazione temporale dei lavori abusivi

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d'Appello di Lecce, con sentenza del 29 gennaio 2018 ha confermato la decisione con la quale, in data 14 luglio 2015, il Tribunale di quella città aveva affermato la responsabilità penale di Cosimo MARTINA ed Angela SPAGNOLO in ordine al reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 44, lett. b) d.P.R. 380/2001, per avere, in concorso fra loro e nella qualità di proprietari committenti, realizzato, in adiacenza ad una parte di un fabbricato di più vecchia costruzione, di loro proprietà, in totale assenza di permesso di costruire, opere edili consistenti nella realizzazione di un fabbricato allo stato rustico della superficie coperta pari a mq 80 (in Leverano, accertato il 4 settembre 2012).
Avverso tale pronuncia i predetti propongono congiuntamente ricorso per cassazione tramite il comune difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2. Con un primo motivo di ricorso deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione, osservando che la Corte territoriale non avrebbe fornito adeguata risposta a tutte le censure formulate con l'atto di appello.
Rilevano, a tale proposito, che le conclusioni cui sono pervenuti i giudici dell'appello sarebbero inficiate da carenza di adeguato supporto probatorio nella parte in cui hanno ritenuto che il manufatto abusivo fosse in fase di realizzazione al momento del sequestro, nonostante l'assenza di elementi tali da giustificare l'esistenza di lavori in corso e non anche, come sostenuto dalla difesa degli imputati, che l'opera era stata invece completata anni prima allo stato rustico, sicché la  la Corte territoriale avrebbe dovuto accertare e dichiarare la prescrizione e la conseguente estinzione del reato.
Precisano che, da quanto emerso dal istruttoria dibattimentale e dalla documentazione prodotta, vi sarebbero dati obiettivi che consentono di collocare temporalmente in dieci anni prima del sopralluogo la data di realizzazione delle opere, quali l'allaccio dell'energia elettrica nel 2006-2007 e la constatazione che, in quello stesso periodo, vi era stata la sospensione di ogni attività edilizia per le ragioni rappresentate nel giudizio di merito.
Rilevano che, a fronte di tali dati obiettivi, la sentenza impugnata sarebbe fondata esclusivamente su valutazioni intuitive, frutto di una vera e propria forzatura logica.

3. Con un secondo motivo di ricorso affermano che la decisione della Corte di appello è censurabile anche nella parte in cui non esclude la responsabilità di Angela SPAGNOLO, la quale non può essere considerata corresponsabile per il solo vincolo di coniugio esistente con il coimputato e per il fatto che l'immobile fosse destinato al figlio della coppia.

4. Con un terzo motivo di ricorso deducono il vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed ai criteri di determinazione della pena, osservando che si tratta, nella fattispecie, di soggetti pressoché incensurati e che le modalità e le circostanze dell'azione sarebbero stati certamente in grado di esprimere una ridotta capacità a delinquere ed una scarsa pericolosità sociale.
Insistono, pertanto, per l'accoglimento dei ricorsi .


CONSIDERATO IN DIRITTO


1. I ricorsi sono inammissibili perché basati su motivi manifestamente infondati.

2. Occorre rilevare, quanto al primo motivo di ricorso, che la sentenza impugnata ha individuato la data di decorrenza del termine di prescrizione in quella del sequestro del manufatto abusivo, ritenendo che in quel momento le opere non potevano ritenersi ultimate.
I giudici del gravame giustificano tale decisione non già sulla base di mere intuizioni, come affermato dai ricorrenti, bensì dando conto della consistenza delle opere in quel momento, desumibile dalla documentazione fotografica, la quale, viene precisato in sentenza, evidenzia l’assenza di intonaco sulle pareti esterne ed interne dell’edificio, la mancanza di infissi (porte e finestre), pavimenti, impianti elettrico e di riscaldamento, seppure in parte predisposti.
Fatta tale constatazione, la Corte del merito richiama correttamente la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato che il reato urbanistico ha, infatti, natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l’avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell’attività edificatoria abusiva (v. Sez. U, n. 17178 del 27/2/2002, Cavallaro, Rv. 221398).
Si è poi precisato (ex pl. Sez. 3, n. 38136 del 25/9/2001, Triassi, Rv. 220351) che la cessazione dell’attività si ha con l’ultimazione dei lavori per completamento dell’opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale) o con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio (v. anche Sez. 3, n. 29974 del 6/5/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498).
Si è inoltre chiarito che l’ultimazione dell’opera coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 32969 del 8/7/2005, Amadori, non massimata sul punto ed altre prec. conf., nella stessa richiamate. V. anche Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153).
Deve trattarsi, in altre parole, di un edificio concretamente funzionale, che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come si ricava dal disposto del primo comma dell’art. 25 del TU dell’edilizia, che fissa “entro quindici giorni dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento” il termine per la presentazione, allo sportello unico, della domanda di rilascio del certificato di agibilità. Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti (Sez. 3, n. 4048 del 6/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365; Sez. 3 n. 34876 del 23/6/2009, Anselmo, non massimata; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep. 2012), Forte, Rv. 252125). Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che costituiscono annessi dell'abitazione (Sez. 3, n. 8172 del 27/1/2010, Vitali, Rv. 246221).

3. I giudici dell’appello hanno ulteriormente specificato che l’appellante si era limitato a sostenere di avere sospeso le opere e non anche di aver interrotto definitivamente il loro completamento, evidenziando come difettasse la prova rigorosa della desistenza richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte.
Viene, a tale proposito, citata una risalente pronuncia, secondo la quale la permanenza del reato urbanistico cessa con l'ultimazione dei lavori del manufatto, quando la condotta antigiuridica dell'agente prosegua fino all'ultimazione dell'opera, ivi comprese le rifiniture, ovvero al momento della cessazione dei lavori, quando vi sia stata l'effettiva interruzione dell'attività costruttiva, sia essa volontaria, da provare rigorosamente, o dovuta a provvedimento autoritativo (Sez. 3, n. 8352 del 5/7/1994, Cesaro, Rv. 198703).

4. Si tratta di un principio che il Collegio condivide ed al quale intende assicurare continuità, dal momento che la desistenza dalla prosecuzione dell’intervento, che deve essere definitiva e non soltanto temporanea, richiede, necessariamente, di essere efficacemente dimostrata attraverso dati obiettivi ed inequivocabili, non potendosi basare su mere attestazioni, poiché, diversamente, ogni interruzione dei lavori, anche se dovuta a circostanze contingenti, potrebbe essere utilizzata per rappresentare una più vantaggiosa collocazione temporale dei lavori abusivi.
Una simile esigenza, peraltro, è maggiormente avvertita laddove, come nel caso di specie, si tratti di opere pacificamente in corso di esecuzione, la cui realizzazione, seppure interrotta, può essere ripresa in ogni momento e la cui permanenza in condizioni di parziale completamento risulta irragionevole se non giustificata in maniera coerente, considerate anche le conseguenze derivanti, ad esempio, dalla mancata fruizione del costruendo manufatto o dalla esposizione dello stesso agli agenti atmosferici.

5. A fronte di tali considerazioni, appare evidente l’inefficacia delle argomentazioni prospettate dai ricorrenti e compendiate nei motivi di appello indicati nella sentenza impugnata, relativi ai riferimenti, effettuati da un teste, al deposito di polvere sui conci di tufo del manufatto che ne dimostrerebbero la vetustà e l’allaccio dell’energia elettrica nel 2006-2007, cui viene fatto riferimento anche in ricorso, peraltro ribadendo che la realizzazione delle opere era stata, a quella data, sospesa (pag. 4 del ricorso) e non che fosse definitivamente cessata.

6. Va poi ricordato, con riferimento all’attivazione delle utenze quale dato significativo per la datazione dell’intervento edilizio abusivo, come la giurisprudenza di questa Corte abbia ripetutamente precisato che la materiale utilizzazione di un immobile e l'eventuale attivazione di utenze non sono elementi da soli sufficienti per dimostrare la sua concreta ed effettiva funzionalità e la presenza di tutti i requisiti di agibilità o abitabilità che consentano di ritenerlo ultimato (Sez. 3, n. 40033 del 18/10/2011, Cappello, Rv. 250826. Conf. Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura, Rv. 251424; Sez. 3, n. 48002 del 17/9/2014, Surano, Rv. 261153).
Tale affermazione, che, come è chiaro, esclude sostanzialmente la possibilità di presumere la datazione dell’intervento edilizio abusivo semplicemente sulla base della mera attivazione delle utenze e la materiale utilizzazione dell’immobile, trattandosi di circostanze che non eliminano del tutto la possibilità di proseguire nell’esecuzione delle opere, né dimostrano la definitiva cessazione dei lavori (l’attivazione dell’energia elettrica, infatti, può addirittura essere necessaria per l’esecuzione delle opere e l’uso dell’immobile può essere parziale o non incompatibile con l’attività edilizia ancora da eseguire) non si pone in contrasto con quanto rilevato in altre pronunce, ove si è stabilito che non possono escludersi ipotesi marginali in cui la permanenza del reato sia terminata anche senza l'ultimazione dell'opera nel senso chiarito dalla citata giurisprudenza, come, ad esempio, quando risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie (Sez. 3, n. 29974 del 6/5/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498) essendo quest’ultimo un elemento sintomatico da solo non sufficiente a far ritenere cessata la permanenza (Sez. 3, n. 3067 del 8/9/2016 (dep. 2017), P.G. in proc. Conti e altri, Rv. 269022), risultando peraltro evidente che, in ogni caso, a tale particolare situazione deve accompagnarsi necessariamente la dimostrata definitiva cessazione dei lavori.
Il motivo di ricorso risulta, pertanto, manifestamente infondato.

7. A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che concerne il secondo motivo di ricorso.
In tema di responsabilità per abuso edilizio del proprietario (o comproprietario) dell’area non formalmente committente la costante giurisprudenza di questa Corte richiede la disponibilità di indizi e presunzioni gravi, precise e concordanti che sono stati individuati, ad esempio, nella piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e nell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui prodest");  nei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; nell'eventuale presenza "in loco" del proprietario dell’area durante l'effettuazione dei lavori; nello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; nella richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; nel particolare regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari; nella fruizione dell'opera secondo le norme civilistiche dell'accessione ed in tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa. Grava inoltre sull'interessato l'onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà (così Sez. 3 n. 35907 del 29/05/2008, Calicchia, non massimata, che riporta anche gran parte degli esempi sopra indicati e ampi richiami a precedenti pronunce. Conf.  Sez. 3, n. 38492 del 19/5/2016, Avanzato, Rv. 268014; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e altro, Rv. 261522; Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013, Menditto, Rv. 257625; Sez. 3, n. 25669 del 30/5/2012, Zeno, Rv. 253065).

8. Con specifico riferimento al rapporto di coniugio, si è osservato che la compartecipazione di un coniuge nel reato materialmente commesso dall’altro non può essere desunta dalla mera qualità di comproprietario.
Sono stati pertanto successivamente individuati, quali elementi indizianti: il fatto che entrambi i coniugi siano proprietari del suolo su cui è stato realizzato l'edificio abusivo e che entrambi abbiano interesse alla violazione dei sigilli per completare l'opera al fine di trasferire la loro residenza (Sez. 3 n. 28526 del 30/5/2007, Mele, non massimata); l'abitare nel luogo ove si è svolta l'attività illecita di costruzione; l'assenza di manifestazioni di dissenso; il comune interesse alla realizzazione dell'opera (fattispecie relativa ad imputata la quale, benché formalmente residente in altro comune, conviveva con il marito, era con il predetto in regime di comunione di beni e ne condivideva anche le iniziative patrimoniali, tanto da rimanere coinvolta, in un precedente giudizio, unitamente al coniuge, in altri illeciti edilizi) (Sez. 3 n. 23074 del 16/4/2008, Di Meglio, non massimata); il regime patrimoniale dei coniugi (comunione dei beni); lo svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria e la presenza in loco all'atto dell'accertamento (Sez. 3 n. 40014 del 18/9/2008, Mangione, non massimata).
I principi sopra richiamati sono stati recentemente ribaditi (Sez. 3, n. 51489 del 18/9/2018, B, Rv. 274108, non massimata sul punto), affermando che, in tema di reati edilizi la responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente commesso dall’altro può essere rilevata sulla base di oggettivi elementi di valutazione quali il comune interesse all’edificazione, il regime di comunione dei beni, l’acquiescenza all’esecuzione dell’intervento, la presenza sul luogo di esecuzione dei lavori, l’espletamento di attività di controllo sull’esecuzione dei lavori, la presentazione di istanze o richieste concernenti l’immobile o l’esecuzione di attività indicative di una partecipazione all’attività illecita.

9. Anche in questo caso i giudici dell'appello hanno tenuto adeguatamente conto dei principi appena ricordati ed hanno chiarito come la responsabilità della SPAGNOLO, comproprietaria, è stata ritenuta in quanto la stessa era convivente con il coniuge e risedeva stabilmente a poche centinaia di metri dall’immobile interessato dalla trasformazione edilizia, la quale era stata posta in essere al fine di ospitare il figlio della coppia dopo il matrimonio.
Tali evenienze sono state pertanto ritenute dalla Corte di appello, del tutto correttamente, idonee a superare le dichiarazioni liberatorie del coniuge coimputato.

10. Anche la infondatezza del terzo motivo di ricorso è manifesta.
Il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è stato correttamente escluso in assenza di positivi elementi di valutazione (Sez. 3, n. 19639 del 27/1/2012, Gallo, Rv. 252900; Sez. 1, n. 3529 del 22/9/1993, Stelitano, Rv. 195339;  Sez. 6,  n. 6724 del 1/2/1989, Ventura, Rv. 181253), a nulla rilevando la circostanza, evidenziata in ricorso, che gli imputati sono “pressoché incensurati”, ostandovi il disposto dell’art. 62-bis, comma 3 cod. pen.

11. Quanto alla dosimetria della pena, i giudici del gravame hanno richiamato la gravità del fatto, desumibile dalla superficie, ritenuta tutt’altro che esigua, dell’immobile abusivo e tale evenienza risulta del tutto sufficiente a giustificare il corretto esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena e dei criteri di valutazione fissati dall’articolo 133 cod. pen., non essendo richiesto al giudice di procedere ad una analitica valutazione di ogni singolo elemento esaminato, ben potendo assolvere adeguatamente all’obbligo di motivazione limitandosi anche ad indicarne solo alcuni o quello ritenuto prevalente (v. Sez. 2, n. 12749 del 19/3/2008, Gasparri e altri, Rv. 239754).

12. I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili e alla declaratoria di inammissibilità  consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00 per ciascun ricorrente.
L'inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all'art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità (Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, Rv. 256463, Sez. 4, n. 18641 del 20/1/2004, Tricomi, Rv. 228349; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D. L, Rv. 217266).


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del processuali e della somma di euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in data 8/2/2019